di Enrico Vincenzini
Chi riteneva che le logiche securitarie tipiche delle nuove destre europee – e, quindi, di parte della maggioranza di governo – potessero trovare una certa resistenza nel garantismo di cui l’attuale Ministro della Giustizia si è sempre proclamato convinto sostenitore, dovrà purtroppo ricredersi alla luce dei dati che descrivono la tanto disumana quanto illegittima condizione di vita delle persone private della libertà personale nel nostro paese.
Le parole del Ministro Nordio secondo cui, già nell’estate scorsa, il governo era in grado, grazie alle sue misure, di “prospettare una diminuzione più che consistente di questo affollamento e di riuscire a rientrare anche al di sotto di quella che è la capienza carceraria normale”, si scontrano, purtroppo, con la realtà.
Dal momento in cui si è insediato il governo si conta un aumento di 6.220 detenuti adulti e 201 suicidi avvenuti nelle carceri italiane (record negativo assoluto).
Dal momento in cui si è insediato il governo si conta un aumento di 6.220 detenuti adulti e 201 suicidi avvenuti nelle carceri italiane (record negativo assoluto). Questo è il triste bilancio che descrive le scelte operate dall’attuale legislatura che si trova a metà del proprio mandato.
L’aumento della popolazione carceraria data anche dalle numerose nuove fattispecie di reato, circostanze aggravanti e aggravi di pena sparsi e sparse nei vari “Decreto rave”, “Decreto Caivano” e “Decreto sicurezza” non trova, infatti, alcun argine in altre disposizioni normative di recente introduzione.
Nemmeno il “Decreto carceri”, oggetto del presente contributo, ha introdotto alcuna disposizione normativa in grado di contribuire alla riduzione della popolazione carceraria.
Questo a doverosa premessa della presente analisi – più di tipo tecnico che ideologico – che qui si intende fare delle norme contenute nel D.L. 4 luglio 2024, n. 92, convertito con alcune modifiche dalla Legge 8 agosto 2024 n. 112. Poiché alla vigilia dell’emanazione del citato Decreto, in molti, detenuti in primis, si aspettavano una risposta concreta all’emergenza (numerica e non) in cui versa il nostro sistema penitenziario. Risposta che non è arrivata.
Il “Decreto Carceri”, infatti, non contiene alcuna disposizione che seriamente possa incidere in maniera deflattiva sul dramma del sovraffollamento degli istituti di pena.
Il “Decreto Carceri”, infatti, non contiene alcuna disposizione che seriamente possa incidere in maniera deflattiva sul dramma del sovraffollamento degli istituti di pena. Più in generale trattasi di una novella legislativa dallo scarsissimo impatto sostanziale sulla vita delle persone detenute: accanto a norme programmatiche di impossibile realizzazione – che servono più che altro a mantenere viva una propaganda politica di impossibile realizzazione – vi sono disposizioni che intervengono in maniera sparsa su diversi istituti di diritto penitenziario andando a modificare esclusivamente aspetti più che altro procedurali, che non ampliano minimamente i diritti dei detenuti e non né migliorano nè le condizioni di carcerazione nè l’accesso alle misure alternative.
La prima norma di interesse è disciplinata all’art. 4bis, con la quale viene istituito il Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria.
La prima norma di interesse è disciplinata all’art. 4bis, con la quale viene istituito il Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, che ha il compito di pianificare la realizzazione di nuove infrastrutture penitenziarie e la ristrutturazione o riqualificazione delle strutture già esistenti. Proprio con tale norma il legislatore si impegna, su carta, a far fronte alla “grave situazione di sovraffollamento degli istituti penitenziari”. Trattasi di un impegno destinato, per la ragioni che vedremo, a cascare nel vuoto e che si inserisce in quella logica di governo della cosa penitenziaria che vorrebbe da una parte perseguire fini securitari mediante l’innalzamento delle pene e l’introduzione di nuovi reati e dall’altra risolvere l’emergenza del sovraffollamento semplicemente ampliano il numero dei posti letto.
La norma prevede che il Commissario, entro 120 giorni dalla sua nomina, rediga un programma dettagliato di tutti gli interventi necessari per perseguire il fine prefissato. Ebbene, nove mesi dopo, il programma non pare ancora pronto. L’unico intervento edilizio concretamente avviato riguarda la costruzione di sedici moduli prefabbricati all’interno di nove istituti penitenziari già funzionanti sparsi per le regioni Calabria, Emilia-Romagna, Abruzzo, Lazio, Lombardia Piemonte e Sicilia.
