Hanno ucciso Franco Basaglia

di Michele Miravalle

Hanno ucciso Franco Basaglia: ritornano gli “inemendabili” ed è tutto pronto per la contro-riforma

Hanno dovuto attendere l’ ‘allineamento degli astri’ di tre fattori: un clima politicamente favorevole, da contro-riforma; il quasi-collasso dei servizi territoriali di salute mentale – cuore pulsante della legge 180/1978 – strutturalmente definanziati; la diffusa esasperazione emotiva e professionale degli operatori e operatrici della salute mentale.

Hanno ucciso Franco Basaglia. Lo hanno ucciso a cento anni esatti dalla sua nascita, proprio quando ancora si stava celebrando il compleanno secolare.
Hanno dovuto attendere l’ ‘allineamento degli astri’ di tre fattori: un clima politicamente favorevole, da contro-riforma; il quasi-collasso dei servizi territoriali di salute mentale – cuore pulsante della legge 180/1978 – strutturalmente definanziati; la diffusa esasperazione emotiva e professionale degli operatori e operatrici della salute mentale.

Hanno quindi scelto di iniziare dal più controverso aspetto dell’universo della salute mentale, quello degli autori di reato. Laddove la Giustizia e la Psichiatria si fondono in un “abbraccio mortale” e dove il sentimento pubblico della paura rende difficile, in concreto, bilanciare la “cura” della persona e la “sicurezza” della collettività.
É in quest’ottica che va letta la delibera con cui il plenum del Consiglio Superiore della Magistratura1, il 22 gennaio 2025 «ha preso atto» – e dunque condiviso- il «documento predisposto dalla Commissione mista per i problemi della magistratura di sorveglianza relativi alle problematiche connesse alle REMS», redatto il 12 novembre 2024.
Sul piano normativo, regolamentare e delle pratiche, quella delibera non cambia nulla e va interpretata come un documento “di indirizzo politico”, che tuttavia avvalora una certa visione del problema e indica sette proposte destinate al legislatore.
L’importanza di quel documento è data piuttosto da chi lo ha emanato, l’organo costituzionale di autogoverno della magistratura, che rappresenta l’intero potere giudiziario. Quello stesso organo, in occasioni precedenti, in particolare con le risoluzioni del 19 aprile 2017 e del 24 settembre 2018, aveva svolto riflessioni molto diverse sul tema e di tutt’altro respiro.
Nel 2025, oggi, il ‘clima’ è evidentemente cambiato e il CSM ha -legittimamente- ritenuto di adeguarsi.

Quel documento, all’indomani della sua approvazione, ha raccolta diversi rilievi critici da parte di commentatrici e commentatori da sempre attenti al tema delle misure di sicurezze psichiatriche da una prospettiva costituzionale (in questo senso, il documento del Centro di Ricerca “Diritto Penitenziario e Costituzione”), penalistica (cfr. Francesco Schiaffo in Questione Giustizia) e infine dal punto di vista delle professioni forense e sanitaria (cfr. Antonella Calcaterra, Pietro Pellegrini e Beatrice Secchi per Sistema Penale2). Questi commenti, tutti condivisibili, arrivano dall’interno del campo giuridico e analizzano i “dubbi del giurista” di fronte alla posizione del Csm.

In questo contributo si vuole invece sottolineare come le parole del Csm siano rappresentative di una cultura diffusa, non solo giuridica. Il rischio è che, come vedremo, quelle posizioni contengano i germogli avvelenati della contro-riforma psichiatrica e ne diano “copertura scientifica”.

Contro-riforma? I soliti allarmisti accecati dall’ideologia

A leggere il precedente paragrafo ad alcuni lettori potrebbe venire il dubbio di un eccesso di allarmismo, di una lettura esagerata di un documento tecnico che, in fin dei conti, si occupa di una questione molto circoscritta e estremamente specialistica.
Prevengo qui due ordini possibili di critica:

Il primo: sottostimare le questioni pratiche-gestionali che riguardano i folli-rei, preferendo una lettura ideologicamente orientata del problema.
Ogni qual volta si prova a portare la discussione su un piano teorico, ragionando sul senso dei provvedimenti, la critica scontata è quella di “non essere concreti”, di non capire le esigenze del qui ed ora o, ancor peggio, non comprendere l’“altra metà” del cielo delle istituzioni totali, gli operatori e le operatrici che in quegli spazi convivono con i pazienti e sono talvolta il bersaglio della loro rabbia, della frustrazione, della violenza fisica e verbale.
È questo un espediente retorico abusato e che lascia il tempo che trova. La storia del superamento degli Opg e della deistituzionalizzazione psichiatrica italiana non è stata solo un dispositivo burocratico di aggiustamento di pratiche e procedure, ma si è collocato – pur tra mille compressi – nell’ambito di un pensiero e di una volontà politica: liberarsi dalla necessità del manicomio, per dirla con le parole Mario Tommasini.
Insomma senza una trasformazione politico-culturale, fieramente ideologica, della concezione stessa del paziente psichiatrico da parte del corpo sociale, la “riforma psichiatrica” semplicemente non sarebbe stata.
Oggi infatti, tendiamo a distinguere tra processi di de-ospedalizzazione e di vera de-istituzionalizzazione, laddove «la de-ospedalizzazione è un atto amministrativo che fa uscire un paziente dalla istituzione-manicomio mentre la de-istituzionalizzazione è un percorso che fa uscire il paziente dall’istituzione-psichiatria»3.

