Cura e carcere: la dipendenza dal lavoro relazionale femminile

di Annamaria Gipponi

Cura e carcere: la dipendenza del sistema penale maschile dal lavoro relazionale femminile

Come il sistema penitenziario si affida in modo silenzioso al lavoro emotivo, relazionale e logistico delle donne fuori dal carcere, trasformando la loro cura in una risorsa implicita per la gestione della pena.

Il carcere non colpisce mai unicamente il soggetto detenuto, ma produca una fitta rete di conseguenze sociali, economiche, emotive e materiali che si estendono alle persone a lui più vicine, in particolare alle donne della sua cerchia familiare.

L’idea che la pena detentiva riguardi esclusivamente la persona condannata è ormai da tempo oggetto di revisione critica, anche se questo aspetto è sicuramente più ravvisabile nella letteratura accademica che nel dibattito politico italiano. Alcuni studi, provenienti in particolare dal contesto anglosassone, hanno mostrato come il carcere non colpisca mai unicamente il soggetto detenuto, ma produca una fitta rete di conseguenze sociali, economiche, emotive e materiali che si estendono alle persone a lui più vicine, in particolare alle donne della sua cerchia familiare. In questo quadro si inserisce il concetto di secondary prisonization (Comfort, 2009), ossia quel processo per cui i familiari del detenuto – pur non essendo formalmente soggetti alla pena – ne condividono in parte gli effetti disciplinari, regolatori e di sorveglianza.

Come analizzato da Anna Kotova (2014), la giustizia penale non è indipendente dalla giustizia sociale: le disuguaglianze di genere, classe e razza che attraversano la società si riflettono anche nel modo in cui la pena viene subita. Le famiglie dei detenuti, e in particolare le donne – molto più di frequente socializzate a farsi carico del lavoro di cura – si trovano ad affrontare un insieme di problematiche che restano ampiamente invisibili nel discorso istituzionale e scarsamente considerate dalle politiche penitenziarie. In Italia, il sistema penitenziario non è strutturato per seguire e sostenere sotto il profilo informativo le persone colpite dalla detenzione di un proprio caro, non riconoscendo (e quindi, di fatto, attivamente invisibilizzando) le criticità da loro affrontate, economiche, logistiche, psicologiche – legate a doppio filo con la realtà detentiva del nostro Paese.

Questa situazione evidenzia una contraddizione significativa all’interno dell’Ordinamento penitenziario. Sebbene, infatti, il dispositivo di cui all’art. 28 O.P., professi che: “Particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie”, e nonostante l’art. 15 O.P. riconosca il contributo dei rapporti con il mondo esterno e la famiglia come strumenti essenziali di cui avvalersi per il trattamento rieducativo della persona condannata, tuttavia nella pratica si riscontra una grave carenza di attenzioni e risorse orientate al sostegno di queste relazioni. I colloqui con la rete affettiva dei detenuti sono limitati, in termini di tempo ma anche in relazione ai rigidi vincoli dei rapporti formali di parentela; la durata e la frequenza delle chiamate sono così esigue da essere, in tutta evidenza, ancora ancorate a un paradigma anacronistico. A differenza di quanto accade in molti Paesi europei, dove esistono pratiche più inclusive e modelli più aperti di coinvolgimento delle famiglie, in Italia il mantenimento dei legami affettivi è segnato ancora da numerose criticità.

In questo contesto, accade di frequente che realtà di terzo settore e di volontariato, come ad esempio il Difensore civico di Antigone, assumano il ruolo di ponte di collegamento – anche informativo – tra il “dentro” e il “fuori”, con i familiari, le persone detenute, la società e l’Istituzione penitenziaria.

I dati raccolti dal Difensore Civico dell’associazione Antigone mostrano con chiarezza che è una presenza femminile – composta da madri, partner, sorelle e figlie (ma non solo) – a rivolgersi con più frequenza agli strumenti di tutela esterna, chiedendo interventi a sostegno dei propri cari ristretti.

