Diritto alla salute: l’esperienza dello sportello di Rebibbia

di Benedetta Centonze e Francesca Stanizzi

Diritto alla salute: l’esperienza dello sportello della C.C. di Roma Rebibbia N.C.

Introduzione

Il diritto alla salute e l’accesso alle cure nel contesto penitenziario rappresentano uno dei problemi più sentiti dalla popolazione detenuta. Nonostante sia formalmente garantito dal Sistema Sanitario Nazionale, e quindi di competenza del Ministero della Salute, il suo rispetto viene quotidianamente disatteso. Il carcere, infatti, viene frequentemente definito come un luogo “patogeno” che, oltre a compromettere l’equilibrio psicologico delle persone detenute, contribuisce al peggioramento delle loro condizioni fisiche. Le criticità strutturali del sistema penitenziario, come il sovraffollamento, l’assenza di spazi adeguati per l’attività fisica, la carenza di presidi medici e l’accesso discontinuo alle cure, concorrono a determinare un contesto sfavorevole alla tutela della salute. Le strutture sono inadeguate, il personale è insufficiente e l’accesso a ricoveri ospedalieri esterni sconta lunghe attese, aggravate dalla cronica carenza di agenti di polizia penitenziaria necessari per le traduzioni.

Questo contributo si inserisce nell’ambito del lavoro che Antigone svolge per la tutela dei diritti delle persone detenute, con particolare attenzione alla Casa circondariale di Roma Rebibbia Nuovo Complesso “Raffaele Cinotti”.

Questo contributo si inserisce nell’ambito del lavoro che Antigone svolge per la tutela dei diritti delle persone detenute, con particolare attenzione alla Casa circondariale di Roma Rebibbia Nuovo Complesso “Raffaele Cinotti”. In questo istituto è attivo, dal 2012, uno sportello legale dell’Associazione: il primo aperto da Antigone all’interno di un carcere. Lo sportello è composto da circa 15 persone, tra volontari che effettuano ingressi in istituto e altri che forniscono supporto in back office. Lo sportello offre un servizio a tutela dei diritti delle persone detenute attraverso l’informazione, l’aiuto nella redazione di istanze e reclami, l’invio di segnalazioni/solleciti alle istituzioni interessate. Il tutto senza assumere la difesa delle persone con cui si entra in contatto e senza sovrapporsi all’attività degli Avvocati nominati dagli interessati. Le problematiche sottoposte all’attenzione dello sportello sono varie: richieste di accesso alle prestazioni di patronato, supporto nella redazione di varie tipologie di istanze (trasferimenti, reclami, accesso ai colloqui), richieste afferenti al diritto all’immigrazione e, non ultime, richieste di supporto nella tutela del fondamentale diritto alla salute.

L’elevato numero di richieste di supporto sanitario rilevate dall’attività dello sportello hanno permesso di sviluppare l’idea di dialogare direttamente con i professionisti sanitari che lavorano all’interno dell’istituto per comprendere il loro punto di vista sulle difficoltà riscontrate. Entrare in carcere offre infatti uno sguardo diretto su ciò che accade ogni giorno, permettendo di far emergere le storie e i problemi vissuti sia dai detenuti sia da chi vi lavora. Il confronto si è svolto direttamente all’interno dell’infermeria di uno dei reparti dell’istituto, coinvolgendo due medici, alcune infermiere e operatori socio-sanitari. Anche da parte loro è emersa con chiarezza la volontà di dare voce alle difficoltà vissute ogni giorno.

Turni e condizioni di lavoro

Il personale medico racconta di un turnover elevato: molti professionisti scelgono di lavorare in carcere solo temporaneamente nell’attesa di un impiego più stabile, dignitoso e meno usurante.

