L’autolesionismo in carcere

di Anna Acconcia

Autolesionismo in carcere: incidenza e significati a partire dalle schede dell’Osservatorio di Antigone

Una finestra sulla complessità

Il comportamento autolesionista, indicato dalla psichiatria internazionale con l’acronimo NSSI (Non Suicidal Self-Injury) e consistente nella segreta reiterazione di tagli, bruciature o abrasioni, colpi auto-inferti, morsi e in altri modi di farsi del male, non mira a provocare la morte, ma risulta essere l’esplicazione di profonde forme di disagio. Si tratta, infatti, di un fenomeno spesso associato a disturbi psichici, a disturbi del comportamento, a disturbi della personalità e all’uso di sostanze stupefacenti, che si manifesta specialmente, ma non solo, in età adolescenziale.

L’autolesionismo è comune nella vita quotidiana in carcere e assume diversi significati legati alla passività dell’esperienza detentiva, all’immobilismo esistenziale.

L’autolesionismo è comune nella vita quotidiana in carcere e assume diversi significati legati alla passività dell’esperienza detentiva, all’immobilismo esistenziale prodotto dal meccanismo penitenziario a cui si contrappone l’azione violenta agita dalla persona detenuta su se stessa. Si tratta di gesti, talvolta destinati a rimanere nascosti, ma carichi di significati, ampiamente indagati dalla letteratura specialistica1.

Le ferite, infatti, possono costituire il tramite per trasferire una condizione psichica in quella fisica e renderla dominabile («concretizzare»), uno strumento per punire-estirpare-purificare la parte malvagia di sé e per liberarsi dalla rabbia e riorganizzare il proprio sé frammentato («punire-estirpare-purificare»), un mezzo per controllare sentimenti carichi di angoscia o per provare a scongelarsi e sentirsi vivi («regolare la disforia»), un linguaggio per comunicare ciò che non si riesce a verbalizzare a parole («comunicare senza parole»), un modo per fare memoria di sé imprimendo sulla pelle segni visibili di snodi significativi dell’esistenza («costruire una memoria di sé»), un viatico per trasformare le esperienze passive in attive e sentirsi attori protagonisti della propria vita («volgere in attivo»).

I tanti perché che significano il gesto autolesivo hanno a che fare con l’identità e con la narrazione del proprio sé. La pratica di marchiare e incidere il proprio corpo è antica, assume caratteristiche e contenuti specifici in base al contesto di riferimento, alle tradizioni, all’età. Le chiavi di lettura del fenomeno, dunque, sono molteplici e attraversano la patologia, la cultura, l’appartenenza sociale, i meccanismi imitativi, il bisogno di rendersi visibili e imporsi all’attenzione degli altri.

Rispetto al «pianeta carcere» pare che la fenomenologia dell’autolesionismo si intrecci a doppio filo con gli enormi problemi dell’esperienza detentiva.

Rispetto al «pianeta carcere» pare che la fenomenologia dell’autolesionismo si intrecci a doppio filo con gli enormi problemi dell’esperienza detentiva: suicidi, sovraffollamento, isolamento, disagio psichico, trattamenti inumani e degradanti, tortura, solo per citare i più significativi. Il carcere, come è noto, presenta delle caratteristiche strutturali e organizzative ritualizzate, infantilizzanti e spesso de-umanizzanti in grado di acuire forme di disagio che, specie nei soggetti più vulnerabili, rischiano di tradursi in gesti autolesionistici.

L’analisi che seguirà si propone di fotografare l’incidenza del ‘fenomeno autolesionismo’ in un campione di istituti penitenziari per adulti che insistono sul territorio italiano con l’obiettivo di tessere qualche correlazione alla luce dei rilevamenti empirici e di ipotizzare ulteriori campi di indagine.

Occorre tenere a mente che l’autolesionismo si manifesta come un «attacco al corpo» e, dunque, ha sempre una dimensione oggettiva e misurabile; tuttavia il dato numerico non deve mai offuscare la dimensione soggettiva ovvero i percorsi individuali, spesso molto diversi, che hanno condotto la persona a ferire sé stessa.