Tale invisibilizzazione istituzionale risulta ancor più significativa se si considera che, nella stragrande maggioranza dei casi, a farsi carico delle istanze provenienti dall’interno del carcere sono familiari donne, a fronte di una popolazione detenuta quasi interamente composta da detenuti di genere maschile1. I dati raccolti dal Difensore Civico dell’associazione Antigone mostrano con chiarezza che è una presenza femminile – composta da madri, partner, sorelle e figlie (ma non solo) – a rivolgersi con più frequenza agli strumenti di tutela esterna, chiedendo interventi a sostegno dei propri cari ristretti. Analizzando le segnalazioni pervenute da familiari tra il 2021 e il 2024, emerge che: nel 2021, su un totale di 118 familiari che si sono rivolti al Difensore, 96 erano donne; nel 2022, le donne sono state 103 su 117; nel 2023, 93 su 104; e nel 2024, 96 su 114.

Dati empirici simili riflettono una dinamica strutturale: sin dall’infanzia, le donne sono socializzate a farsi carico del benessere emotivo e materiale delle persone a loro vicine, interiorizzando un’etica della cura che si estende anche in contesti disfunzionali e disuguali, come il carcere. Carol Gilligan (1982) ha mostrato come la soggettività femminile nella cultura occidentale sia spesso definita in termini relazionali, talvolta a scapito dell’autodeterminazione. Joan Tronto (1993) evidenzia che la cura, sebbene centrale per la vita sociale, è strutturalmente svalutata e distribuita in modo asimmetrico lungo assi di genere, classe e razza. Il fatto che siano soprattutto le donne a mantenere il legame con il carcere, nonostante i costi emotivi, economici e logistici, è dunque il risultato di una costruzione culturale profonda. Federici (2004) sostiene, inoltre, che la divisione sessuale del lavoro ha storicamente naturalizzato e invisibilizzato il lavoro di cura, relegando le donne alla sfera domestica e rendendo la cura parte integrante della loro identità, senza adeguato riconoscimento economico o simbolico.

Una lunga storia di delega sistemica alla responsabilità femminile di sostenere e riparare i legami affettivi, soprattutto dove lo Stato — come nel caso del carcere — agisce in modo profondamente disgregativo.

Questa prospettiva consente di leggere in chiave strutturale l’attivazione femminile attorno alla detenzione di un familiare: non come una semplice reazione individuale all’assenza di supporti istituzionali, ma come l’effetto di una lunga storia di delega sistemica alla responsabilità femminile di sostenere e riparare i legami affettivi, soprattutto dove lo Stato — come nel caso del carcere — agisce in modo profondamente disgregativo.

Nei primi mesi del 2025 sono state condotte dall’autrice otto interviste qualitative rivolte a donne che, durante il 2024, si sono rivolte al Difensore civico in qualità di partner o sorelle di persone detenute. In tutti i casi, la persona detenuta era un uomo. Questo dato, apparentemente neutro, è in realtà centrale per comprendere la distribuzione asimmetrica del carico emotivo, organizzativo ed economico che la detenzione comporta: a essere incarcerati sono gli uomini, ma a rimanere fuori – e a prendersi cura – sono quasi sempre le donne.

Le storie raccolte restituiscono un quadro complesso di fatiche spesso silenziose, di ruoli di cura assunti senza riconoscimento sociale né sostegno istituzionale, e di un lavoro relazionale invisibile che si innesta nelle maglie di un sistema penitenziario strutturalmente escludente. A partire da queste esperienze, è stato possibile individuare quattro grandi assi tematici, che attraversano trasversalmente tutte le narrazioni:

  1. La difficoltà a raccontarsi e il silenziamento del proprio ruolo, che porta a una forma di autoesclusione dalla narrazione pubblica e familiare;
  2. Il peso emotivo della cura, che si manifesta nel sentirsi responsabili della stabilità affettiva e psicologica della persona detenuta, e spesso anche di altri familiari fragili;
  3. L’isolamento sociale e la stigmatizzazione, vissuti non solo come rifiuto esterno, ma anche come meccanismo autodifensivo e interiorizzato;
  4. Gli ostacoli materiali e relazionali legati alla detenzione, che vanno dalla distanza geografica alla mancanza di informazioni.

Questi assi tematici, pur distinti, si intrecciano profondamente tra loro, generando un carico complesso e spesso invisibilizzato – tanto dal sistema penale e penitenziario quanto dagli stessi attori direttamente coinvolti.