Ciò che emerge con chiarezza fin dai primi scambi con il personale medico-sanitario è la complessità delle condizioni in cui si trovano quotidianamente ad operare. L’ambiente penitenziario di per sé è un contesto intricato sia per le regole rigide da cui è caratterizzato, sia per la molteplicità dei bisogni sanitari della popolazione detenuta. Tutte queste problematiche comportano complicazioni anche sull’organizzazione del lavoro e sulla tenuta emotiva del personale. Medici, infermieri e operatori socio sanitari si trovano a gestire situazioni critiche con strumenti limitati, in un precario equilibrio tra doveri professionali, responsabilità legali e sensibilità umana, a fronte di una popolazione detenuta spesso fragile per condizioni psichiche, fisiche o sociali. Proprio a riguardo, il personale medico racconta di un turnover elevato: molti professionisti scelgono di lavorare in carcere solo temporaneamente nell’attesa di un impiego più stabile, dignitoso e meno usurante. Non è un caso che il medico più anziano in organico lavori in istituto da soli sette anni.

Per comprendere meglio le difficoltà e l’organizzazione dell’assistenza sanitaria all’interno dell’istituto è utile osservare la struttura dell’istituto penitenziario in oggetto. La C.C. di Rebibbia N.C. si presenta di notevoli dimensioni: stando agli ultimi dati resi disponibili dal Ministero della Giustizia, aggiornati al 31 marzo 2025, erano presenti in istituto 1.561 persone detenute, su una capienza regolamentare pari a 1.170 posti, cui consegue un tasso di sovraffollamento pari al 133,4%.

L’istituto è strutturato in diversi reparti: il G6 funge da reparto di transito anche se è principalmente adibito ad accogliere le persone in isolamento. Qui si trova l’infermeria centrale. Il G8 ospita le persone con condanne definitive e tendenzialmente più lunghe, studenti universitari e, nel c.d. padiglione “venere”, una parte significativa della popolazione in regime di semilibertà o lavoro all’esterno. Altresì, il reparto ospita una piccola sezione per persone transgender. Il G9 ospita detenuti comuni, ma anche due sezioni precauzionali: una storicamente situata al primo piano e una, più recente, inaugurata nel 2023 al piano terra. Il G11 è uno dei reparti più delicati sotto il profilo sanitario: oltre ad ospitare persone con reati comuni vi è una sezione per persone tossicodipendenti e un’altra per persone recanti disabilità fisiche. Dal 2023, una porzione del reparto, il braccio “Terra A”, è stata destinata a detenuti in regime precauzionale fuori circuito. Il G12 ospita detenuti comuni, una sezione per “nuovi giunti” e una sezione destinata alle persone detenute in regime di Alta Sicurezza. Il G13 (ex G7) ospita persone detenute in regime di 41-bis ed, infine, il reparto G14 è riservato esclusivamente a pazienti con problematiche di salute più gravi, nonché malattie infettive, principalmente HIV conclamato. Il reparto ospita anche il servizio di assistenza ambulatoriale.

Durante la notte non è garantita la presenza di un medico per reparto, ma restano di guardia presso il G6 due infermieri e un medico per tutto l’istituto.

La distribuzione del personale sanitario segue, almeno parzialmente, la complessità delle esigenze. Al G11, data la fragilità dell’utenza, sono stati assegnati quattro medici. Al G12 e al G9 prestano servizio due medici ciascuno, mentre una parte dello staff medico copre i turni di guardia presso il G6, garantendo la presenza continua per far fronte a eventuali urgenze. Durante la notte non è garantita la presenza di un medico per reparto, ma restano di guardia presso il G6 due infermieri e un medico per tutto l’istituto. I turni dei medici iniziano generalmente tra le 7:30 e le 8:00 del mattino e si protraggono fino alle 18:00-19:00, ma l’orario effettivo di uscita dall’istituto dipende dalle necessità che emergono nel corso della giornata. I turni degli infermieri invece sono strutturati in due fasce orarie: il turno del mattino va dalle 7:30 alle 14:30, mentre quello del pomeriggio dalle 14:30 alle 22:30. In teoria, i turni sono ben definiti; nella pratica, però, sulla base dei racconti del personale, capita spesso che il turno del mattino si prolunghi, sovrapponendosi con quello successivo per far fronte a esigenze impreviste o alla semplice carenza di personale. Anche le pause, seppur necessarie in un contesto tanto impegnativo, non sono ufficialmente riconosciute. Vengono autogestite dagli operatori, che cercano di alternarsi e supportarsi tra loro. Ma questa forma di mutuo soccorso comporta anche dei rischi: se durante la breve assenza per una pausa dovesse verificarsi un evento critico, il personale in turno potrebbe trovarsi a doverne rispondere, come se l’assenza dal reparto, pur momentanea e necessaria, fosse una mancanza ingiustificata. A queste figure professionali, si affiancano quelle degli operatori socio-sanitari che sono circa 17 per tutto il polo penitenziario di Rebibbia ed entrano in tutti i reparti.

