di Francesca Cancellaro, Mariachiara Gentile e Nausicaa Turco
Dalla sua entrata in vigore, con L. 110/2017, il reato di tortura ha trovato particolare spazio applicativo nel contesto penitenziario. Gli esiti dei procedimenti sono diversificati, così come lo sono le vicende da cui traggono origine. È indubbio che l’occasione processuale può essere utilizzata come una delle lenti attraverso cui leggere le dinamiche del conflitto nel contesto penitenziario se messa in relazione ai dati – quantitativi e qualitativi – emergenti dall’attività dell’Osservatorio.
A partire da tre procedimenti in cui è contestato, tra l’altro, il delitto di tortura, per fatti maturati nelle carceri di Ferrara (2017), Modena (2020) e Reggio Emilia (2023) proveremo a sviluppare la riflessione sulle forme e i modi della violenza nel contesto penitenziario.
Da ultimo, analizzeremo il possibile impatto del Decreto sicurezza appena approvato sul governo della conflittualità penitenziaria.
Il caso di Ferrara ha visto la prima condanna in Italia (definitiva, per uno dei poliziotti coinvolti) di agenti di custodia per il reato di tortura.
Il caso di Ferrara ha visto la prima condanna in Italia (definitiva, per uno dei poliziotti coinvolti) di agenti di custodia per il reato di tortura. I fatti risalgono al 30 settembre 2017, a tre mesi dall’introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento. La vittima è un detenuto italiano di 23 anni con una storia detentiva “problematica”, che si trovava al momento dei fatti in regime di isolamento in una c.d. cella liscia (ossia, dotata soltanto di un letto ancorato al pavimento e di una coperta) per il rischio che potesse compiere gesti autolesionistici; dopo aver subito da parte di appartenenti alla Polizia Penitenziaria un “violento pestaggio, operato anche mediante l’utilizzo di un ferro per la battitura”, il detenuto veniva “lasciato in cella ammanettato, in mutande e senza ciabatte” (cfr. sent. Corte Cass. sez. 5 n. 1243/24), ed in tali condizioni veniva trovato dalla dottoressa che successivamente refertava “un incisivo spezzato, una ferita lacero-contusa al labbro inferiore, altra ferita al centro della fronte, un evidentissimo ematoma all’occhio sinistro ed altro più lieve sullo zigomo, escoriazioni varie sulla nuca, sulle spalle e sul petto, nonché degli altrettanto evidenti segni di forma cilindrica disseminati su tutta la schiena” (cfr. sent. Corte Cass. sez. 5 n. 1243/24).
Dei tre poliziotti accusati, uno è stato condannato dal Giudice dell’udienza preliminare, all’esito di rito abbreviato, il 15 gennaio 2021, per tortura aggravata e lesioni aggravate. Si tratta, come anticipato, della prima condanna da parte di un Tribunale italiano per il reato di cui all’art. 613 bis c.p. nei confronti di un pubblico ufficiale. Tale condanna è stata confermata dalla Corte di Appello di Bologna e, con sentenza n. 1243/2024, dalla Corte di Cassazione.
Gli altri due poliziotti imputati, anch’essi accusati di tortura aggravata e lesioni aggravate oltre che di falso in atto pubblico e calunnia, e l’infermiera che aveva falsamente attestato di aver visto il detenuto sbattere la testa sul blindo, accusata di falso in atto pubblico e favoreggiamento personale, sono stati condannati dal Tribunale di Ferrara in composizione collegiale all’esito del dibattimento, in data 10 aprile 2024. Tale sentenza non è definitiva, a fronte dell’impugnazione proposta dagli imputati.
Il caso di Modena riguarda il procedimento per la tortura che sarebbe stata commessa presso la locale Casa circondariale da numerosi agenti di polizia penitenziaria nei confronti di 18 detenuti nel corso delle rivolte scoppiate l’8 marzo 2020
Il caso di Modena riguarda il procedimento per la tortura che sarebbe stata commessa presso la locale Casa circondariale da numerosi agenti di polizia penitenziaria nei confronti di 18 detenuti nel corso delle rivolte scoppiate l’8 marzo 2020, nel momento in cui venivano attuate le prime misure per evitare il contagio da Covid-19, tra le quali la sospensione delle attività trattamentali e dei colloqui con i familiari.
I fatti sono drammaticamente noti perché a seguito di tali rivolte avvenute nel carcere modenese sono morte nove persone, cinque nello stesso istituto e quattro a seguito di trasferimento in altri istituti. Il procedimento penale per i decessi si è concluso con l’archiviazione delle posizioni dei poliziotti penitenziari e del personale medico (ordinanza del 10 giugno 2021) ed è attualmente pendente un ricorso avanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo presentato dai familiari delle vittime e dall’Associazione Antigone.