Il campione delle donne intervistate si compone di due gruppi distinti: partner e sorelle di persone detenute

Il campione delle donne intervistate si compone, per scelta metodologica, di due gruppi distinti: partner e sorelle di persone detenute. Le prime sembrano avere vissuto una forma – seppur con i condizionamenti che ne derivano e nonostante le numerosissime difficoltà – di scelta nel decidere se rimanere accanto al proprio compagno o meno. Le seconde, invece, raccontano più spesso un senso di obbligo, una responsabilità non scelta ma assunta per necessità: prendersi cura del fratello detenuto appare, per molte di loro, come un modo per proteggere e alleggerire il peso emotivo vissuto dai genitori. In questi racconti emerge una tensione costante tra desiderio di autonomia e dovere familiare, che spesso si traduce in una forma silenziosa e persistente di auto-sacrificio.

A questo proposito, Z., laureanda in giurisprudenza il cui fratello è incarcerato da diversi anni, ha raccontato dell’enorme responsabilità di cui si è sempre sentita investita dai genitori nell’essere di supporto alla difficile situazione del parente – anche a discapito del proprio tempo e del proprio benessere. «È come se non avessi più il controllo della mia vita. L’unica cosa in cui ho trovato il controllo è stato l’alimento, il cibo, il peso. E quindi ho lasciato tutto, non ho più studiato. Al che, ad oggi, purtroppo, mi trovo ancora… Mi mancano pochi esami, ma faccio fatica, ho quel blocco. […] Ho il pensiero che io ho una responsabilità dietro, cosa che io non dovrei sentire, che è una cosa che devono provare i miei genitori. E glielo dico ogni volta, ma è sempre un: “Tuo fratello!”, “Vai a trovare tuo fratello”, “Hai preso questo, hai prenotato [il colloquio] per tuo fratello?”, “Hai chiamato tuo fratello?”. Infatti lui, per qualsiasi cosa, chiama me. Per qualsiasi cosa, sono io che mi smazzo a destra e a sinistra.”

I sacrifici in termini di tempo, che nell’immaginario delle donne partner sono finalizzati al processo di costruzione di un futuro insieme («Le telefonate sono brevi, pratiche. Dieci minuti: “Come stanno le bimbe, tutto bene, la piccola cammina, la piccola ha detto ‘mamma’…. Ma quando ci vediamo ai colloqui, parliamo di più, anche del futuro. A me piace cucinare, il mio sogno è aprire un ristorante. Penso che uno può cambiare, anche dopo un errore. Spero che un giorno ce la faremo» racconta M) – nel caso delle sorelle il tempo investito a occuparsi dei bisogni e delle necessità collegate alla detenzione del fratello è, spesso, un sacrificio a proprio spese. « [Prima della detenzione] avevo amici, aveva una vita sociale normale. Da quando sono iniziati poi i problemi con mio fratello, io devo restare sempre a casa, devo gestire qualsiasi problema si presenti – devo gestirlo io» ha spiegato, durante l’intervista, Z. Parole che ricordano la sensazione di oppressione espressa anche da A., il cui fratello è in carcere dal 2012, con un fine pena previsto per il 2027. «È dura per me perché mamma è sola e sono 12 anni che io non riesco a farmi una vita… Cioè a 33 anni io potrei anche vivere da sola, ma non ce la faccio. Anche lui dice: “Ma quand’è che ti fidanzi?”. Ma cosa gli dico? Gli ho detto che aveva rotto le scatole, che non ce la facevo. Come faccio se devo badare ai fatti tuoi, ai fatti dell’altro… Non ce la faccio. Quindi sono limitata. Appena esce me ne vado, non vedo l’ora».

Un fattore comune, emerso dalle testimonianze di tutte le donne intervistate, è la sensazione di ansia e angoscia collegata all’attesa delle chiamate, al recarsi fisicamente negli spazi detentivi, al sempre troppo poco tempo dei colloqui. Tutte situazioni, queste ultime, che creano ancora più disagio per chi “rimane fuori”, soprattutto nei casi in cui l’istituto penitenziario si trova molto lontano dal luogo di domicilio. Nel corso dell’intervista, B., il cui fratello è detenuto ininterrottamente dal 2003, ha raccontato delle vicissitudini legate all’andare a trovare qualcuno in galera. «Quando si andava al carcere si perdevano le giornate intere. Si scendeva alle 5 del mattino e non sapevi a che ora tornavi. Perché poi c’è una disorganizzazione… Oltre a un elevato numero di persone che erano lì anche loro per fare il colloquio. Si aspettava ore intere fuori, alla pioggia, al freddo, insomma quello che sia. Poi fatti entrare dopo due ore ancora di attesa, arrivare a fare questo benedetto colloquio. Quando stava qua in zona o a Santa Maria Capua Vetere, o a Secondigliano, non abbiamo mai saltato un colloquio: o entrava solo mia mamma, o mia mamma e mia sorella, o io e mia mamma. Diciamo che noi [sorelle] ci alternavamo, ma mia mamma non è mai mancata. Pure quando lo hanno trasferito in Calabria mia mamma trovava sempre il modo di andarci almeno una volta al mese».