I dati raccolti dall’Osservatorio e qualche nota a margine

Si precisa, in chiave metodologica, che i dati utilizzati (Rilevamento 2024-2025) sono stati estratti dalle schede dell’Osservatorio di Antigone che prendono in esame 58 istituti penitenziari visitati nel 2024 e nei primi mesi del 2025 (in data successiva, dunque, al precedente Rapporto Annuale). Si aggiunge, inoltre, che il rilevamento precedente (Rilevamento 2023-2024), a cui a seguire ci si riferisce, riguarda la visita precedente effettuata dagli osservatori nei medesimi 58 istituti penitenziari. I dati aggregati, pertanto, non riguardano tutte le carceri presenti sul territorio nazionale e, quindi, non vanno assolutizzati, ancorché significativi e rilevanti (qui è disponibile il dettaglio del lavoro di estrazione dati). Si tenga inoltre presente che, mentre il dato relativo alle presenze in un dato istituto fa riferimento al momento della visita, quello relativo agli atti di autolesionismo fa riferimento al numero di quelli registrati nel corso dell’intero anno precedente alla visita.

Nell’ultima rilevazione del campione in esame, infatti, si registra un aumento dei fenomeni di autolesionismo pari al 40% a fronte di un aumento della popolazione detenuta del 9%.

Un primo aspetto da sottolineare in chiave diacronica, plasticamente rappresentato nel grafico che segue, è innanzitutto quello di un fenomeno in crescita: nell’ultima rilevazione del campione in esame, infatti, si registra un aumento dei fenomeni di autolesionismo pari al 40% a fronte di un aumento della popolazione detenuta del 9%. Ovvero, se nel rilevamento precedente si registravano 21 casi di autolesionismo ogni 100 detenuti (3.149 episodi per 14.968 detenuti), nel rilevamento svolto nel 2024-2025 sono stati constatati 27 episodi ogni 100 detenuti (4.526 episodi per 16.423 detenuti).

Un secondo aspetto, sempre avendo in considerazione la dimensione temporale, riguarda la specifica dei cinque istituti del campione con una maggiore incidenza di atti di autolesionismo in rapporto alle presenze, da cui emerge, come si può verificare nel grafico, che la Casa circondariale di Firenze Sollicciano e la Casa circondariale di Forlì compaiono in entrambe le rilevazioni tra gli istituti con la maggiore incidenza di comportamenti autolesivi. Con una tale occorrenza, sarebbe forse auspicabile l’attivazione di presidi e cautele per comprendere e lavorare sui gesti anticonservativi.

È possibile, inoltre, ipotizzare una correlazione tra il tasso di sovraffollamento di un istituto penitenziario e l’insorgenza di pratiche autolesionistiche.

È possibile, inoltre, ipotizzare una correlazione tra il tasso di sovraffollamento di un istituto penitenziario e l’insorgenza di pratiche autolesionistiche; infatti, come è chiarito dal grafico che segue, negli istituti tra quelli considerati che presentano il tasso di affollamento più alto, superiore al 150%, gli atti di autolesionismo sono stati 24 ogni 100 detenuti, in quelli pur sovraffollati, ma con un tasso di affollamento compreso tra il 150% ed il 100%, gli atti di autolesionismo sono stati 21,3 ogni 100 detenuti. Negli istituti non sovfarffollati, invece, la media è di 16,6 atti ogni 100 detenuti.

Il grafico che segue ci consente di svolgere ulteriori riflessioni. Anzitutto, nelle due rilevazioni temporali, emerge un significativo aumento degli atti di autolesionismo nelle case circondariali (dal 23,1 ogni 100 detenuti a 25 ogni 100 detenuti).

In secondo luogo, risulta che gli atti di autolesionismo sono nettamente più frequenti nelle case circondariali rispetto alle case di reclusione che hanno una struttura e una popolazione detentiva molto diversa rispetto alle prime che soffrono, invece, di un maggiore sovraffollamento, di una minore progettualità sui percorsi, oltre a mescolare posizioni giuridiche tra loro diverse.

Si segnala come nell’ICAM di Lauro, in entrambe le annualità di riferimento, non siano stati registrati fenomeni di autolesionismo, forse anche per le caratteristiche proprie di un istituto a custodia attenuta.

L’ultima riflessione che si vuole condividere, sempre partendo dai dati raccolti nel 2024-2025, riguarda gli istituti del campione che presentano i più alti tassi di autolesionismo e la percentuale di detenuti stranieri ristretti presso i medesimi istituti.