Il procedimento per i reati di tortura e lesioni aggravate è stato aperto a seguito degli esposti presentati da alcuni detenuti che lamentavano di aver subito “percosse e condotte violente e lesive della propria dignità da parte del personale della Polizia penitenziaria allorquando essi si trovavano in una condizione di inoffensività (nelle fasi immediatamente successive alla rivolta ma antecedenti rispetto al proprio trasferimento verso altro istituto carcerario)” (ordinanza della Giudice delle Indagini Preliminari di Modena del 9.8.2024). Le violenze si sarebbero verificate in luoghi privi di sistemi di videosorveglianza (la caserma agenti e uno spazio tra due porte carraie) o con sistemi di videosorveglianza non funzionanti al momento dei fatti (all’interno del campo sportivo).
Alla richiesta di archiviazione avanzata dal Pubblico Ministero (dopo numerose richieste di proroga delle indagini preliminari) si sono opposte persone offese e associazioni. Il 2 maggio 2024 la Gip del Tribunale di Modena ha disposto l’archiviazione per una ventina di agenti che non risultavano in servizio all’epoca dei fatti mentre ha rigettato la richiesta d’archiviazione nei confronti dei quasi cento agenti ancora coinvolti, disponendo nei loro confronti nuove indagini, al momento ancora in corso.
Reggio Emilia il 3 aprile 2023, quando il sistema di videosorveglianza del carcere ha registrato il violento pestaggio di un detenuto tunisino di 44 anni. Il video, particolarmente violento, è stato parzialmente diffuso sui media, suscitando immediatamente profondo allarme.
Il caso di Reggio Emilia riguarda fatti avvenuti il 3 aprile 2023, quando il sistema di videosorveglianza del carcere ha registrato il violento pestaggio di un detenuto tunisino di 44 anni. Il video, particolarmente violento, è stato parzialmente diffuso sui media, suscitando immediatamente profondo allarme. In particolare, durante le operazioni di accompagnamento della persona offesa dall’ufficio della Direttrice alla sezione “Spiraglio”, destinata all’isolamento, ad opera di dieci poliziotti, la vittima subiva una “azione concitata di gruppo finalizzata e terminata con il suo incappucciamento” con una federa. L’azione proseguiva: il detenuto riceveva vari colpi e pugni alla testa e al volto, sempre incappucciato; veniva buttato a terra con uno sgambetto e bloccato, un agente si inginocchiava sulla sua schiena, veniva denudato dalla cintola in giù; infine lo stesso veniva sollevato e trasportato presso la sezione dell’isolamento. Solo lì veniva tolta la federa dal volto del detenuto che, ulteriormente percosso al momento dell’ingresso in cella, veniva lasciato lì, ancora denudato.
Arrivato nella sezione dell’isolamento alle ore 12.20 a seguito di tali operazioni (“incappucciamento, bloccaggio, pestaggio, denudamento e trasporto di peso”, cfr. sent. Trib RE p. 19), il detenuto compiva atti di autolesionismo e il sangue, misto ad acqua, usciva copiosamente dalla cella verso il corridoio. Come risulta dalla ricostruzione, è stato accompagnato in infermeria solo alle ore 13.48.
Dalla denuncia sporta dalla persona offesa è nato un procedimento penale nei confronti dei dieci agenti di Polizia Penitenziaria, otto dei quali imputati per tortura e due per lesioni personali gravi, oltreché per falso in atto pubblico. All’esito del giudizio primo grado, svoltosi nelle forme del rito abbreviato, gli imputati sono stati condannati per il reato di abuso di autorità sui detenuti (così riqualificata la ben più grave fattispecie contestata di tortura aggravata), per il reato di percosse (così riqualificata la più grave contestazione delle lesioni personali) e per varie ipotesi di falso ideologico.
Appare utile, per provare a ricostruire la complessità del contesto, dare conto della fase generale che il sistema penitenziario sta attraversando negli ultimi anni e delle caratteristiche degli istituti chiamati in causa dagli episodi di violenza da cui sono scaturiti i processi sopra brevemente ricostruiti.
I tre istituti in cui sono avvenuti i fatti oggetto del presente approfondimento presentano caratteristiche che, pur con le dovute differenze, riscontriamo in diversi istituti penitenziari della Regione Emilia-Romagna, e in special modo in quelli emiliani: tra queste, ad esempio, il numero particolarmente elevato di presenze e un livello di complessità particolarmente significativo in termini di varietà di circuiti presenti, formali e informali.