Sentirsi le uniche persone in grado di regolare, nel bene e nel male, le emozioni della persona cara detenuta.

L’elemento che più ha rappresentato il fil rouge tra tutte le interviste condotte è il tema del sentirsi le uniche persone in grado di regolare, nel bene e nel male, le emozioni della persona cara detenuta. G., intervistata rispetto questo aspetto della vita detentiva del compagno, riporta che « […] Cerchiamo di sostenerci un po’ a vicenda, però quando poi lui mi dice “‘Se tu vuoi chiudere con me io non esco da qua vivo”… Questa cosa ha un grande impatto su di me perché mi sento responsabile». Lo stesso senso di responsabilità verso la stabilità emotiva del detenuto l’hanno provata anche C., il cui fratello è detenuto in un istituto molto lontano da casa. «Abbiamo iniziato a scriverci, però poi nella realtà io ho grande difficoltà, perché quando uno scrive dice “Che faccio? Che che gli racconto?” Se mi metto a dirgli le cose belle, tipo tuo figlio ha fatto questo, piuttosto che sai ho comprato la macchina nuova, quello magari pensa cavolo però io son dentro… Se però gli dici le cose brutte magari lo rattristi ancora di più e non ha bisogno di questo» – e Z.: «Perché se lui sa che c’è qualcuno che lo sta sopportando da fuori, cerca di controllarsi di più. E me lo dice. Quindi mi sento automaticamente responsabile della sua stabilità all’interno del carcere. È lui che me lo fa capire, me lo fa sentire. E mi diventa ancora più pesante questa cosa qui, perché dico “Oddio, anche quando mi chiama devo stare attenta a quello che dico al telefono”, perché magari gli dico una cosa che poi la prende male, magari si taglia, fa casino, e quindi automaticamente, di conseguenza, peggiora ancora di più la sua situazione giudiziaria».

Abbiamo una popolazione “detenuta fuori” che, al prezzo dell’invisibilizzazione del proprio dolore, si fa carico della tenuta emotiva dei propri cari reclusi, andando a occuparsi di questioni burocratiche, assistenziali e di reinserimento che dovrebbero competere all’istituzione carceraria stessa.

Da quanto emerso, parrebbe che la situazione che si viene a creare tra donne “fuori” e uomini “dentro” sia caratterizzata da un forte squilibrio: se da una parte, infatti, ci sono le persone detenute, con il loro bagaglio acclarato di sofferenza derivante da uno stato detentivo già di per sé difficile, a cui si devono aggiungere le problematiche strutturali che caratterizzano il panorama detentivo italiano – tuttavia, dall’altro lato abbiamo una popolazione “detenuta fuori” che, al prezzo dell’invisibilizzazione del proprio dolore, si fa carico della tenuta emotiva dei propri cari reclusi, andando a occuparsi di questioni burocratiche, assistenziali e di reinserimento che dovrebbero competere all’istituzione carceraria stessa. In altre parole, sono loro – più che il carcere – a garantire senso di progettualità e speranza: condizioni che la Costituzione considera centrali per il fine rieducativo della pena, ma che nei fatti vengono esternalizzate, privatizzate, e scaricate sulle spalle delle relazioni familiari, soprattutto femminili.

