di Valeria Verdolini
Tortura viene dal latino torquēre: torcere, piegare con forza. Non solo i corpi, ma anche le parole, i volti, i legami. Fin dal medioevo, il termine evoca un intreccio tra sofferenza e verità, punizione e conoscenza: si torce per estorcere. Sevizia, parola già aspra nel suono, deriva da saevus: feroce, crudele, impetuoso. È la violenza che non si limita alla necessità, ma si fa gratuita, compiaciuta, dominatrice. Vessazione, da vexare, significa scuotere, agitare, turbare: è il potere che insiste, che logora, che usa il tempo per far male. Umiliazione, invece, non lacera ma comprime. Deriva da humus: riportare a terra, abbassare, schiacciare verso il suolo – e simbolicamente verso lo Stato, il territorio, l’autorità. È una violenza silenziosa, che ristabilisce le gerarchie senza colpire, ma facendo sentire il peso del proprio posto. Abuso affonda le radici nel latino abusus, da ab-ūti: usare male, in modo scorretto, oltre il limite. Già nel latino classico indicava uno sfruttamento, un uso distorto, spesso con una sfumatura morale negativa. In italiano ha mantenuto questo doppio senso: da un lato l’eccesso, il superamento di un confine; dall’altro, nel lessico giuridico e sociale, la violazione, la sopraffazione, la coercizione. Oggi, abuso continua a indicare ciò che devia dal giusto uso per trasformarsi in strumento di dominio, controllo o degradazione. È il nome della frattura che incrina un ordine legittimo – sociale, giuridico, simbolico o corporeo. Con il passaggio dal latino all’italiano, la parola “abuso” ha mantenuto questa duplice valenza. Da un lato indica un eccesso, un superamento del limite ritenuto accettabile, dall’altro lato, il termine si è via via specializzato nel linguaggio giuridico e sociale per designare atti di sopraffazione, violazione, coercizione o violenza. Nel suo uso contemporaneo, la parola conserva l’idea di una frattura rispetto a un ordine legittimo, a una norma, a un limite – che sia sociale, giuridico, simbolico o corporeo. “Abuso” è, in fondo, il nome che diamo a ciò che devia dal giusto uso per trasformarsi in strumento di dominio, controllo, appropriazione o degradazione.
Queste parole non sono solo lessico del supplizio. Sono strumenti ordinari di una politica del corpo e del suo disciplinamento, e sono alcune delle accuse emerse dai processi in corso in regione Lombardia (e non solo). In Italia, la Lombardia è l’epicentro di questa patologia istituzionale. Non solo è la regione con il maggior numero di carceri e di persone detenute, ma anche quella con la più alta presenza di cittadini stranieri, spesso colpiti da un doppio stigma: quello della condizione giuridica incerta e quello della razzializzazione implicita. È un territorio dove si concentrano insieme l’apparato repressivo e quello produttivo, secondo una logica biopolitica ed economica dell’abbandono: si espellono soggetti eccedenti dalle filiere del lavoro, ma li si reintegra nel circuito carcerario o amministrativo come corpi gestibili, contenibili, sorvegliabili. L’economia dell’abbandono, qui, non è solo l’assenza di cura. È presenza selettiva di potere: potere che disciplina, che punisce, che reprime in nome dell’efficienza, della sicurezza, del decoro. È il potere che non si ritira, ma si concentra proprio lì dove la vita sociale si fa più fragile. Il carcere, nella sua forma lombarda, non è un residuo: è un laboratorio. Di contenimento, di disuguaglianza, di violenza ordinaria. E, come ogni laboratorio, produce sapere, protocolli, tecniche – ma anche resistenze. La Lombardia risulta una delle regioni italiane con il più alto numero di procedimenti giudiziari per abusi commessi da agenti della polizia penitenziaria negli ultimi anni, l’unica peraltro ad avere un procedimento aperto per tortura anche nei confronti di minori.
Il 7 marzo 2022, la settima sezione penale del Tribunale di Milano ha condannato sette agenti della polizia penitenziaria per atti di violenza ai danni di Ismail Ltaief, cittadino tunisino detenuto tra il 2016 e il 2017. Le pene, comprese tra un anno e mezzo e quattro anni di reclusione, sono state inferiori ma vicine a quelle richieste dal PM Leonardo Lesti. Altri quattro agenti imputati sono stati assolti.