All’epoca dei fatti analizzati, in tutti e tre gli istituti si registravano presenze superiori alla capienza regolamentare: nel 2017 a Ferrara le persone ristrette erano 365 su 252 posti; nel 2019 a Modena, solo qualche mese prima della rivolta del marzo 2020, le presenze erano 490 su una capienza di 370; a Reggio Emilia nel 2023 vi erano 368 persone su una capienza regolamentare di 292 posti. Numeri non particolarmente difformi da quelli attuali, il cui aumento peraltro è in linea con quello che si registra sull’intero territorio nazionale. Ad incidere sulla qualità del quotidiano penitenziario o sul livello di tensione che si può registrare all’interno degli istituti di pena non è però esclusivamente il tasso di sovraffollamento. In questo senso, in tema di complessità, pare utile evidenziare come, soprattutto il carcere di Reggio Emilia e quello di Ferrara si distinguano per avere al loro interno numerosi e differenti circuiti. Il primo, oltre alle sezioni reclusione e circondariale per detenuti uomini, ospita l’unica articolazione per la salute mentale della regione (dove sono ristrette numerose persone provenienti anche da altri territori con ricadute importanti in tema di territorialità della pena), l’unica sezione per detenute transgender e una delle cinque sezioni femminili presenti in Emilia-Romagna, a sua volta suddivisa in una sezione per detenute cosiddette “comuni” e una sezione per congiunte di collaboratori di giustizia. All’interno del carcere di Ferrara, oltre alle sezioni di media sicurezza per detenuti “comuni”, ve ne sono una dedicata a detenuti cosiddetti “protetti”, una a familiari di collaboratori di giustizia (sezione “Z”), una a collaboratori di giustizia (sezione “C”); infine, è presente una sezione di alta sicurezza (più specificamente di AS2). Più di recente è stata inoltre individuata una sezione la cui composizione appare piuttosto eterogenea e destinata ai “nuovi giunti”, a detenuti in isolamento disciplinare, a detenuti in regime di sorveglianza speciale ex art. 14 bis O.P. e, più in generale, a persone per le quali appare più difficoltoso trovare una sistemazione alternativa.
Diverso il caso del carcere di Modena che, pur ospitando esclusivamente sezioni di media sicurezza, ha previsto, già nel 2020 e fino a tempi recenti, una suddivisione dei detenuti secondo criteri strettamente legati ad un giudizio di meritevolezza. In questo senso, questo istituto sembra aver anticipato quanto previsto dalla circolare n. 3693/6143 emanata dal DAP nel luglio 2022, finalizzata a riorganizzare i circuiti di media sicurezza con l’individuazione di sezioni a “trattamento intensificato” (ove è prevista maggiore libertà di movimento e maggiore accesso alle possibilità di reinserimento), sezioni a “trattamento ordinario” (ove vige un regime sostanzialmente chiuso, senza la possibilità di muoversi in autonomia nemmeno all’interno della sezione) e sezioni ex art. 32 d.P.R. 230 del 2000, già riservate ai detenuti il cui comportamento richiede elevati standard di sorveglianza e sicurezza ed incluse dalla circolare tra le leve di governo della media sicurezza.
Secondo le disposizioni della circolare, la diversa allocazione dipende sostanzialmente dal grado di adesione al trattamento e comporta una maggiore o minore libertà di movimento.
Sebbene l’implementazione della circolare, anche sul piano regionale, non sia apparsa uniforme, è evidente la portata quantomeno simbolica. La suddivisione della popolazione detenuta a seconda del diverso grado di aderenza al trattamento sembra rimandare all’idea di “premio e punizione”, più fortemente legata a un tema di governo della popolazione detenuta e, quindi, di sicurezza. 1
L’emanazione della circolare ha inciso sulla rimodulazione della “sorveglianza dinamica”, formalmente abbandonata nelle sezioni a trattamento ordinario.
Tale regime, “a celle aperte”, risultava adottato all’epoca dei fatti oggetto del presente contributo in tutti e tre gli istituti, anche se erano diverse le opinioni del personale in merito al suo effetto in termini di gestione e opportunità. A titolo esemplificativo, gli operatori incontrati dall’Osservatorio a Ferrara si dicevano soddisfatti della sua implementazione nonostante sottolineassero che “per far stare i detenuti fuori dalle celle qualcosa gli devi offrire”; tutt’altra valutazione ne veniva restituita a Modena dove nel 2019 veniva descritto come un modello difficile da attuare a fronte della carenza di personale e di attività (qui la sorveglianza dinamica è stata sospesa a seguito della rivolta del marzo 2020).