Ovviamente, lungi dall’asserire una correlazione diretta tra la matrice culturale e gli atti di autolesionismo registrati (anche perché non è nota la nazionalità delle persone che hanno posto in essere atti di autoferimento intenzionale), tuttavia è osservabile come in due degli istituti penitenziari con maggiori tassi di autolesionismo si registri anche una popolazione di detenuti stranieri superiore al 60% (si tratta di CC Milano San Vittore e CC Cassino) . e negli altri due istituti una percentuale che supera il 30% ( ovvero la CC Firenze Sollicciano e la CC Forlì).

Potrebbe, dunque, profilarsi l’idea che taluni atti di autolesionismo risultino «culturalmente approvati» perché fondati su credenze e alimentati da rituali riconosciuti e apprezzati nel proprio gruppo di appartenenza. Si potrebbe ipotizzare, inoltre, che tra la popolazione detenuta straniera siano maggiormente frequenti, rispetto agli italiani, altre caratteristiche che (forse) presentano una correlazione positiva con l’autolesionismo quali dipendenze, disagio psichico o psicologico, marginalità sociale, ma si tratta di una tesi che andrebbe approfondita e verificata.

Si aggiunge, altresì, che già la sola difficoltà linguistica, che si traduce anche nell’ impossibilità di verbalizzare e condividere emozioni, sentimenti e stati d’animo, renda più probabile il ricorso a un linguaggio non verbale di cui, in qualche modo, l’autolesionismo è espressione.

Qualche spunto per ampliare lo sguardo

L’analisi svolta è un primo passo per comprendere il fenomeno dell’autolesionismo in carcere e per perimetrarlo, al fine di interrogarsi sulle possibili vie d’uscita.

Per avere un quadro completo andrebbero raccolti i dati sull’autolesionismo di tutti gli istituti penitenziari presenti sul territorio italiano e analizzati rispetto ad alcuni ulteriori elementi e parametri.

Per avere un quadro completo andrebbero raccolti i dati sull’autolesionismo di tutti gli istituti penitenziari presenti sul territorio italiano e analizzati rispetto ad alcuni ulteriori elementi e parametri che paiono significativi nell’economia dell’indagine.

In particolare, occorrerebbe porre l’accento sulle condizioni di detenzione all’interno dell’istituto e sull’offerta trattamentale (tenuto conto, specificatamente, delle possibilità lavorative e del numero di educatori), sull’incidenza nei diversi circuiti e nell’isolamento, sulla nazionalità, sulla maggiore o minore vicinanza ai propri affetti familiari, sulle patologie psichiatriche e sulle dipendenze dei detenuti che commettono gesti autolesivi.
Inoltre, accanto a un’indagine quantitativa, andrebbe condotta un’analisi qualitativa volta a individuare ragioni e motivazioni profonde dell’agire umano anticonservativo nel quadro della propria «cosmologia» e dei propri «paesaggi interiori».

Il fenomeno dell’autolesionismo in carcere appare multifattoriale: molte sono le concause intessute tra loro, pur nel rispetto dell’unicità e dell’individualità della persona e del suo modo di affrontare e di rielaborare il trauma.

Occorre rammentare che si tratta di un fenomeno esposto al «campo oscuro», dato il non infrequente nascondimento dei segni visibili dei gesti autolesivi con il conseguente intorbidimento del dato reale.

Appare oltremodo necessario ampliare le conoscenze empiriche e fenomenologiche sull’autolesionismo in carcere e investire, proprio nel luogo abitato dalla sofferenza e dalla «disgregazione affettiva», nel dialogo e nell’ascolto che costituiscono potenti ‘omeopatici’ in grado di scuotere i «volumi interiori» e, probabilmente, di innescare percorsi di (ri)accettazione del proprio sé.

Riferimenti bibliografici

D. Le Breton, La pelle e la traccia. Le ferite del sé, Meltemi, Roma, 2005.

A. Marcazzan – S. Baroni (a cura di), Adolescenti che si tagliano. Forme e significati dei comportamenti autolesivi, Franco Angeli, Milano, 2024.

M. Rossi Monti – A. D’Agostino, L’autolesionismo, Carocci, Roma, 2009.

  1. La classificazione che qui si propone è tratta da M. Rossi Monti – A. D’Agostino, L’autolesionismo, Carocci, Roma, 2009, pp. 66 ss. e a cui si rimanda per ulteriormente approfondire.