Ed è proprio a fronte dei numeri che connotano l’unica opera effettivamente avviata che la via edilizia mostra tutta la sua inefficacia deflattiva in relazione al problema del sovraffollamento. Con la costruzione dei menzionati prefabbricati si andrà ad incrementare la capienza delle carceri di appena 384 unità, numero ridicolo se solo consideriamo che nel primo quadrimestre del 2025 vi è già stato un aumento di 584 detenuti sul territorio nazionale.
Pur in assenza del piano redatto dal Commissario straordinario, l’indizione del bando per la costruzione di questi sedici prefabbricati è stato accompagnato da dichiarazioni di programma da parte del Governo, che ha annunciato 7000 nuovi posti entro la fine del 2027.
L’annuncio appare del tutto inverosimile. L’ aumento di 384 unità costerà 32 milioni di euro per i soli costi strutturali; circa 83.000 euro per ogni detenuto. Questo significa che si dovrebbero stanziare almeno 560 milioni di euro, senza considerare che i prefabbricati non potranno essere tutti costruiti all’interno di carceri già esistenti e che l’aumento degli spazi comporterebbe un necessario aumento dell’organico degli operatori che a vario titolo lavorano in carcere (agenti di polizia penitenzia, educatori, direttori, contabili, personale sanitario ecc.) con una, allo stato, imprevedibile moltiplicazione della spesa pubblica.
In ogni caso, nella migliore (e fantasiosa) delle ipotesi in cui i progetti del governo vengano rispettati, l’aumento della capienza andrà di pari passo con l’aumento della popolazione detenuta, senza quindi offrire alcuna soluzione al problema del sovraffollamento, non riuscendo a sconfessare quanto sostenuto in premessa.
L’art. 5 interviene sull’istituto della liberazione anticipata o, meglio, interviene sulla procedura di concessione della liberazione anticipata.
L’art. 5 interviene sull’istituto della liberazione anticipata o, meglio, interviene sulla procedura di concessione della liberazione anticipata, in quanto sotto il profilo quantitativo nulla è cambiato: il detenuto continuerà ad ottenere uno sconto di pena di quarantacinque giorni per ogni semestre in cui dimostra una “partecipazione all’opera di rieducazione”.
Il Decreto modifica, invece, le procedure di concessione, i momenti in cui la detrazione viene effettivamente applicata e gli obblighi informativi della Procura della Repubblica o della Procura Generale al momento dell’emissione dell’ordine di esecuzione.
Il comma 1 della norma in commento modifica l’art. 656 del codice di rito, introducendo l’obbligo di indicare nell’ordine di esecuzione, oltre al fine pena secco corrispondente al computo della sanzione penale irrogata dal giudice con sentenza definitiva, anche il fine pena ipotetico che tenga conto dell’eventuale detrazione di tutti i possibili periodi di liberazione anticipata, da accompagnare con l’avviso – o, meglio, monito paternalistico1 – che le future detrazioni non saranno riconosciute qualora il detenuto durante il periodo di esecuzione non abbia partecipato all’opera di rieducazione.
Il senso di tale modifica sfugge se non viene letta in concerto con le altre disposizioni che intervengono sull’istituto della liberazione anticipata.
Con la novella, infatti, si stravolge la procedura di concessione della liberazione anticipata, riformulando interamente l’art. 69bis dell’Ordinamento Penitenziario. La modifica più rilevante attiene alle modalità di iniziativa volte al riconoscimento del beneficio: il detenuto, salvo specifico interesse, non si potrà più avanzare alcuna istanza semestrale per ottenere le detrazioni previste, ma queste verranno calcolate e applicate d’ufficio dal competente magistrato di sorveglianza in occasione, alternativamente, di un’istanza di accesso alle misure alternative o a ridosso dell’ipotetico fine pena indicato nell’ordine di esecuzione. A ciò si aggiunge l’ulteriore modifica per cui la concessione del beneficio non verrà più comunicata al detenuto, che si vedrà notificare solamente i provvedimenti di rigetto.
L’indicazione del fine pena ipotetico all’interno dell’ordine di esecuzione ha, quindi, la funzione di orientare il detenuto e il suo difensore – da una parte – e il magistrato di sorveglianza – dall’altra – sulle tempistiche con cui avanzare un’istanza di misura alternativa o determinare il fine pena ridotto per la concessione del beneficio.