Il “governo della follia” si misura insomma sul rapporto tra la malattia, che qualifica una “diversità” con la società dei sani e il potere, che legittima il “controllo e l’esclusione” del malato dalla comunità. Questo rapporto non ha nulla di naturale e immutabile, ma è artificiale, cioè socialmente costruito e cambia a seconda delle epoche storiche e del contesto culturale.

Il “governo della follia” si misura insomma sul rapporto tra la malattia, che qualifica una “diversità” con la società dei sani e il potere, che legittima il “controllo e l’esclusione” del malato dalla comunità. Questo rapporto non ha nulla di naturale e immutabile, ma è artificiale, cioè socialmente costruito e cambia a seconda delle epoche storiche e del contesto culturale.
Franca Ongaro Basaglia a tal proposito scriveva: «Cosa ha annientato il malato? L’autorità. Per riabilitarlo occorre abituarlo a ribellarsi. Dato però che il nostro sistema sociale non è interessato alla riabilitazione del malato mentale, in quanto non ha lavoro neanche per i sani, bisogna riformare anche la società».4
Insomma immaginare strumenti di cura-controllo dei pazienti psichiatrici autori di reato senza ragionare sugli aspetti teorici-ideali è un nonsenso che va evitato. Nessuno dunque, neanche il Consiglio Superiore della Magistratura, può trincerarsi dietro la scusa di avere dato “solo soluzioni tecniche”.

Il secondo livello di critica potrebbe essere sollevato da chi è più esperto di storia della psichiatria e fonda su un fatto: la c.d. riforma Basaglia non parlava dei folli-rei. Nelle intenzioni del legislatore della riforma vi era quindi la volontà di chiudere i manicomi civili e di distinguere le politiche sulle misure di sicurezza per autori di reato. Insomma, in quest’ottica, si potrebbe obbiettare che non è possibile una contro-riforma, non essendoci stata una riforma.
É in effetti andata così. All’indomani dell’approvazione della l. 180/1978 in una storica intervista a La Stampa del 12 maggio 1978, Basaglia stesso dichiarava:

«Questa legge nasce come un compromesso per superare lo scoglio del referendum, che avrebbe eliminato una legge deprecabile, ma avrebbe lasciato un vuoto normativo che comunque andava colmato. Un compromesso politico quindi è quello che è. Esso va visto nell’ambito della volontà del governo di far rientrare questa normativa nella progettata riforma sanitaria. È uno stralcio, una norma transitoria. Questo alimenta le perplessità sulle contraddizioni che la nuova normativa contiene, e le speranze che essa possa condurre a posizioni più avanzate».

Si abrogava l’art.1 della legge n. 36 del 1904 laddove si disponeva che «debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo o non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi». Spariva la contestata categoria giuridica dei “pericolosi a sé e agli altri”, ma per gli autori di reato tutto rimaneva immutato. Da allora, la storia della salute mentale “civile” si distinse inesorabilmente dalla salute mentale “criminale”.

Ecco perché quando il Csm si riferisce alle REMS e al trattamento degli autori di reato fa ragionamenti che, in prospettiva, potrebbero applicarsi alla salute mentale “civile”.

Tuttavia sarebbe questo un approccio tecnico-formalista che nega l’evidenza di un continuum tra i due mondi che, nella quotidianità, sono spesso intrecciati. Dunque immaginare una “svolta securitaria” delle misure di sicurezza a scapito della cura, avrebbe certamente effetti sulla cultura psichiatrica nel suo complesso. Ecco perché quando il Csm si riferisce alle REMS e al trattamento degli autori di reato fa ragionamenti che, in prospettiva, potrebbero applicarsi alla salute mentale “civile”.

Cosa vorrebbe il Consiglio Superiore della magistratura? Una lettura critica

Sgombrato il campo dalle critiche di ordine generale, elenchiamo testualmente le sette “proposte” del Csm sul futuro della cura-controllo dei pazienti psichiatrici autori di reato, contenuti nella delibera del 22 gennaio 2025. Dopo un articolato lavoro di discussione e di audizioni, i magistrati propongono:

  1. Implementazione dei posti disponibili presso le strutture destinate a R.E.M.S. di circa 700 unità, corrispondenti al fabbisogno stimato per ridurre le liste di attesa, salvaguardando tendenzialmente il principio di territorialità della misura;
  2. Costituzione di un osservatorio per il monitoraggio dei dati ed istituzione di un albo specializzato di periti del Giudice (consulenti del P.M.) appositamente formati per valutare la capacità di intendere e di volere e la pericolosità sociale del soggetto;
  3. Individuazione di meccanismi operativi che consentano un efficace scambio interistituzionale tra servizi sanitari e magistratura, in modo da consentire all’A.G. di intervenire celermente per rivalutare i profili di rilievo, eventualmente modificando la misura di sicurezza applicata, qualora l’osservazione clinica svolta dagli operatori sanitari dia conto di discrasie e divergenze rispetto alle valutazioni già effettuate, sia con riferimento alla capacità di intendere e di volere, che in relazione alla pericolosità sociale;
  4. Potenziamento delle sezioni Articolazioni per la Tutela della Salute Mentale (ATSM) all’interno degli istituti penitenziari e realizzazione di apposite sezioni specialistiche psichiatriche per soggetti tossicodipendenti con comorbilità;
  5. Individuazione di un “doppio” circuito che distingua tra pazienti stabilizzati che possano seguire un percorso di riabilitazione psichiatrica finalizzato ad un prossimo reinserimento sociale e soggetti con un profilo di pericolosità bisognoso di contenimento, da gestire in strutture di alta sicurezza (le ipotizzate tre REMS Nord – Centro – Sud) ove accordare prevalenza al profilo custodiale;
  6. Ricognizione delle strutture psichiatriche presenti sul territorio con setting assistenziali differenziati per pazienti ordinari e pazienti “autori di reato”;
  7. Sollecito intervento del Legislatore al fine di riconoscere al Ministero della Giustizia la gestione delle R.E.M.S., in leale cooperazione con le restanti figure istituzionali via via coinvolte secondo le indicazioni della Corte Costituzionale sentenza n. 22/2022.

Il ritorno della Giustizia

Ognuno di questi punti meriterebbe riflessioni a sé stanti piuttosto articolate. Va riconosciuto al Csm di aver individuato i “nodi” effettivamente più sentiti dagli operatori. Il problema è la “risposta” su come sciogliere quei nodi.

Nel complesso, si legge una urgenza di un ritorno della supremazia della Giustizia sulla Salute. Giustizia intesa come apparato burocratico, chiamato a garantire legge e ordine, che dovrebbe tornare ad avere saldamente il “controllo” del microcosmo dei pazienti psichiatrici autori di reato.

Nel complesso, si legge una urgenza di un ritorno della supremazia della Giustizia sulla Salute. Giustizia intesa come apparato burocratico, chiamato a garantire legge e ordine, che dovrebbe tornare ad avere saldamente il “controllo” del microcosmo dei pazienti psichiatrici autori di reato.
É questa una vera e propria rottura, una inversione di rotta rispetto alla strada percorsa nell’ultimo ventennio. Sinteticamente infatti, possiamo affermare che dall’approvazione del DPCM 1 aprile 2008 quando si fissò il percorso di superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari quale tappa fondamentale della più ampia “riforma della sanità penitenziaria”, tutto andava nella direzione della sanitarizzazione delle misure di sicurezza.
I luoghi della cura-controllo del folle-reo dovevano essere “sanitari”, nell’organizzazione degli spazi, nella loro gestione, nella cultura professionale prevalente.

Questo ritorno all’ordine e disciplina che potrebbe portare le Rems sotto la gestione del Ministero della Giustizia persegue due obiettivi che restano celati nel documento del Csm, ma che possiamo leggere tra le righe.

Il primo, “risolvere” in maniera radicale quella che dagli operatori della giustizia è considerata la più grande onta del superamento degli Opg, dare il “controllo” dei flussi di ingresso e uscita degli autori di reato agli operatori sanitari e non ai magistrati.

Chi ha seguito da vicino le prime fasi di applicazione della legge 81/2014 sa bene quanto molti magistrati giudicassero (e giudichino) “inaccettabile” il fatto che gli “ordini di ricovero” emanati non venissero eseguiti, perché i direttori sanitari delle neonate Rems si rifiutavano di accogliere persone oltre il numero massimo di posti disponibili.

Questo meccanismo “costringeva”, nei fatti, a trovare altre soluzioni diverse dal ricovero in Rems e inaugurava l’inedito sistema delle liste d’attesa. Le Rems sono infatti il primo e unico esempio di applicazione del “numero chiuso” nell’ambito dell’esecuzione penale in Italia.
Tutto questo, agli occhi della magistratura, è stato letto quasi come un atto di lesa maestà e di indebito condizionamento della libertà decisionale del giudice.

Immaginiamo che cosa avverrebbe se un dirigente penitenziario di un carcere, dipendente dal Ministero della Giustizia, “osasse” rifiutare l’ingresso di una persona detenuta a causa dell’eccessivo sovraffollamento dell’istituto e della impossibilità di svolgere il mandato trattamentale stabilito dalla legge. Sappiamo quanto, nel mondo penitenziario, le “capienze regolamentari” degli istituti siano interpretate come mere indicazioni, derogabili sempre e comunque. Nelle Rems questo non è avvenuto e quel numero “massimo” previsto per legge è stato sempre rispettato in maniera puntuale.

Proprio questo, aveva “ispirato” il Tribunale di Tivoli a sollevare la questione di legittimità costituzionale sulla legittimità del numero chiuso e della gestione sanitaria delle misure di sicurezza. La sentenza della Corte Costituzionale (sentenza 22/2022) non aveva accolto quei rilievi, pur con motivazioni molto articolate, ma il “nodo”, come si legge dalle parole del Csm, resta e ritorna.