Gli spostamenti e i sentimenti negativi a essi associati sono resi ancora più difficoltosi quando a carico di queste donne ci sono dei figli, specie quando minori di età. Alle difficoltà quotidiane legate alla detenzione, per queste donne si aggiungono la responsabilità quotidiana relativa al ruolo genitoriale, all’organizzazione dei tempi e degli spazi dei minori. In questo senso, l’esperienza di M. è molto emblematica: all’ingresso del compagno in carcere, in una regione molto lontana dalla loro casa, la figlia aveva solo cinque anni. Sebbene la spiegazione dell’assenza paterna sia stata data congiuntamente da entrambi i genitori – attraverso un escamotage narrativo in cui si diceva che il papà era andato ad aiutare Babbo Natale – è stata M. a farsi carico, da sola, della gestione quotidiana della bambina. In seguito, durante la seconda gravidanza, M. ha continuato a mantenere il legame con il compagno, affrontando lunghi viaggi per andarlo a trovare in carcere una volta al mese.

In alcuni casi, al già complesso vissuto della detenzione si aggiunge una fragilità ulteriore legata al background migratorio della persona detenuta.

In alcuni casi, al già complesso vissuto della detenzione si aggiunge una fragilità ulteriore legata al background migratorio della persona detenuta. Quando a essere reclusi sono uomini stranieri, le donne che restano fuori affrontano timori aggiuntivi, legati alla stabilità giuridica e al futuro del proprio caro. Anche solo l’ipotesi di un’espulsione, pur non imminente, può generare un’ansia costante, aggravata da barriere informative e dalla difficoltà di dialogo con le istituzioni. Le testimonianze raccolte parlano anche di discriminazioni percepite o vissute, che si intrecciano con un senso di marginalità e impotenza. In questi contesti, la sofferenza individuale si radica in disuguaglianze sistemiche che intensificano isolamento e fatica emotiva. L’esperienza di A. è esemplare. Suo fratello, in Italia da tredici anni con regolare ricongiungimento familiare, ha scoperto solo recentemente di dover rinnovare i documenti. «Ti dici: ‘Com’è possibile?’ Sono 13 anni che lui ha sempre lavorato dentro, ha partecipato a delle cose, e non gli è mai stato detto: ‘Guarda, devi rinnovare i documenti». La richiesta di un permesso di lavoro esterno ha fatto emergere l’irregolarità, e la conseguente paura di un’espulsione. A. ha dovuto farsi carico da sola della ricerca delle informazioni, rivolgendosi ad Antigone e cercando materiali online. «Ho stampato 300 pagine con diritti e doveri e gliele ho mandate. Magicamente sono venute fuori un sacco di informazioni». In assenza di un avvocato e di un interlocutore istituzionale affidabile, ha cercato di colmare il vuoto informativo e giuridico che grava su molti detenuti stranieri. «Lui mi raccontava che c’erano tanti problemi. Per esempio, facevano firmare documenti ai detenuti per il rinnovo, ma poi si rendevano conto che non erano stati rinnovati e che erano stati espulsi».
È in queste zone d’ombra che si inserisce il carico aggiuntivo per le donne, chiamate a svolgere un ruolo di mediazione con le istituzioni, a supplire alla carenza di tutele e a proteggere i propri cari da conseguenze che si profilano come ingiuste e irreparabili.

Il carcere finisce per generare un’ulteriore forma di disuguaglianza, scaricata su chi resta fuori. A questa fatica si aggiunge quella invisibile dello stigma, che alimenta dinamiche di isolamento.

Oltre al carico emotivo e organizzativo, molte delle donne intervistate hanno raccontato di sostenere anche un importante peso economico legato alla detenzione. Tra viaggi frequenti e costosi per i colloqui, pacchi da inviare, contributi per le necessità quotidiane della persona detenuta e le spese dovute al sistema del sopravvitto – che spesso impone prezzi maggiorati per beni di prima necessità – il carcere finisce per generare un’ulteriore forma di disuguaglianza, scaricata su chi resta fuori. A questa fatica si aggiunge quella invisibile dello stigma, che alimenta dinamiche di isolamento: molte donne raccontano di non sentirsi comprese, di provare vergogna o paura del giudizio, e di non cercare aiuto, né professionale né nella propria rete affettiva e sociale. Il dolore viene così silenziato, interiorizzato, e spesso relegato a uno spazio intimo non condiviso. Questo dolore, vissuto privatamente e lontano dagli occhi degli altri, emerge chiaramente dalle parole di A.. «Io sono cresciuta velocemente. Evito di piangere davanti agli altri, per non far male a nessuno. Però piango da sola. Tante volte».