I calcoli relativi al computo della liberazione anticipata avverranno, quindi, in un unico momento: quando il detenuto chiede di poter scontare il residuo pena in misura alternativa o quando si avvicina il fine pena ipotetico. Pertanto, al fine di scongiurare che le attività istruttorie aventi ad oggetto la concessione di numerosi periodi di liberazione anticipata vadano ad incidere negativamente sull’accesso del detenuto alle misure alternative o, peggio ancora, sulla sua definitiva scarcerazione, il legislatore ha introdotto due speculari termini: il detenuto potrà avanzare l’istanza di accesso alle misure alternative a decorrere dal novantesimo giorno antecedente al maturarsi dei presupposti (es. l’stanza di affidamento in prova ai servizi sociali potrà essere avanzata a partire dai quattro anni e tre mesi di pena residua ipotetica, già computati i possibili sconti), mentre il magistrato di sorveglianza dovrà computare d’ufficio tutti i periodi di liberazione anticipata entro lo stesso termine di novanta giorni antecedenti al fine pena.
Il nuovo sistema declinato dal legislatore, come la stessa Relazione tecnica chiarisce, persegue evidenti obbiettivi di efficientismo giudiziario, il cui effettivo raggiungimento desta non poche perplessità.
Il nuovo sistema declinato dal legislatore, come la stessa Relazione tecnica chiarisce, persegue evidenti obbiettivi di efficientismo giudiziario, il cui effettivo raggiungimento desta non poche perplessità.
Chiunque abbia avuto a che fare con gli uffici giudiziari di sorveglianza sa come su tutto il territorio nazionale gli stessi siano in enorme sofferenza e hanno un carico di arretrati già oggi poco gestibile. Dover completare l’istruttoria utile a valutare la concessione del beneficio della liberazione anticipata, e, quindi, l’adesione del detenuto alla rieducazione, in un unico momento e non più semestralmente, comporta non pochi disagi nei lavori dei predetti uffici, con il rischio di ritardi che vadano ad incidere negativamente sui diritti dei detenuti.
Si pensi ad esempio alla valutazione che possa avere ad oggetto la concessione di tutti i periodi di liberazione anticipata di un detenuto che abbia già scontano una pena di venti anni di reclusione, trascorsi in diversi istituti sparsi sul territorio. In questo caso il magistrato di sorveglianza, in un unico momento, si troverà a dover valutare la partecipazione del condannato all’opera di rieducazione in relazione a quaranta semestri, dovendo recuperare (lui o chi per lui) la documentazione utile, anche molto risalente nel tempo, da tutti i diversi istituti.
Prima della riforma, la valutazione semestrale su istanza dell’interessato, pur moltiplicando i momenti in cui il magistrato di sorveglianza era chiamato ad esprimere il proprio giudizio sulla concessione della liberazione anticipata, consentiva accertamenti più rapidi e agevoli, senza rischi di errori che potessero determinare la carcerazione del detenuto oltre il termine previsto per legge.
Inoltre, l’esperienza insegna che l’adozione di provvedimenti ex officio – non su impulso dell’interessato – da parte della magistratura, soprattutto in quegli uffici già in carenza strutturale e organizzativa, comporta spesso un mancato rispetto del termine per la decisione. Non a caso, quasi tutti gli analoghi termini previsti dal codice di procedura penale sono termini meramente ordinatori, al cui mancato rispetto non consegue alcun tipo di effetto.
È facile, dunque, immaginarsi che a dispetto degli auspici del legislatore – che prevede un sistema rodato in autonomia, scevro da inutili istanze di parte – a ridosso del maturare del termine di fine pena, gli uffici giudiziari di sorveglianza verranno inondati di sollecitazioni al rispetto dei propri compiti.
La valutazione periodica del detenuto permetteva, infatti, l’instaurarsi di un rapporto continuativo tra il detenuto e il suo magistrato di sorveglianza e questo facilitava un’effettiva conoscenza da parte del secondo della storia detentiva del primo.
Vi è poi un’altra perplessità che attiene alla cancellazione delle valutazioni semestrali delle istanze di liberazione anticipata. Sull’altare dell’efficientismo pare essere stata sacrificata la funzione propria della magistratura di sorveglianza nel suo ruolo di giudice della risocializzazione del detenuto. La valutazione periodica del detenuto permetteva, infatti, l’instaurarsi di un rapporto continuativo tra il detenuto e il suo magistrato di sorveglianza e questo facilitava un’effettiva conoscenza da parte del secondo della storia detentiva del primo, utile affinché i provvedimenti adottati potessero rispecchiare maggiormente quel giudizio di umanizzazione della pena che la magistratura di sorveglianza su tutte è chiamata ad esprimere.
Non va posto in secondo piano il fatto che la valutazione del percorso rieducativo e i vari benefici penitenziari che lo facilitano debbano necessariamente partire da un’indagine soggettiva del detenuto e della sua storia, che veniva sicuramente favorita dal contatto continuo garantito dalle richieste di concessione di liberazione anticipata.