Va letta proprio in quest’ottica anche l’abnorme richiesta del Csm di «implementazione dei posti disponibili in Rems di circa 700 unità».

Il Csm propone di raddoppiare tout court i posti delle attuali Rems. Nessuno, neanche gli operatori dalla visione più “securitaria”, ha mai immaginato un aumento così considerevole di posti, limitandosi a richieste più limitate e circoscritte a specifici territori.

La ragione del “calcolo” del Csm è facilmente svelato: se è vero che nei vecchi Opg il numero di internati è sempre oscillato tra le 1.2000 e le 1.500, allora ‘c’è bisogno’ di Rems altrettanto capienti. Solo così, nessun magistrato potrà “correre il rischio” di non vedere applicato un ordine di ricovero per mancanza di posti.

Il secondo motivo per giustificare un ritorno della Giustizia nella gestione delle Rems, asseconda una tendenza che caratterizza molte delle Rems presenti sul territorio nazionale: la securitarizzazione degli spazi. Dall’apertura delle Rems, sono progressivamente comparse porte allarmate, spazi chiusi, sistemi di sorveglianza, reti e grate alle finestre e, in ultimo, personale di vigilanza privata con un crescente accesso agli spazi di ricovero, oltreché alle aree di ingresso e uscita.

A dire il vero, si tratta di una tendenza osservabile in molti spazi sanitari, in particolare quelli della salute mentale, dagli SPDC fino alle comunità terapeutiche. La maggior sicurezza può essere osservata sul piano estetico (maggiore o minore chiusura degli ambienti comunitari, presenza o assenza di cancelli, videosorveglianza, controlli all’ingresso…) e sul piano relazionale (maggiore o minore “tolleranza” rispetto alle violazioni delle regole comunitarie o delle prescrizioni relative alla misura di sicurezza, frequenza di richieste di intervento delle forze dell’ordine).

La percezione generalizzata di un aumento dei tassi di violenza e di esposizione al rischio degli operatori è la principale ragione che viene portata a supporto della necessità di “più sicurezza”. Il dubbio è se la gestione del Ministero della Giustizia e il conseguente ritorno della polizia penitenziaria auspicato dal Csm sia una soluzione efficace.

Gli inemendabili. L’eterno ritorno delle “classi pericolose”

Il passaggio più controverso della delibera del Csm è senza dubbio il punto 5, dove si auspica l’ «individuazione di un ‘doppio’ circuito che distingua tra pazienti stabilizzati che possano seguire un percorso di riabilitazione psichiatrica finalizzato ad un prossimo reinserimento sociale e soggetti con un profilo di pericolosità bisognoso di contenimento, da gestire in strutture di alta sicurezza (le ipotizzate tre REMS Nord – Centro – Sud) ove accordare prevalenza al profilo custodiale».
In altre parti del documento, il Csm usa la più schietta definizione di persone “inemendabili”.
È pacifico che il termine “inemendabile” non abbia alcun significato medico e sanitario, la sua ragion d’essere vada ritrovata nel vocabolario del controllo.

Quel termine ci riporta agli albori delle tecniche di segregazione, quando malattia mentale e pericolosità erano un binomio indissolubile. Allora la persona con patologia psichica era da “neutralizzare”, ricorrendo alla sua esclusione fisica, giuridica e morale dal “patto sociale”.

Quel termine ci riporta agli albori delle tecniche di segregazione, quando malattia mentale e pericolosità erano un binomio indissolubile. Allora la persona con patologia psichica era da “neutralizzare”, ricorrendo alla sua esclusione fisica, giuridica e morale dal “patto sociale”.
In questo atto di rimozione/esclusione dalla società risiedeva la quintessenza del dispositivo manicomiale, con il cancello a delineare il confine tra persone portatrici di diritti e non-persone pericolose.
Lo sfondamento fisico dei cancelli del manicomio e la contaminazione tra società dei sani/liberi e società dei malati/internati era la potente metafora del superamento del paradigma dell’esclusione e l’introduzione del nuovo paradigma dell’inclusione.
Oggi, sembra dire il Csm, occorre tornare indietro e prendere atto di una sconfitta. Serve chiudere un’epoca.

La critica si fa ancora più severa se si indaga il criterio che distingue “emendabili” da “inemendabili”, che, secondo il Csm, dovrebbe essere quello di un accentuato profilo di pericolosità.
Secondo i magistrati dunque, la pericolosità sociale, non la gravità del reato commesso, né il grado di adesione ad un programma terapeutico-trattamentale dovrebbe diventare il criterio guida.
Nella proposta del Csm non si chiarisce nè chi dovrebbe riconoscere la lettera scarlatta dell’inemendabilità (il giudice, il medico della Rems, un perito nominato ad hoc, una commissione?) né quali sarebbero le conseguenze.

Insomma, una volta preso atto della “inemendabilità” e collocata la persona in una Rems per inemendabili, quale sarebbe il “progetto terapeutico individuale”, quanto tempo durerebbe il ricovero? Tornerebbe l’abominio giuridico degli ergastoli bianchi e degli internamenti sine die?
Sono tali e tanti i problemi giuridici e bioetici che questa proposta aprirebbe da suggerire estrema cautela.