In alcuni casi, sia all’epoca delle vicende occorse che negli anni più recenti, le visite hanno permesso di osservare anche una suddivisione legata ad un criterio di provenienza geografica utile, secondo alcuni operatori, a scongiurare il verificarsi di eventuali eventi critici e a garantire una maggiore facilità di governo della popolazione detenuta. 2
Al di là della più recente circolare, infatti, è indubbio che le esigenze di governo della popolazione detenuta abbiano da sempre influenzato le scelte dell’amministrazione in ordine a quantità e tipologia di circuiti più “informali”. Inoltre, la generale scarsità di risorse sembra portare spesso l’istituzione ad investire maggiormente su quella parte di popolazione detenuta più “mite” e “governabile”, con la conseguenza di concentrare i detenuti più “problematici” e “inaffidabili” all’interno di sezioni che spesso si presentano caratterizzate da maggiore abbandono e degrado ma la cui previsione risulta in certa misura utile a mantenere l’ordine interno, anche rispetto ad un tema di distribuzione di risorse. 3
Ulteriore aspetto significativo è poi quello relativo alla qualità degli spazi: non è un caso che nelle sezioni in cui scarseggiano le opportunità formative, culturali o lavorative si osservino anche delle condizioni strutturali maggiormente critiche.
Lo scrivevamo nel 2017 a proposito della sezione di alta sicurezza del carcere di Ferrara ove erano ristrette unicamente sei persone e che si presentava particolarmente angusta e buia, con l’unica possibilità di accedere alla palestra; ancora, a Modena nel 2019 registravamo delle pessime condizioni strutturali, più evidenti in alcune sezioni, come nel caso della seconda che descrivevamo come “punitiva”, sprovvista di spazi per le attività in comune, priva di acqua calda e riscaldamento; a Reggio Emilia nel 2023 si osservavano complessivamente delle pessime condizioni strutturali e anche nelle sezioni generalmente più curate (si pensi alla femminile o a quella per detenute transgender) si registrava l’assenza di offerta trattamentale e di spazi adeguati per lo svolgimento di attività in comune.
L’attività di monitoraggio consente altresì di rilevare come, talvolta, all’interno di spazi caratterizzati da degrado, sporcizia, scarsità di risorse, mancanza di personale 4, gli eventi critici possano verificarsi con più frequenza. Capita frequentemente che nel corso delle visite i diversi operatori rilevino una certa connessione tra il verificarsi di eventi critici e la presenza di popolazione detenuta caratterizzata da fragilità psichica, proveniente da contesti di marginalità o, ancora, di recente trasferita da altri istituti: a titolo esemplificativo, nel 2017 a Ferrara veniva riferito alle osservatrici di Antigone di alcuni atti di autolesionismo (in particolare “bocche cucite”) posti in essere a titolo di protesta da alcuni detenuti particolarmente “problematici”; a Modena gli atti di autolesionismo ci venivano descritti come all’ordine del giorno e nel corso della visita del 2024 il personale riferiva come l’alto numero di eventi critici fosse conseguenza di sovraffollamento e di percentuali elevate di detenuti trasferiti per motivi disciplinari; a Reggio Emilia sull’elevato numero di eventi critici risultava pesare la presenza dell’articolazione per la salute mentale e, in misura diversa, la sezione per detenute transgender.
In linea generale, anche con riferimento al contesto regionale, possiamo affermare che negli istituti di più piccole dimensioni, a vocazione più fortemente “trattamentale” e con una più significativa presenza di personale il numero e la gravità degli eventi critici sia minore (in Emilia-Romagna sono soprattutto gli istituti romagnoli ad avere queste caratteristiche).
Si tratta di pochi spunti che però paiono significativi per comprendere come il livello di circuitazione, la quantità di attività proposte, la qualità degli spazi, la tipologia e frequenza di eventi critici, il modo in cui questi vengono trattati (si pensi all’utilizzo dell’isolamento disciplinare di cui si dirà nel prosieguo) siano tutti elementi che forniscono una indicazione importante in merito al clima che si respira all’interno di un istituto ed alla modalità con cui viene gestita la conflittualità.