Il chiarimento di alcune delle perplessità sopra avanzate avrebbe dovuto trovare spazio nel regolamento attuativo di armonizzazione del nuovo sistema di concessione della liberazione anticipata, che il Governo avrebbe dovuto emanare nel termine di sei mesi dall’entrata in vigore del decreto. Tuttavia, al momento, di tale regolamento non vi è traccia.
L’art. 6 del Decreto prevede l’aumento dei colloqui telefonici dei detenuti, che passano da una volta a settimana a sei al mese.
L’art. 6 del Decreto prevede l’aumento dei colloqui telefonici dei detenuti, che passano da una volta a settimana a sei al mese, equiparandone la frequenza a quella dei colloqui visivi. Trattasi di una modifica sicuramente apprezzabile, ma eccessivamente timida, perché di fatto prevede quello che già era previsto nella prassi: i direttori degli istituti, soprattutto a seguito del periodo di epidemia, erano soliti concedere telefonate straordinarie.
Senza sottovalutare l’importanza di trasformare una concessione dall’alto in un diritto, la modifica in parola comunque non incide quanto avrebbe dovuto sui problemi che affliggono le nostre carceri, soprattutto se posta nella proclamata ottica di alleviare la sofferenza psicologica che caratterizza la vita attuale negli istituti penitenziari italiani e di conseguenza contenere il rischio suicidiario.
Come indicava correttamente il prof. Ruotolo nella memoria scritta presentata alla Commissione giustizia del Senato durante la sua audizione nell’ambito dell’esame del qui analizzato Decreto, sarebbe stato opportuno un intervento più incisivo che non riguardasse solo il numero di colloqui, ma ne estendesse – per esempio – anche la durata, ad oggi contenuta in miseri dieci minuti.
Peraltro, la prospettata modifica dell’art. 39 O.P. è subordinata ancora una volta all’approvazione di un regolamento attuativo – che non vi è stata – e, quindi, al momento l’aumento delle telefonate previsto dipende dal provvedimento autorizzati dalla direzione dell’istituto penitenziario.
Si prevede l’istituzione di uno specifico elenco delle strutture idonee all’accoglienza dei detenuti che non possiedono un domicilio idoneo e non hanno risorse sufficienti per provvedere al proprio sostentamento, al fine di favorirne l’accesso alle misure alternative.
L’ulteriore norma che si vuole passare in analisi è contenuta all’art. 8 del Decreto, con la quale si introducono disposizioni “in materia di strutture residenziali per l’accoglienza e il reinserimento sociale dei detenuti”, con le quali si prevede l’istituzione di uno specifico elenco delle strutture idonee all’accoglienza dei detenuti che non possiedono un domicilio idoneo e non hanno risorse sufficienti per provvedere al proprio sostentamento, al fine di favorirne l’accesso alle misure alternative.
Le valutazioni che si possono esprimere sul punto attengono alla mera teoria, in quanto l’istituzione dell’elenco nonché i criteri di iscrizione, le modalità e le caratteristiche dei servizi da prestare dovranno essere disciplinati, ai sensi del comma 2 del citato articolo, da un decreto del Ministro della giustizia, non ancora emesso.
Giova, in ogni caso, osservare che la misura difficilmente avrà una reale capacità deflattiva. Questo perché il Tribunale di Sorveglianza può, già, disporre che la misura alternativa concessa venga eseguita presso un domicilio messo a disposizione da un privato sociale.
Andrà, quindi, posta attenzione ai criteri richiesti dal decreto ministeriale per poter accedere all’elenco introdotto dall’art. 8 e alla prassi giurisprudenziale che si affermerà in seguito. Se oggi, infatti, il Tribunale di Sorveglianza è libero nel proprio autoconvincimento di valutare l’idoneità dei domicili messi a disposizione dalle associazioni del terzo settore e da privati ospitanti, non possiamo sapere se, invece, l’istituzione dell’elenco avrà l’effetto di legare le mani della magistratura con la conseguenza che i detenuti indigenti possano accedere alla misura alternativa solo e soltanto se ospitati da una delle struttura iscritta all’elenco in adesione alle modalità e ai criteri imposti dalla normativa secondaria.
È pur vero che, a rigore di norma, tale effetto non dovrebbe prodursi, potendosi liberamente creare un doppio binario tra le strutture convenzionate ed inserite nell’elenco e le strutture che continuano ad offrire il servizio di social housing liberi da vincoli. Tuttavia, un’eccessiva formalizzazione dell’ospitalità sociale rischia di condizionare la valutazione di idoneità delle strutture e restringere, quindi, il numero di soggetti che offrono volontariamente tale servizio.