Per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro, considerato l’elevato numero di richieste che il personale medico deve gestire, è stato predisposto un sistema di prenotazione delle visite volto a garantire un accesso ordinato e tracciabile all’infermeria. In ciascun piano dei reparti viene affisso un foglio sul quale le persone detenute possono autonomamente iscriversi per richiedere una visita medica. Tale modalità consente al personale sanitario di organizzare le visite secondo l’ordine di prenotazione assicurando così una gestione più efficiente. Tuttavia, anche nei momenti in cui l’infermeria non è operativa, capita continuamente che persone detenute si presentino in infermeria senza prenotazione al fine di sollecitare visite non programmate o la distribuzione di farmaci, con un conseguente aumento della pressione sul servizio.

In alcuni casi, le pressioni per ottenere i medicinali degenerano in minacce di atti autolesionistici, contribuendo a creare un clima di tensione continua e difficile gestione.

Proprio in relazione alle richieste di farmaci, il personale sanitario segnala la sussistenza di dinamiche particolarmente complesse, che richiedono una costante attenzione sia alla salute che alla prevenzione degli abusi. Spesso infatti, secondo quanto riportato, le richieste riguardano farmaci di cui non sussiste un reale bisogno clinico. Sembrerebbe esistere un fenomeno di spaccio diffuso all’interno del reparto, che coinvolge anche i farmaci distribuiti regolarmente. In particolare, il Lyrica (Pregabalin), farmaco normalmente utilizzato per trattare il dolore neuropatico, gestire l’epilessia o curare disturbi d’ansia generalizzati, in carcere viene frequentemente utilizzato come merce di scambio e strumento di controllo perché utilizzato come sostanza psicoattiva che, se assunta in dosi elevate, può indurre euforia, dissociazione e in alcuni casi può avere effetti simili agli oppiacei. Per questa ragione viene strumentalizzato e contribuisce allo sviluppo di dinamiche informali che sono tipiche dei contesti carcerari. In alcuni casi, le pressioni per ottenere i medicinali degenerano in minacce di atti autolesionistici, contribuendo a creare un clima di tensione continua e difficile gestione. La somministrazione di farmaci e terapie avviene direttamente nei reparti da parte delle infermiere (tutte donne, tra quelle intervistate), una modalità che comporta inevitabili criticità sul piano della sicurezza. Il personale segnala infatti che, a causa della carenza di agenti, la polizia penitenziaria non è sempre presente durante la distribuzione, costringendo le infermiere a fare affidamento esclusivamente sul supporto reciproco per gestire eventuali situazioni di rischio.

Rapporti con l’ASL Roma2

L’istituto penitenziario di Rebibbia N.C. si trova nella zona di competenza dell’ASL Roma2, riferimento, pertanto, nella gestione delle assunzioni, oltre che nella fornitura dei dispositivi sanitari necessari allo svolgimento del lavoro (es. ricettari, materiale sanitario, macchinari e simili) e di ogni questione relativa alla gestione della questione sanitaria in istituto. Dall’intervista è emersa una evidente latenza dell’ASL nel fornire l’assistenza sanitaria necessaria, tanto alle persone detenute quanto ai professionisti sanitari.

I medici che operano all’interno non hanno mai ricevuto una stabilizzazione del proprio contratto di lavoro (l’ultima stabilizzazione risale al 2018) ma operano a prestazione.

Con riguardo alle modalità di assunzione, a differenza dell’ASL Roma 1 (competente per altri istituti), l’ASL Roma2 non pubblica bandi visibili. I medici che operano all’interno non hanno mai ricevuto una stabilizzazione del proprio contratto di lavoro (l’ultima stabilizzazione risale al 2018) ma operano a prestazione con conseguente retribuzione sulla base delle ore lavorate, comunicate attraverso la redazione di un prospetto. Conseguentemente, non hanno a disposizione ferie retribuite o malattie: se non svolgono attività lavorativa non hanno diritto ad alcuna retribuzione. Questo contribuisce all’assenza di volontà dei professionisti di settore nel lavorare all’interno degli istituti penitenziari: la totale mancanza di tutele e contratti stabili implica la migrazione verso contrattualizzazioni più sicure. Per ciò che concerne, invece, infermieri e OSS, questi sono assunti tramite una cooperativa esterna, per cui le condizioni contrattuali dipendono da quest’ultima, non dall’ASL.