È emerso, tuttavia, che anche quando esiste una rete sociale, questa è spesso formata da altre donne impegnate ad affrontare esperienze simili, che, pur condividendo lo stesso carico emotivo, cercano comunque di sostenersi vicendevolmente.

Le interviste realizzate mostrano con chiarezza quanto il sistema penitenziario si regga anche – e forse soprattutto – sul lavoro invisibile di chi sta fuori. I familiari delle persone detenute, e in particolare le donne, sono vittime di una strategia sistemica che, da un lato, li esclude dal discorso pubblico e istituzionale, ma dall’altro ne sfrutta attivamente le risorse emotive, relazionali ed economiche. Questo sfruttamento non è accidentale, ma funzionale: permette al carcere di compensare le proprie mancanze strutturali senza doversi mettere in discussione, senza attivare nuovi servizi, senza ripensare le proprie pratiche, né investire risorse. Il sistema, in questo modo, non è costretto né a reinventarsi né a migliorarsi.

Questa delega implicita si appoggia su un dispositivo già rodato: il lavoro femminile di cura, che viene dato per scontato, non retribuito e sistematicamente svalutato. Donne – madri, compagne, sorelle, nipoti e amiche – diventano così gli ingranaggi silenziosi di una macchina che si affida a loro per garantire continuità affettiva, regolazione emotiva, contenimento del disagio e perfino per favorire il reinserimento e dunque, potenzialmente, prevenire la recidiva. Ma lo fa senza riconoscere loro un ruolo di interlocutrici legittime, né come soggetti portatori di esigenze, fragilità e diritti, né come attori da coinvolgere nei percorsi detentivi.

Come suggerisce Foucault (1975), il potere non si esercita soltanto attraverso l’internamento, ma si estende ben oltre le mura dell’istituzione carceraria, agendo sulle relazioni, sui legami e sulle soggettività che orbitano intorno alla detenzione. Il carcere, in quanto dispositivo disciplinare, mobilita risorse affettive ed economiche esterne, spesso in modo tacito e non formalizzato, affidandosi a figure familiari – in larga parte femminili – per compensare la propria parziale incapacità di garantire continuità, cura e progettualità ai soggetti reclusi.

La loro sofferenza non è solo invisibilizzata, ma interiorizzata e autoregolata.

In questo contesto, le donne intervistate emergono come agenti fondamentali per l’equilibrio relazionale e psichico delle persone detenute, ma restano prive di visibilità e di un conseguente supporto di tipo istituzionale. La loro sofferenza non è solo invisibilizzata, ma interiorizzata e autoregolata, secondo modelli di responsabilità affettiva che le spingono a contenere le proprie emozioni, a non chiedere aiuto e a sostenere un carico spesso sproporzionato. Questo processo di silenziamento, lungi dall’essere neutro, è inscritto in una logica sistemica di delega e deresponsabilizzazione istituzionale.

Interrogare criticamente queste dinamiche significa riconoscere che il funzionamento materiale ed emotivo dell’istituzione penitenziaria si regge anche su un lavoro relazionale esterno, sistematicamente non formalizzato e privo di tutele. Una riflessione seria sul sistema carcerario non può prescindere dal considerare questi soggetti come parte integrante del campo penale: non semplici comparse o “risorse di prossimità”, ma interlocutrici legittime, portatrici di esperienze, bisogni e diritti che meritano ascolto e rappresentazione.

Bibliografia:

Clemmer, D. (1940). The Prison Community. Boston: Christopher Publishing House.

Comfort, M. (2008). Doing Time Together: Love and Family in the Shadow of the Prison. Chicago: University of Chicago Press.

Federici, S. (2004). Caliban and the Witch: Women, the Body and Primitive Accumulation. New York: Autonomedia.

Foucault, M. (1976). Sorvegliare e punire. Nascita della prigione. Torino: Einaudi.

Gilligan, C. (1982). In a Different Voice: Psychological Theory and Women’s Development. Cambridge, MA: Harvard University Press.

Kotova, A. (2014). Justice and Prisoners’ Families. Howard League

Tronto, J. C. (1993). Moral Boundaries: A Political Argument for an Ethic of Care. New York: Routledge.

  1. Di 62.456 persone detenute (al 30 aprile 2025), la popolazione maschile si attesta al 95,64% (59.733 uomini detenuti). Dati GNPL