I casi di Ferrara e Reggio Emilia presentano profili che le accomunano: nei due istituti, infatti, le violenze sono state commesse da un gruppo di agenti (3 a Ferrara, 10 a Reggio Emilia) nei confronti di un singolo detenuto che, in entrambi i casi, aveva una storia detentiva “difficile” (frequenti trasferimenti, diverse sanzioni disciplinari alle spalle) e che si trovava, al momento dei fatti, sottoposto al regime dell’isolamento. Differenti sono stati gli esiti processuali: nel caso di Ferrara l’autorità giudiziaria ha qualificato i fatti come tortura e lesioni aggravate; nel caso di Reggio Emilia, invece, la Giudice dell’udienza preliminare ha ritenuto integrati solo l’abuso di autorità e le percosse. La riqualificazione è avvenuta sulla scorta di diverse ragioni: in primo luogo, con riferimento alle condotte degli agenti, il fatto che il detenuto fosse sottoposto alla sanzione disciplinare dell’isolamento e che la perquisizione personale sia stata considerata legittimamente eseguita non consentirebbe di ritenere le violenze gravi poiché non si tratterebbe di “atti di violenza gratuita” (cfr. sent. Trib. RE, p. 45); similmente, la nudità del detenuto e il ricorso all’uso della federa per incappucciarlo, pur riconosciute come condizioni degradanti, non risulterebbero un elemento “eccentrico, non funzionale, slegato dall’attività di servizio” (sent. Trib RE p. 45). In secondo luogo, sul piano dell’evento del reato, secondo il Tribunale, non sarebbero stati provati né le acute sofferenze fisiche (“l’eventuale difficoltà respiratoria della persona offesa è stata pressoché nulla o comunque assai limitata in quanto il mezzo impiegato è assolutamente traspirante e che in tutte le fasi concitate del bloccaggio è constatabile l’energia impiegata nel divincolarsi e nell’opporsi al contenimento (energia che presupponeva necessariamente una buonissima respirazione”, p. 46), né un verificabile trauma psichico, “anche solo in ragione del comportamento oppositivo che egli ha tenuto durante l’intera operazione.” (sent. Trib RE p. 47).
Il caso di Modena presenta invece, a monte, caratteristiche diverse, perché le violenze esercitate sui detenuti si collocano, come detto, nell’ambito delle proteste nate in seguito al diffondersi del Covid-19 in Italia. Le misure prese dall’amministrazione penitenziaria in quel contesto, consistite inizialmente nell’interruzione di ogni rapporto con l’esterno, a partire dalla sospensione dei colloqui con i familiari e delle attività trattamentali e lavorative, hanno determinato un brusco peggioramento delle condizioni di detenzione per tutto il mondo penitenziario, già fortemente compromesse. In questo senso, l’emergenza sanitaria ha rappresentato la scintilla rispetto a una preesistente situazione di degrado, carenza di presidi e personale sanitario e sovraffollamento cronico (Pascali, Sarti e Sterchele, 2020). Le rivolte hanno coinvolto complessivamente 49 istituti sul territorio nazionale (tra cui, sul territorio regionale, anche quelli di Ferrara e di Bologna), con 14 morti tra le persone detenute, ed hanno rappresentato un inedito picco di conflittualità nel contesto penitenziario. 5
Nonostante le peculiarità dei tre casi presentati, si osservano in tutte le vicende alcuni tratti paradigmatici dell’esercizio del potere e della conflittualità nell’istituzione totale.
L’utilizzo delle sezioni di isolamento quale luogo per il compimento di azioni di violenza da parte degli agenti di polizia penitenziaria. Modalità di gestione dei casi “difficili”.
Tra questi, l’utilizzo delle sezioni di isolamento quale luogo per il compimento di azioni di violenza da parte degli agenti di polizia penitenziaria, fenomeno che si riscontra sistematicamente nei processi per tortura (Filippi, 2024). Ciò si accompagna al sempre più frequente ricorso al collocamento in isolamento non solo in esecuzione della misura disciplinare dell’“esclusione dalle attività in comune” ma anche al di fuori dei canoni legali 6 (Scandurra, 2024), come modalità di gestione dei casi “difficili”: in un’istituzione che segrega per definizione, una pratica di esclusione diventa così, ancora prima che strumento disciplinare, una prassi organizzativa (Miravalle, 2024).
Peraltro, se, come indicato nelle International Guiding Statement on alternatives to solitary confinement, 7 il ricorso all’isolamento penitenziario andrebbe proibito per soggetti vulnerabili in ragione della loro sofferenza psichica, nella realtà sono proprio questi ultimi a subirlo in misura maggiore (Zuffa, 2024).
Si determina ed alimenta, così, un circolo vizioso per cui la storia detentiva “problematica”, invece che catalizzare una particolare attenzione trattamentale, diventa una corsia preferenziale per il collocamento negli spazi destinati all’isolamento che, come detto, rappresentano luoghi privilegiati per la commissione di maltrattamenti e di violenza; gli eventuali abusi, per di più, sono destinati ad emergere con maggiore difficoltà non solo per il luogo – isolato – in cui avvengono, ma anche per il profilo di chi li subisce, generalmente gravato da una presunzione negativa di credibilità proprio a causa della sua storia detentiva.
Esemplificativa in questo senso è la vicenda di Reggio Emilia: la persona offesa aveva più volte ricevuto sanzioni disciplinari e ordini di trasferimento ed era considerata a rischio di commettere atti etero e autolesivi. Tali elementi sono stati più volte richiamati nella sentenza di primo grado, tanto che un intero paragrafo della motivazione è dedicato alla “personalità della persona offesa come soggetto detenuto”; è inoltre anche in forza di queste caratteristiche che il Tribunale ha validato alcuni argomenti alla base della riqualificazione del reato di tortura nell’ipotesi meno grave dell’abuso di autorità e ha formulato un giudizio di inattendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, fino a paventare la strumentalità del suo comportamento e – pare intendersi – della sua denuncia.