Quell’espressione riporta alla mente lo suo studio pubblicato nel 1958 Classi laboriose e classi pericolose a Parigi nella prima metà del XIX secolo, in cui Louis Chevalier analizza le profonde trasformazioni che investono la società parigina nel passaggio dall’età napoleonica alla metà dell’Ottocento. In una città segnata dall’urbanizzazione accelerata, dalla crescente disoccupazione e dall’instabilità politica, le classi popolari iniziano a essere percepite non soltanto come risorsa produttiva indispensabile per lo sviluppo economico, ma anche come una minaccia per l’ordine sociale. Da questa doppia rappresentazione nasce la dicotomia tra “classi laboriose” e “classi pericolose”, che dà il titolo all’opera.
La tesi di Chevalier è che questa immagine delle classi popolari come potenzialmente sovversive non sia il semplice riflesso di condizioni oggettive di degrado o miseria, ma il risultato di una costruzione ideologica complessa, promossa dalle élite e dalle istituzioni attraverso quello che l’autore definisce una vera e propria “scienza della pericolosità sociale”. Secondo Chevalier, gli intellettuali, i medici, i magistrati, gli ufficiali di polizia e gli amministratori pubblici collaborano, consapevolmente o meno, alla creazione di un sapere che legittima l’intervento repressivo e disciplinare e la costruzione dell’individuo pericoloso. Quei saperi non si limitano a descrivere la realtà, ma la producono e la codificano, influenzando politiche pubbliche, strategie urbane e pratiche di controllo sociale. Questa “scienza della pericolosità” non è neutra né puramente tecnica, ma riflette e rafforza i rapporti di potere esistenti, contribuendo alla marginalizzazione sistemica delle classi popolari.
Sarà in quel contesto culturale descritto da Chevalier che si svilupperà la criminologia di stampo positivista e le teorie del “delinquente nato” e, perciò, inemendabile.

La legge 81/2014 aveva anche dato indicazioni precise sul ri-definire il concetto di pericolosità sociale: la pericolosità sociale c.d. “ambientale” dedotta dalle “condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo” (ex art. 133 c. 2) non avrebbe dovuto essere il solo motivo per dichiarare la persona socialmente pericolosa e destinataria di una misura di sicurezza psichiatrica. Ora quelle valutazioni sul contesto di vita e le condotte individuali sembrerebbero tornare ad avere un ruolo.

Cosa si intende davvero per “inemendabile”?

Dalla lettura integrale del documento del Csm si evince che l’idea di tre Rems per “inemendabili” con la presenza della Polizia penitenziaria nasce da una proposta del Ministero della Salute e di Giuseppe Nicolò, psichiatra e direttore di Rems e vicepresidente del Tavolo tecnico sulla salute mentale.
Ma quell’idea era parzialmente diversa e si focalizzava su una questione molto sentita dagli operatori in Rems: la presenza nella attuale popolazione ricoverata in Rems di un rilevante numero di c.d. criptoimputabili , cioè di persone non considerabili “pazienti psichiatrici” ma piuttosto persone con gravi disturbi antisociali. Non vi sono dati certi, ma diffuse percezioni che in ogni Rems ci siano ricoverati che in quelle strutture non dovrebbero stare.
Nella quotidianità sono persone di difficile gestione, che avrebbero “bisogno più di contenimento che di cura” (cit. Giuseppe Nicolò, audizione al Csm). Da qui la proposta di indirizzare queste persone in “comunità terapeutiche ultra-protette”, contigue al carcere. Per quanto discutibile, tale proposta si fonda su una “erronea valutazione” circa la non imputabilità che produce un’improvvida decisione di invio in Rems. Non si tratta affatto di una valutazione prognostica, di “inemendabilità”.
Per migliorare la valutazione sul riconoscimento del vizio totale o parziale di mente e dunque l’appropriatezza della collocazione del paziente psichiatrico autore di reato, ancora il Ministero della Salute propone di creare tre “strutture filtro”, chiamate UVAP (Unità di Valutazione Assistenziale e Prognostica), la cui sicurezza interna è affidata alla Polizia penitenziaria e che servono da “cabina di regia” per suggerire al magistrato e al perito la soluzione migliore, minimizzando gli “invii impropri” in Rems.
Nella rielaborazione finale del Csm, queste due proposte, le “comunità ultra-protette” per gli antisociali e le Uvap sembrano essersi mescolate, dando vita all’abominio giuridico delle Rems per “inemendabili”.

L’idea di organizzare le strutture dell’esecuzione penale per “livelli di sicurezza” si rifà al meccanismo della circuitazione, già noto negli istituti penitenziari, dove i criteri di distribuzione formali – e soprattutto informali- della popolazione detenuta nei vari spazi detentivi crea sezioni “dei buoni” e sezioni “dei cattivi” ben chiare agli operatori e alle persone detenute.
Sono modalità organizzative con molti limiti, applicarle anche all’universo Rems significa ricadere nella dinamica asilare e manicomiale, che questo Paese, nel recente passato, aveva faticosamente provato a superare.