Anche relativamente alla fornitura di attrezzature sanitarie, come sedie a rotelle, busti ortopedici o stampelle, il personale segnala una totale assenza di supporto da parte della ASL.

Anche relativamente alla fornitura di attrezzature sanitarie, come sedie a rotelle, busti ortopedici o stampelle, il personale segnala una totale assenza di supporto da parte della ASL. Di conseguenza, questi ausili risultano spesso insufficienti all’interno dei reparti, rendendo necessaria una turnazione tra i detenuti per il loro utilizzo. In un reparto come il G11, ad esempio, ove vi è una sezione dedicata alle persone che presentano disabilità fisiche ed è anche il più popolato dell’istituto, con oltre 400 persone, sono disponibili soltanto due sedie a rotelle che devono essere condivise tra tutte le persone con difficoltà nella deambulazione. Anche le stampelle sono del tutto inadeguate, tenute insieme tramite l’utilizzo di garze e strumenti di fortuna. Le persone detenute possono anche richiedere l’autorizzazione a farsi consegnare strumentazione medica di supporto, a proprie spese, ma la procedura è complessa: occorre presentare una richiesta formale (la cosiddetta “domandina”) a cui deve seguire un nulla osta sanitario. L’istanza viene poi valutata dalla direzione dell’istituto che può negare l’ingresso per ragioni di sicurezza. È il caso, ad esempio, dei busti ortopedici con stecche in metallo, considerati potenzialmente pericolosi. Anche rispetto alle ipotesi emergenziali le condizioni appaiono inadeguate: i reparti dispongono di un solo defibrillatore e una sola borsa di emergenza. Le celle non sono dotate di campanelli di allarme e il personale sanitario può comunicare solo attraverso un telefono interno che non consente contatti diretti con l’esterno, rallentando l’intervento in caso di urgenza. Infine, anche l’accesso a strumenti basilari per la gestione quotidiana, come i ricettari medici, è stato a lungo problematico. Solo dopo lunghe trattative si è ottenuta la consegna regolare ogni dieci giorni.

Sembrerebbe, inoltre, che in passato vi sia stata una cooperazione tra l’ASL e la Regione Lazio per fornire l’infermeria centrale, sita all’interno del reparto G6, di macchinari e apparecchiature d’avanguardia per semplificare il lavoro interno, ad esempio consentendo lo sviluppo delle analisi del sangue direttamente in istituto evitando le lungaggini del trasporto in laboratorio. Al momento dell’intervista, tuttavia, risulta che tali strumenti siano del tutto inutilizzati senza una giustificazione ufficiale. La supposizione delle persone intervistate è che l’utilizzo implica dei costi di manutenzione e funzionamento che l’ASL non è in grado di coprire.

Problematiche sanitarie ricorrenti

Le principali patologie riscontrate, infatti, sono di tipo cardiovascolare, ipertensione, arteriopatie, in generale sindromi che, all’esterno, si sviluppano in età più avanzata.

Rispetto alle patologie più frequentemente riscontrate tra la popolazione detenuta, stando a quanto riferitoci, il carcere porta con sé affezioni legate spesso a trascorsi di tossicodipendenza che compromettono lo stato di salute fisica e psichica dell’interessato. Le principali patologie riscontrate, infatti, sono di tipo cardiovascolare, ipertensione, arteriopatie, in generale sindromi che, all’esterno, si sviluppano in età più avanzata. Inoltre, le condizioni di promiscuità tipiche del carcere implicano la diffusione di malattie infettive quali la scabbia (la più diffusa) o l’epatite B e C. L’HIV è piuttosto diffuso, con persone affette collocate sia nel G11 che nel G14. Il G14 è riservato esclusivamente a chi ha un’infezione conclamata da HIV o si trova in stato di immunodepressione.