Anche nella vicenda ferrarese, il detenuto vittima delle violenze (che, come visto, in questo caso sono state qualificate come tortura fino all’ultimo grado di giudizio) era considerato “problematico”: al momento dei fatti si trovava in isolamento – peraltro in una cella liscia 8 – perché coinvolto in un diverbio con il compagno di cella, autore di condotte violente nei confronti di agenti di polizia penitenziaria, nonché portatore di un alto rischio suicidario e di comportamenti autolesionisti.
Sia i comportamenti aggressivi e oppositivi sia gli atti autolesivi sono ricompresi tra gli “eventi critici” e, come visto, il tema del loro contenimento attraversa, in forme diverse, i tre casi giudiziari. Con tale etichetta, “eventi critici”, vengono classificate azioni e modalità comportamentali anche molto diversificate 9 ma comunque rappresentative di un momento di rottura per l’amministrazione penitenziaria che le deve “gestire” e, spesso, anche di un particolare livello di vulnerabilità di chi le agisce, magari ripetutamente. Tale vulnerabilità può derivare da fragilità psichiche, storie di tossicodipendenza, doppie diagnosi (il caso, invero frequente, in cui alla tossicodipendenza si associano patologie psichiatriche), marginalità e assenza di reti di supporto (sociali e familiari). 10
Si tratta di un profilo che in carcere è sovrarappresentato rispetto al mondo libero: vuoi perché a monte vale un meccanismo di selezione di persone che per ragioni economiche e sociali sono già esposte a maggiori rischi in termini di salute psichica e “tenuta” sociale e hanno, anche in stato di libertà, un minore accesso alle cure e ai servizi territoriali; vuoi perché la privazione della libertà personale è una condizione costrittiva che per sua stessa natura determina una vasta gamma di disturbi fisici e psichici 11
. La nostra realtà detentiva, per di più, con le caratteristiche di scadimento strutturale, sovraffollamento e abbandono sopra richiamate – condizioni per loro natura patogene – comporta un deciso aumento dei fattori di rischio.
Colpisce allora la sentenza di Reggio Emilia che pur riconoscendo elementi di tale vulnerabilità nella storia del detenuto vittima di violenza, li ha valorizzati per escludere che i fatti potessero aver determinato in lui un “trauma psichico verificabile”: “il disagio psichico generale della persona offesa – soggetto in condizione critica per prolungato uso di sostanze – non ha conosciuto segni di peggioramento in ragione di tali eventi” (sent. Trib. RE p. 46).
D’altra parte, il carcere “produce sofferenza perché strutturalmente predisposto a farlo” (Pavarini, 2013) e non deve stupire, quindi, che sia abitato da persone che esprimono quella sofferenza con modalità che riflettono specularmente la violenza strutturale propria dell’istituzione che li reclude 12.
Come rilevano Sbraccia, Verdolini e Ronco (2020), “la violenza è un portato diretto della coercizione e rimanda alla irriducibile dimensione afflittiva della sanzione penale detentiva”: in questo senso non può essere letta solo come un’espressione di disordine o devianza individuale, ma deve essere compresa come parte integrante e sistemica del funzionamento stesso dell’istituzione penitenziaria. Essa si manifesta tanto in forme esplicite e regolate quanto in modalità più sottili e informali, regolatrici dei rapporti tra tutti i soggetti che abitano il carcere, personale e detenuti. In questo contesto, la violenza assume anche una funzione ritorsiva: può essere impiegata come strumento di controllo e contenimento del conflitto, attraverso pratiche sanzionatorie extralegali che segnano i limiti della tollerabilità istituzionale. 13
Con riferimento al caso di Modena (e, come visto, di molti penitenziari italiani), va rilevato come le rivolte carcerarie si collocano in questa cornice come forme estreme ma non irrazionali di resistenza alla compressione sistematica dei diritti e alla mancanza di alternative espressive per chi è privato della libertà. L’insofferenza verso condizioni di sovraffollamento, degrado, isolamento e assenza di prospettive, può sfociare in atti collettivi che esprimono, nella loro drammaticità, una richiesta di riconoscimento. La risposta istituzionale alle rivolte è spesso segnata da una recrudescenza del ricorso alla forza che può degenerare in abusi e torture, come nel caso dei fatti occorsi nel carcere di Modena o nel caso della “mattanza” (espressione quest’ultima contenuta nell’ordinanza che disponeva misure cautelari) avvenuta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. 14
D’altra parte, anche fatti come quelli accaduti a Reggio Emilia e Ferrara, al netto della loro qualificazione giuridica, sono il frutto del medesimo intreccio tra violenza istituzionale, risposta punitiva e negazione del conflitto come fatto politico, e mettono in luce la profonda ambivalenza del sistema penitenziario: luogo in cui la legalità formale coesiste con prassi quotidiane extralegali, tollerate o coperte in nome dell’ordine pubblico e della sicurezza.