Le misure di sicurezze non detentive: il ruolo delle comunità

Un ultima proposta del Csm che merita approfondimento è la «ricognizione delle strutture psichiatriche presenti sul territorio con setting assistenziali differenziati per pazienti ordinari e pazienti “autori di reato”».

Oggi la maggioranza di pazienti psichiatrici autori di reato non vive in Rems, ma è sottoposta più frequentemente alla misura non detentiva della “libertà vigilata”, che, negli anni, è diventata il vero architrave del sistema delle misure di sicurezza.

Quella delle misure di sicurezza “non detentive” e dunque “tutto ciò che non è Rems” è una questione saliente che Csm ha correttamente scelto di includere nella sua analisi.
É fondamentalmente sul piano quantitativo, perché oggi la maggioranza di pazienti psichiatrici autori di reato non vive in Rems, ma è sottoposta più frequentemente alla misura non detentiva della “libertà vigilata”, che, negli anni, è diventata il vero architrave del sistema delle misure di sicurezza.
Purtroppo, anche su questo punto, i dati statistici a disposizione non aiutano una analisi ragionata.

I dati forniti dal Ministero della Giustizia sulla libertà vigilata hanno due enormi vizi: il primo, non permettono di distinguere quante sono le persone in libertà vigilata in ragione di un vizio totale o parziale di mente, da coloro che sono stati dichiarati socialmente pericolosi per ragioni diverse dalla patologia psichiatrica, ad esempio perché “delinquenti abituali, professionali o per tendenza” (categorie giuridiche ancora considerate dal nostro codice penale).
Il secondo, non distinguono il “contenuto” della libertà vigilata e dunque non è possibile risalire, nemmeno genericamente, a quale sia il grado di restrizione della libertà imposto dal giudice. Non sappiamo dunque quando la libertà vigilata assume forme residenziali (obbligo di stare in una struttura residenziale), semiresidenziali (permanenza in comunità ma con possibilità di uscite, ad esempio per lavoro o formazione) o domiciliare (permanenza al proprio domicilio o a quello dei famigliari con obbligo di cure di tipo ambulatoriale nei servizi di salute mentale del territorio).
Nel complesso, i dati nazionali delle persone in libertà vigilata dimostrano che si tratta di una misura in costante aumento negli ultimi quindici anni, Nell’arco dell’ultimo anno (2024-2025) vi erano 5.759 persone in libertà vigilata (429 donne e 5330 uomini). Negli anni a cavallo del superamento degli Opg (triennio 2013-2015) si è assistito ad un deciso aumento delle persone in libertà vigilata (+758); nell’intero quindicennio 2010-2025, il totale delle persone in libertà vigilata è aumentato di 1.445 persone, percentualmente significa un aumento del 25%.
Tra il 2014 e il 2015, proprio nei mesi dell’entrata in vigore della l. 81/2014, l’aumento delle persone in libertà vigilata è stato di 489 persone in un solo anno.
In generale dunque, registriamo una tendenza all’aumento che non ha arretramenti, né interruzioni. E che anzi incrementa d’intensità negli anni della riforma, oggi è ragionevole pensare che per ogni persona internata in Rems ve ne siano almeno sette sottoposti ad altre misure, sul territorio.

Studiare l’applicazione della libertà vigilata è fondamentale anche perchè la l. 81/2014 è infatti una riforma di “sistema”, dove gli Opg ieri, le Rems oggi non sono che un’isola, né la più popolata, né la più problematica. Si è infatti creato un network di luoghi e istituzioni in cui le funzioni penali-giudiziarie e socio-sanitarie si confondono.
Perchè il sistema funzioni e le Rems restino davvero l’extrema ratio è fondamentale quella fitta e intricata rete di comunità e luoghi di cura, regolate e denominate in maniera differente dalla legislazione regionale.
Le comunità dunque non sono certo un’invenzione recente per l’ordinamento italiano, dove hanno avuto un ruolo fondamentale (e controverso) per quanto riguarda la cura e l’accoglienza della tossicodipendenza, dell’abbandono e della devianza minorile, della violenza famigliare, così come del disagio psichico5.
Tuttavia, nonostante questa mole di esperienze e modelli, fino al 2014-2015 erano piuttosto rare le esperienze di comunità specializzate nell’accoglienza prevalente, se non esclusiva, di pazienti psichiatrici autori di reato provenienti dal circuito penale.
Ma tra gli effetti collaterali della riforma delle misure di sicurezza, vi è proprio un processo di specializzazione da parte di molte comunità del territorio nell’accoglienza di pazienti autori di reato con misura di sicurezza.
Dal punto di vista socio-giuridico, è molto interessante notare che tale specializzazione sia avvenuta in assenza di qualsiasi previsione normativa o, più banalmente, senza alcun atto “regolamentare” che lo incentivasse (o fornisse parametri omogenei alle comunità). Si tratta dunque di un processo che ad oggi rimane sul piano dell’informalità.
Fino ad oggi dunque non esistono licenze, accreditamenti speciali, linee-guida, procedure, regolamenti da adottare che distinguono le comunità specializzate nell’accoglienza di persone provenienti dal circuito penale. Con la delibera del Csm questa però sembrerebbe invece la soluzione “suggerita”.
In una recente esperienza di ricerca[€fn_note]I risultati di quella ricerca sono illustrati nel volume a cura di Marco Pelissero, Laura Scomparin e Giovanni Torrente, “Dieci anni di Rems. Un’analisi multidisciplinare” (2022).[/efn_note], che qui rielaboro, è stato proprio questo uno dei focus della ricerca: perché alcune comunità si sono specializzate ed altre no? Cosa significa specializzarsi nell’accoglienza di autori di reato sul piano organizzativo e gestionale? Quali difficoltà si incontrano nell’accogliere un paziente autore di reato in misura di sicurezza rispetto a utenti non autori di reato?