Per quanto riguarda il contenimento delle malattie infettive, non sembra esistere un protocollo operativo chiaro da seguire in caso di diffusione. In genere, risulta difficile isolare le persone contagiate, anche perché mancano spazi adeguati per l’isolamento sanitario e per un eventuale trasferimento temporaneo necessario alla sanificazione della cella originaria. Di conseguenza, la gestione delle emergenze ricade interamente sull’iniziativa e sulle capacità del personale medico e degli altri operatori, che devono adattarsi alle risorse disponibili. L’isolamento viene di solito effettuato all’interno della stessa cella, coinvolgendo anche le altre persone detenute presenti, nel tentativo di contenere la diffusione del virus. Dal punto di vista formale, il personale sanitario è tenuto a notificare il caso alla ASL e a informare il capo-reparto della polizia penitenziaria, che dovrebbe poi attivare le prime misure previste, nei limiti strutturali descritti.

A questo punto, viene spontaneo chiedersi se all’interno dell’istituto siano presenti specialisti, a partire da un infettivologo. Viene riferito che questi è presente in istituto in maniera fissa e che il relativo ambulatorio è attivo al G14, ove si trovano gli ambulatori dei vari specialisti. Tra questi: radiologia (attivo tutti i giorni eccetto la domenica) e pneumologia. Vi sono poi un otorino, una dermatologa, un’urologa, un odontoiatra, un chirurgo, un’ecografista, e un’endocrinologa. La mancanza dell’ortopedico ha creato diversi problemi, nonostante l’offerta specialistica dell’istituto resti piuttosto ampia rispetto alla media delle carceri italiane. L’assenza di questa figura ha avuto un impatto soprattutto sul primo soccorso: in caso di fratture, ad esempio, i tempi per il trasferimento in ospedale sono molto lunghi e non è possibile intervenire direttamente in istituto per contenere i danni. Anche in ambito specialistico non mancano difficoltà di tipo culturale: molte persone detenute, ad esempio, evitano di farsi visitare dall’urologa perché donna, provando forte imbarazzo. In generale, i tempi di attesa per accedere all’ambulatorio sono molto lunghi.

La gestione delle prenotazioni per le visite mediche esterne è descritta come caotica e critica. Il principale ostacolo è rappresentato dalla carenza di “scorte”.

La gestione delle prenotazioni per le visite mediche esterne è descritta come caotica e critica. Il principale ostacolo è rappresentato dalla carenza di “scorte”, ovvero del personale di polizia penitenziaria incaricato di accompagnare le persone detenute in ospedale. La domanda supera di gran lunga le possibilità di risposta, per cui molte visite prenotate saltano, allungando ulteriormente i tempi di accesso alle cure. In caso di urgenza si ricorre talvolta agli agenti in servizio all’interno dell’istituto, riducendo però l’organico disponibile. A peggiorare la situazione contribuisce il sistema di prenotazione: tutte le richieste confluiscono in un unico CUP, e può accadere che nella stessa giornata vi siano visite per più persone, in ospedali diversi. Il personale è quindi costretto a scegliere chi accompagnare. Per esami come TAC e risonanze, i tempi di attesa possono superare i tre anni e, in alcuni casi, la prenotazione non viene nemmeno inoltrata proprio a causa delle attese eccessive. Anche qui, a colmare le lacune è spesso l’iniziativa del personale sanitario.

Anche la gestione delle emergenze presenta numerose criticità. La compilazione della cartella clinica telematica è prevista solo per le situazioni emergenziali, nelle altre ipotesi si continua a utilizzare la cartella clinica cartacea. In situazioni gravi, come ictus o infarto, il personale utilizza la certificazione telematica, necessaria anche per contattare l’esterno. Una volta completate le formalità e avvisato il 118, la persona deve essere trasportata al G6, dove si trova l’infermeria centrale e da dove può essere trasferita in ambulanza. In caso di suicidio, invece, intervengono i medici di guardia, che compilano un certificato cartaceo; a seconda della situazione, si procede poi con l’allerta del 118. Per gli scioperi della fame, gli agenti devono redigere un rapporto preliminare, dopo il quale si può avviare il monitoraggio quotidiano dei parametri vitali. Tutte queste formalità rendono gli interventi lenti e complessi, snaturando il concetto stesso di emergenza. Ancora una volta, è la capacità di adattamento del personale a colmare le carenze del sistema: medici e operatori sanitari sono costretti a improvvisare, operando con pochi mezzi e in perenne emergenza.