I procedimenti penali volti ad accertare la responsabilità per il delitto di tortura nel contesto penitenziario offrono interessanti elementi con cui leggere il crescente clima di tensione che si registra nei penitenziari italiani.
Al di là dell’accertamento delle responsabilità individuali e della – più o meno condivisibile – qualificazione giuridica delle condotte dei pubblici ufficiali, l’introduzione del delitto di tortura nel nostro ordinamento ha comportato l’obiettiva emersione dei fenomeni di violenza penitenziaria attraverso una nuova e più penetrante lente prospettica. Gli elementi costitutivi del reato richiedono, infatti, un accertamento che non si esaurisce nella verifica della legittimità o meno del ricorso all’uso della forza, ma richiede la verifica, ai fini dell’integrazione della fattispecie, anche della sussistenza di ulteriori elementi, quali il ricorso a minacce gravi, alla crudeltà, la verificazione di traumi psichici patiti dalle vittime e a trattamenti riconosciuti come inumani e degradanti per la dignità della persona.
La complessità della qualificazione delle condotte si riflette inevitabilmente nella complessità delle indagini e del successivo accertamento processuale, che si sofferma, oltre che sulla materialità della condotta, sulla modalità in cui si è manifestata l’azione violenta (comprese le sue componenti simboliche) e sulle dinamiche relazionali tra autore e vittima di reato.
Benché tale complessità sia indagata rispetto ai singoli casi oggetto di giudizio accade che tramite il processo emergano elementi sistemici e prasseologici riferiti alla vita dell’istituto penitenziario in cui si collocano: l’uso (o l’abuso) dell’isolamento, la gestione del disagio mentale, i protocolli interni per gestire le situazioni di crisi nell’ambito della circuitazione penitenziaria. Tutti elementi che possono essere messi proficuamente in relazione all’osservazione negli istituti penitenziari.
Dal punto di vista della lettura della fase del penitenziario, i video e le immagini diffuse a partire dai processi così come le testimonianze delle vittime e dei colleghi degli imputati, nonché le pagine delle sentenze sono ora a disposizione per una disincantata riflessione sulla penalità e sulla funzione svolta dal trattamento penitenziario.
Nel territorio dell’Emilia-Romagna sono tre i filoni processuali osservati, uno dei quali – quello modenese – si colloca, come visto, nel contesto della rivolta del 2020 e riguarda numerosi detenuti; mentre gli altri due episodi – quello ferrarese e reggiano – riguardano detenuti considerati di difficile gestione disciplinare, che hanno manifestato comportamenti ostruzionistici rispetto all’istituzione penitenziaria.
Anche a partire da questi episodi, deve essere letto il possibile impatto che avrà sulla relazione tra autorità e detenuto il c.d. Decreto sicurezza (decreto-legge n. 48/2025) di recente approvazione e non ancora convertito nel momento in cui si scrive. Tale intervento normativo, nella sua parte penale, ha immediatamente suscitato le critiche dei commentatori che, con accenti diversi, ne hanno messo in luce la natura autoritaria e illiberale (Algostino 2025, Cornelli 2024, Gatta 2024, Pellissero 2024, Palazzo 2025, Zirulia 2025).
L’art. 26 del decreto ha inserito nell’art. 415 c.p. l’aggravante speciale, a effetto comune, dell’istigazione a disobbedire alle leggi compiuta all’interno di un penitenziario e il delitto di “Rivolta all’interno di un istituto penitenziario” (art. 415-bis c.p.). Le due disposizioni sono state al contempo inserite nell’art. 4-bis, comma 1-ter ord. pen., il quale prevede la concedibilità dei benefici penitenziari solo quando non sussistono elementi tali da far ritenere la presenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva.
L’ipotesi base di rivolta penitenziaria incrimina la partecipazione ad una rivolta mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza. Si tratta di una formulazione particolarmente vaga nella quale non è precisato che l’ordine impartito dall’autorità può essere soltanto quello “legittimo” (come una interpretazione costituzionalmente orientata del resto imporrà comunque, ma con una prevedibile maggiore difficoltà di accertamento che graverà di fatto sul detenuto). Soprattutto l’elemento maggiormente allarmante risiede nella previsione di una norma definitoria della resistenza finalizzata ad includervi “anche le condotte di resistenza passiva”, così estendendo l’ambito di applicazione del delitto anche alle forme pacifiche di protesta.