L’idea di occuparsi di pazienti provenienti dal circuito penale è nata per la scelta di non eludere le sfide più difficili, da lì si è creato una sorta di passaparola tra i servizi e sono aumentati i contatti e le richieste su questo fronte. Io stesso sono stato in quasi tutti gli Opg italiani per fare colloqui con pazienti poi inseriti nelle nostre comunità”.
(Direttore sanitario comunità, Piemonte)

La cooperativa (…) nel 2011 decise di contribuire alla chiusura degli OPG e io scrissi proprio un intervento, si dispose che una parte dei suoi posti letto, all’epoca parlavamo di 5 su 20 fosse riservate alle persone in uscita dall’Opg. Quindi decidemmo che era cosa buona e giusta sostenere questo processo di dismissione degli ospedali psichiatrici cominciando a immaginare dei luoghi, all’epoca non si parlava di Rems…per cui bisognava immaginare delle strutture alternative agli opg e noi pensammo che potevamo essere in grado di ospitare delle persone che venivano dimesse e infatti insieme a Magistrati di Sorveglianza di Napoli, che eminentemente abbiamo lavorato con i due ospedali psichiatrici napoletani e abbiamo cominciato ad ospitare le persone, quindi 5 su 20…ad oggi questa percentuale si è modificata per cui abbiamo in questo momento 4 posti letto per persone senza misure di sicurezza e invece 16 posti letto occupati da persone con misura di sicurezza.
(Direttore sanitario comunità, Campania)

Poi vabbè, nel nostro caso (…) noi ci stiamo sempre più specializzando con questo tipo di utenza, con persone autori di reati, però appunto i posti in Rems sono pochi…le comunità che si prendono la responsabilità di prendere… di far accedere le persone autori di reato sono poche… perché sono persone che comunque spaventano nelle comunità, se non si ha un tipo di, diciamo di formazione adeguata su questo tipo di pazienti si rischia di fare dei… insomma di trovarsi in delle situazioni difficili. E quindi gli avvocati spesso ci chiamano per sapere se abbiamo disponibilità di posto, noi avendo pochissimi posti, è raro che abbiamo il posto disponibile.
(Psicologa, Campania)

Nelle comunità il percorso di specializzazione non è solo informale, ma anche spontaneo, cioè non richiesto, né tanto meno imposto da soggetti-terzi. Le ragioni che spingono la comunità a specializzarsi sui pazienti autori di reato vanno dalla scelta ragionata e consapevole, magari frutto di uno slancio ideale alla semplice occasionalità (“è andata così”). Anche l’aspetto economico, di scelta strategica, è stato tra le ragioni che ha suggerito la “specializzazione”: per ottenere la dismissione degli Opg furono individuati budget ad hoc con cui coprire i costi delle rette delle persone accolte nelle comunità.
La spontaneità sta tuttavia attenuandosi e divide gli operatori delle comunità, tra coloro che sarebbero favorevoli a “formalizzare” le specializzazioni e coloro che invece vedono più rischi che vantaggi. Tra le positività, vi è un migliore raccordo con gli attori della giustizia penale e la creazione di un “canale di dialogo privilegiato” con giudici, avvocati e periti che permetterebbe di standardizzare i percorsi di ricovero delle persone in libertà vigilata. Tra gli svantaggi più richiamati, il rischio di riproporre la dinamica asilare, tipica del modello manicomiale che dovrebbero invece rimanere estranea ad un ambiente comunitario. Una comunità che ha un’utenza esclusivamente proveniente dal circuito penale finirebbe con l’enfatizzare gli aspetti securitari del ricovero, sia sul piano estetico (porte allarmate, recinzioni, inferriate…) sia sul piano relazionale (presenza di personale di sicurezza, sanzioni disciplinari, rigidità dei regolamenti…)
Pur in assenza – ad oggi – di una formalizzazione, si è osservato che, sia tra i vertici dell’amministrazione sanitaria sia tra gli operatori “sul campo”, vi è comunque la consapevolezza di quali siano le comunità dove vengono inviate le persone dimesse dalle Rems oppure in libertà vigilata. La “scelta” di quale comunità, che spetta al giudice su consiglio (più o meno persuasivo) del perito e dei servizi di salute mentale del territorio, se il paziente è già “noto”, si riduce dunque ad un nucleo ristretto di comunità, secondo parametri anzitutto territoriali, tenendo conto della provenienza della persona, ma anche di “disponibilità” di posti.
In questi anni, sui singoli territori, si è proceduto ad individuare un nucleo di comunità che si ritiene essere le sole in grado di accogliere il paziente psichiatrico autore di reato e che, per questo, vengono privilegiate rispetto ad altre strutture del tutto simili dal punto di vista formale.
La specializzazione è dunque informale, spontanea, ma anche rischiosa sia in termini di “clima” interno, delle relazioni tra ospiti e tra ospiti e operatori. Vi è la diffusa percezione che l’intervento sul paziente autore di reato, sia più difficile che quello su altro paziente, pur a parità di gravità della patologia psichiatrica. La variabile “autore di reato” ha dunque un peso sulla relazione operatore-paziente e crea diffusi pregiudizi e paure tra gli stessi operatori.