Per completare il quadro, le modalità di richiesta dei diari clinici sono sostanzialmente due: o tramite “domandina” classica, successivo nulla osta dell’area sanitaria e richiesta che viene poi inoltrata al personale amministrativo deputato all’effettuazione delle copie; oppure la richiesta viene inoltrata direttamente al dirigente sanitario (es. tramite avvocato), per sottolineare l’urgenza e cercare di ottenere una forma di priorità.

Casi emblematici e conclusioni

Nonostante la gravità dei sintomi, l’esame diagnostico è stato posticipato per mesi a causa della carenza di scorte.

I dati e i racconti finora raccolti sono importanti soprattutto alla luce delle storie delle persone che il carcere lo vivono tutti i giorni sulla loro pelle. Non è raro pensare che ammalarsi in carcere significhi portare addosso una condanna di morte. Per questo motivo è fondamentale dare voce alle storie individuali, che restituiscono con forza l’impatto concreto delle criticità del sistema. Infatti, tutti i problemi fino ad ora evidenziati si ripercuotono sulle vite di migliaia di persone che troppo spesso pagano un prezzo molto alto. Tra le testimonianze raccolte, una delle più toccanti è certamente quella di P.M., detenuto trasferito a Rebibbia Nuovo Complesso dal carcere di Regina Coeli, affetto da una disfonia persistente, un sintomo potenzialmente grave e meritevole di approfondimenti diagnostici tempestivi. Dopo una serie di visite laringoiatriche che hanno evidenziato la necessità di un’analisi più approfondita, si è reso indispensabile ricorrere alla Tac per un esame dettagliato della laringe. Nonostante la gravità dei sintomi, l’esame diagnostico è stato posticipato per mesi a causa della carenza di scorte, costringendo il personale sanitario a enfatizzare il quadro clinico per garantire al paziente l’accesso alla Tac. Una volta effettuata finalmente l’indagine, la diagnosi fin da subito è stata drammatica: un tumore alla laringe. Il signor P.M. ha dovuto subire una laringectomia, un intervento che ha stravolto la sua vita, compromettendo la normale respirazione e riducendo drasticamente le sue capacità comunicative.

Ci viene segnalato anche il caso di una persona che aveva necessità di una visita di controllo per un’ernia. Tuttavia, l’appuntamento è stato ripetutamente rinviato a causa della mancanza di scorte, fino a quando la sua condizione si è aggravata, portando alla necessità di un trasferimento in pronto soccorso per ricevere cure urgenti. La persona aveva nelle more contratto un’infezione: curata questa, è rientrata in istituto con l’ernia ancora presente, riprendendo il calvario della prenotazione della visita di controllo per procedere poi con l’intervento chirurgico, nella speranza di non doversi nuovamente trovare di fronte all’indifferenza.

Il diritto alla salute, sancito dall’articolo 32 della Costituzione, non conosce eccezioni: è un diritto fondamentale, indivisibile, che spetta a ogni persona, ovunque si trovi.

Queste storie sono solo una minima parte di ciò che accade ogni giorno dietro le mura delle nostre carceri. Vicende troppo spesso ignorate, rese invisibili, come se il dolore, la malattia e la dignità cessassero di avere importanza una volta varcata la soglia del carcere. Ma il diritto alla salute, sancito dall’articolo 32 della Costituzione, non conosce eccezioni: è un diritto fondamentale, indivisibile, che spetta a ogni persona, ovunque si trovi. Come società, non si può fare finta di niente: garantire le cure anche in carcere non può essere considerato come un atto di clemenza, ma una questione di giustizia e civiltà. E questo lo si deve non soltanto alle persone detenute, ma anche ai medici, agli infermieri, agli operatori socio-sanitari che ogni giorno, lontano dai riflettori, svolgono il loro lavoro in un contesto di totale abbandono delle istituzioni. Per questa ragione, raccogliere le loro voci, ascoltarne le difficoltà e riconoscerne il valore è il primo passo per restituire centralità alla salute e alla dignità, anche dentro le carceri.