Oltre ad interrogarsi sulla legittimità costituzionale di tale disposizione, ciò che rileva ai fini del nostro ragionamento è come queste nuove disposizioni possano incidere sul clima di tensione crescente, sugli abusi delle forze di polizia e, più in generale, sui rapporti di forza che caratterizzano il governo del penitenziario.
D’ora in avanti, tenuto conto del numero delle persone coinvolte e del contesto in cui stavano operando gli agenti penitenziari, la protesta pacifica dei detenuti che impedirà il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza del carcere sarà punibile severamente (sia in termini di sanzione penale che in termini di accesso ai benefici penitenziari) oltre, naturalmente, a determinare sanzioni disciplinari.
Viene da chiedersi cosa porterà la scelta di criminalizzare talune forme di protesta collettiva in un sistema già duramente messo in tensione, sovraffollato e caratterizzato da mancanze strutturali, e già attraversato da ripetuta violenza sui detenuti.
Ciò che è certo è che la difficile gestione dell’ordine pubblico nelle carceri e, in particolare, dei detenuti “meno docili”, o più semplicemente di quelli che hanno meno mezzi e risorse per affrontare la vita nel penitenziario, passerà per una negoziazione che terrà conto di questa nuova (e sproporzionata) previsione, la quale altererà i rapporti di forza del penitenziario, con dinamiche fin d’ora tristemente prevedibili.
In questo senso è manifesta la finalità di deterrenza rispetto a qualsivoglia forma di protesta posta in essere dalle persone detenute. Un intervento che suona quindi come forma di ricatto contrastante con qualunque ideale di risocializzazione e di promozione della dignità umana (Zirulia 2025), che avrà ricadute sull’intera comunità penitenziaria.
Allo stesso tempo, viene da chiedersi se tale previsione potrebbe avere un impatto sull’accertamento della responsabilità penale degli agenti penitenziari per i loro interventi coercitivi volti a placare detenuti ritenuti rivoltosi (o forse semplicemente dei detenuti più agitati). Sotto questo punto di vista deve essere sgombrato il campo da possibili equivoci, forieri di arretramento culturale ancor prima che di conseguenze processuali: il delitto di rivolta penitenziaria non costituisce un nuovo presupposto per l’operatività della scriminante dell’uso legittimo della forza e delle armi contenuta all’art. 53 c.p.. L’uso della forza per vincere resistenze (anche) passive dei detenuti resterà legittimo, infatti, secondo quando già previsto dall’ordinamento penitenziario, che all’art. 41 consente il ricorso alla forza fisica nei confronti dei detenuti quando quest’ultima è indispensabile a prevenire o impedire atti di violenza, impedire tentativi di evasione o per vincere la resistenza, anche passiva, all’esecuzione degli ordini impartiti. Da questo punto di vista dovrà comunque continuare a trovare accoglimento una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 41 ord. pen. rispetto al canone di proporzionalità (Cancellaro 2020).
Particolarmente problematico il ricorso al termine “rivolta”, del quale non esiste definizione nel codice penale. Alla luce dei fatti occorsi nel 2020 a Modena, così come quelli accaduti in altri istituti di pena sul territorio nazionale, appare ancora più significativo (e urgente) ricostruirne il contenuto, in primo luogo per delimitare l’area del penalmente rilevante rispetto alla nuova fattispecie; in secondo luogo, per evitare pericolose letture degli eventi critici o dei conflitti all’interno delle carceri che costituiscono in ipotesi la premessa per la risposta coercitiva dell’autorità penitenziaria.
Alla luce delle osservazioni svolte rispetto a tre filoni processuali, abbiamo evidenziato taluni tratti caratterizzanti la violenza che strutturalmente connota il penitenziario. Si tratta di episodi che, al di là della qualificazione giuridica risultante dai processi, esprimono dinamiche comuni. Sul piano legale, invece, è indubbio il salto di qualità rappresentato dall’introduzione del reato di tortura, che ha consentito una più pregnante emersione di fenomeni di police brutality nella loro effettiva gravità e complessità. Si tratta di delitto certamente imperfetto nella sua formulazione ma che ha portato indubbiamente a un diverso e più pregnante accertamento giudiziale, offrendo all’osservatore ulteriori riscontri sulle dinamiche penitenziarie. La sensibilità e la consapevolezza rispetto al fenomeno degli abusi poliziali pare crescente al punto che preoccupano quei mutamenti legislativi capaci – seppur indirettamente – di attuare forme di contro-repressione della popolazione detenuta, così riducendone la capacità di esprimere – anche pacificamente – il proprio dissenso rispetto all’istituzione carceraria.