Questo bisogno securitario si sta trasferendo anche sulle comunità, questo è il limite di questa vicenda, quindi da un’esperienza alternativa, se si vuole pioneristica, il rischio è far parte di un circuito che si occupa eminentemente degli autori di reato.
(Direttore sanitario comunità, Campania)

Le “strategie” per minimizzare i rischi diventano dunque fondamentali. Vi è anzitutto una profonda attenzione ai percorsi di selezione dei pazienti da ospitare in comunità, molto diversificati a seconda delle situazioni. L’ingresso del paziente in comunità non è mai automatico e immediato, ma frutto di una “contrattazione” sia con il paziente, che deve avere consapevolezza del funzionamento della comunità sia con coloro che decidono la collocazione in comunità (formalmente i magistrati e i servizi sanitari territoriali, ma informalmente anche gli avvocati difensori e i periti).
Questo sarà un fattore da considerare, soprattutto se la quasi totalità delle comunità resterà a gestione privata e dunque con una piena autonomia gestionale. Solo la scelta di aprire strutture comunitarie pubbliche potrà ridurre i rischi di avere una “selezione” all’ingresso molto stringente.

Sarà pure retorico ricordarlo, ma non possiamo dimenticare che la commissione di un reato è anzitutto la rottura di un patto sociale e dunque di relazioni deteriorate. Ricucire quella relazione dovrebbe essere il compito comune di Giustizia e Psichiatria. Trovare luoghi ci riporta invece a epoche che avremmo volentieri archiviato.

In conclusione, la delibera del Csm nel suo complesso rischia di ridurre il complicato tema delle misure di sicurezza psichiatriche ad un problema di luoghi. Luoghi chiusi, controllati, sicuri. Le migliori esperienze – e sono molte- che i territori hanno deciso di intraprendere da quando gli Opg si concentrano invece prima sulle relazioni e, solo secondariamente, sui luoghi.
Sarà pure retorico ricordarlo, ma non possiamo dimenticare che la commissione di un reato è anzitutto la rottura di un patto sociale e dunque di relazioni deteriorate. Ricucire quella relazione dovrebbe essere il compito comune di Giustizia e Psichiatria. Trovare luoghi ci riporta invece a epoche che avremmo volentieri archiviato.

  1. Il testo completo è consultabile a questo link https://www.sistemapenale.it/pdf_contenuti/1739137556_documento-finale-rems.pdf
  2. Calcaterra, Pellegrini, Secchi, La triste sorte degli “inemendabili (ma davvero esistono?) e il forte bisogno di ritorno ai manicomi, in Sistema penale 10 febbraio 2025 (https://www.sistemapenale.it/it/scheda/la-triste-sorte-degli-inemendabili-ma-davvero-esistono-e-il-forte-bisogno-di-ritorno-ai-manicomi);
    Centro di ricerca in “diritto penitenziario e Costituzione – European Penological Center”, Le criticità delle R.E.M.S. nella relazione della Commissione mista presso il CSM: prove tecniche di Controriforma?, in Questione giustizia 24 marzo 2025 (https://www.questionegiustizia.it/articolo/le-criticita-delle-r-e-m-s-nella-relazione-della-commissione-mista-presso-il-csm-prove-tecniche-di-controriforma).
    Schiaffo, «Riconoscere al Ministero della giustizia la gestione delle R.E.M.S.»? Le discutibili proposte del Csm e il diritto alla salute dei detenuti e internati (https://www.questionegiustizia.it/articolo/gestione-rems)
  3. Saraceno B., Istituzioni totali e de-istituzionalizzazione, in, Il soggiorno obbligato, C. Tarantino (a cura di), Il Mulino, 2024.
  4. Cfr. F. Ongaro Basaglia (a cura di), Scritti. II, 1968-1980. Dall’apertura del manicomio alla nuova legge sull’assistenza psichiatrica, Einaudi, Torino, 1982.
  5. La letteratura e le ricerche che si sono concentrate sulle comunità è piuttosto ampia. Prevalgono di gran lunga gli approcci psico-sociali, e socio-politico ex multiis si rimanda a M. De Crescente, Le politiche delle comunità terapeutiche, Alpes Italia, Roma, 2011; AA.VV., Le comunità terapeutiche: mito e attualità, Ananke, Torino, 2007; A. Lombardo, La comunità terapeutica: cultura, strumenti e tecnica, Milano, 2004 e C. Bellosi, Piccoli Gulag: sentieri e insidie delle comunità terapeutiche, Roma, 2004.