Un conto è valorizzare la solidarietà dei privati nell’offrire ai detenuti un luogo alternativo dove scontare la pena, un altro è legittimare un intervento diretto del privato nell’opera rieducativa del detenuto
Le modalità applicative della norma in commento andranno poi attentamente monitorate anche sotto diverso e fondamentale profilo.
Secondo quanto previsto al comma 3 dell’art. 8 le strutture residenziali che ambiscono ad essere inserite nell’elenco delle strutture convenzionate, oltre a garantire una idonea accoglienza residenziale, dovranno fornire “servizi di assistenza, di riqualificazione professionale e di reinserimento socio-lavorativo ai soggetti residenti”. In attesa di capire come sarà concretizzato il procedimento di accreditamento delle strutture residenziali, il neanche tanto velato riferimento alla necessità che le stesse svolgano un ruolo diretto nella rieducazione del soggetto condannato potrebbe aprire le porte alla detenzione privatizzata, contraria ai dettami costituzionali che giustamente pongono la fase dell’esecuzione della pena in mano pubblica.
Un conto è valorizzare la solidarietà dei privati nell’offrire ai detenuti un luogo alternativo dove scontare la pena, un altro è legittimare un intervento diretto del privato nell’opera rieducativa del detenuto, connotata di valori propri non necessariamente corrispondenti a quelli democratici, laici e liberali che dovrebbero caratterizzare il nostro ordinamento giuridico. Numerosi sono i soggetti privati che a vario titolo si stanno affacciando con interesse al mondo dell’esecuzione della pena, con l’intento di offrire un proprio personale, alternativo e non necessariamente condivisibile contributo nella scelta dei modi e delle finalità da perseguire nell’opera di risocializzazione del detenuto.
È, dunque, fondamentale evitare che i generici riferimenti alla necessità di garantire servizi di reinserimento sociale da parte delle strutture convenzionate dallo Stato si trasformi nel grimaldello capace scardinare un sistema necessariamente pubblicistico dell’esecuzione penale, legittimando così l’affermarsi del carcere privato.
La possibilità per il detenuto disoccupato di accedere, ai fini della concessione della misura alternativa dell’affidamento in prova ai servizi sociali, ad attività di volontariato o attività di pubblica utilita.
L’ultima norma sulla quale ci si vuole soffermare è disciplinata dall’art. 10bis del decreto che modifica l’art. 47 O.P. inserendovi il comma 2bis, che prevede la possibilità per il detenuto disoccupato di accedere, ai fini della concessione della misura alternativa dell’affidamento in prova ai servizi sociali, ad attività di volontariato o attività di pubblica utilita.
Tale aggiunta, comunque ben accetta, non comporta alcuna modifica sostanziale dell’Ordinamento penitenziario né potrà allargare il numero delle persone che usufruiranno della misura alternativa dell’affidamento in prova.
Ciò in quanto la disposizione si limita a recepire un principio già stabilito e pacificamente consolidato dalla giurisprudenza di legittimità. La Corte di Cassazione, infatti, da tempo si è uniformata nel ritenere che il giudizio prognostico circa il favorevole reinserimento sociale del condannato tramite l’applicazione della misura alternativa possa prescindere dallo svolgimento o dalla proposta di un’attività lavorativa individuando, al contempo, l’UEPE come l’ente competente non solo a fornire all’autorità giudiziaria “il programma di trattamento da applicare ai condannati che chiedono di essere ammessi all’affidamento in prova e alla detenzione domiciliare” ma, anche, a formulare proposte di attività lavorativa o equipollente attività di volontariato o pubblica utilità2.
Ne consegue che l’art. 10bis altro non fa che recepire un orientamento giurisprudenziale che non lasciava spazio a divergenti interpretazioni. Quindi, la sua introduzione, non modificherà l’attuale assetto normativo, ma si limita a mettere su carta una facoltà già riconosciuta.
In conclusione, fedeli alla premessa, le norme contenute nel Decreto esulano da qualunque utilità concreta di contrasto alle gravi criticità che affliggono il nostro sistema penitenziario, sovraffollamento e suicidi su tutte, e non risponde quindi ad alcuna delle urgenti istanze che continuano ad essere incessantemente rivolte al legislatore.
In altre parole, la desolata sensazione che si ricava leggendo le norme qui brevemente analizzate è che il legislatore abbia scelto di non affrontare i problemi alla radice, con il rischio di compromettere la sua fede securitaria che pervade tutti gli altri interventi normativi in materia penale, limitandosi ad intervenire nel minimo dispensabile.