Le indagini hanno rivelato un intento ritorsivo nelle aggressioni, riconducibile a una denuncia sporta da Ltaief nel 2011 contro alcuni agenti del carcere di Velletri, accusati di furti nella mensa e percosse. Nonostante l’assoluzione degli imputati in quel procedimento, l’uomo, trasferito a San Vittore per un tentato omicidio, sarebbe stato punito per la denuncia pregressa e intimidito affinché non testimoniasse nel processo “bis” sui fatti di Velletri.
Il 6 agosto 2019, Antigone riceve la segnalazione di un’aggressione subita da un detenuto nella Casa circondariale di Monza. Calci e pugni sarebbero stati inflitti nel corridoio della sezione da più agenti. Il detenuto, per quell’episodio, finisce in isolamento e riceve un provvedimento disciplinare, poi impugnato. Antigone deposita un esposto il 25 settembre 2019 e un sollecito alla chiusura delle indagini preliminari l’anno successivo. La Procura presenta richiesta di archiviazione per il reato di tortura e di rifiuto di atti d’ufficio nei confronti del medico penitenziario, ma Antigone si oppone.
Il GIP archivia la parte relativa alla tortura nel marzo 2021. Il processo prosegue per cinque agenti, con capi d’imputazione che comprendono lesioni aggravate, falso, calunnia, violenza privata, abuso d’ufficio e omessa denuncia. Il 2 luglio 2021, tre agenti e un ispettore vengono rinviati a giudizio. Nel corso delle indagini, emerge un video del circuito interno che mostra gran parte dei fatti a processo.
Nel dibattimento, avviato il 16 novembre 2021, emergono contraddizioni evidenti: la direttrice dell’istituto riconosce come “incongrui” i colpi inflitti, non verbalizzati nei documenti ufficiali. L’articolo 41 dell’Ordinamento penitenziario – che legittima l’uso della forza in casi estremi – viene evocato ex post come giustificazione formale. Una zona d’ombra nei video di sorveglianza impedisce una piena verifica visiva dei fatti. La direttrice parla di “reazione scomposta”, ammettendo implicitamente la trasformazione del contenimento in abuso. Il processo è tuttora in corso, con udienze calendarizzate tutto l’anno.
Durante il lockdown di marzo 2020, Antigone raccoglie segnalazioni da familiari di detenuti della Casa circondariale di Pavia. Le denunce riguardano pestaggi, umiliazioni, privazioni alimentari e trasferimenti punitivi dopo una protesta scoppiata l’8 marzo per l’interruzione dei colloqui e l’assenza di misure sanitarie adeguate. Ai detenuti trasferiti non fu concesso di portare effetti personali né di contattare le famiglie.
Le indagini per violenze nei giorni successivi alla protesta coinvolgono nove agenti, ma si concludono con l’archiviazione per insufficienza di elementi probatori.
Diverso è l’esito per le persone detenute: 68 di loro vengono rinviate a giudizio per devastazione e saccheggio. La Procura ha rigettato ogni tentativo di derubricazione del reato. Il processo, celebrato in una sala esterna al tribunale per ragioni logistiche, è ancora in corso. Alcuni imputati sono stati condannati in abbreviato; altri assolti. Per la parte restante, il procedimento prosegue con conclusione prevista per dicembre 2025.
Nell’estate del 2024, la Procura di Milano apre un’indagine per maltrattamenti nella Casa circondariale di Opera, coordinata dalle PM Rosaria Stagnaro e Cecilia Vassena. L’inchiesta nasce da due denunce presentate dal Garante dei detenuti Francesco Maisto, poi seguite da altre segnalazioni.
In una lettera anonima, un detenuto parla di “violazione totale dei diritti umani”, raccontando pestaggi collettivi da parte di una ventina di agenti armati di manganelli e aste di ferro, e gravi omissioni nell’assistenza sanitaria. L’inchiesta è ancora in fase istruttoria.
Nel cuore dell’inchiesta più drammatica, il carcere minorile Beccaria si trasforma da simbolo di giustizia educativa a epicentro di violenze sistematiche. Le accuse a carico di 21 agenti riguardano torture, pestaggi, ferite genitali, isolamento punitivo, falsificazione di atti e uso strumentale degli psicofarmaci a danno di 8 ragazzi tutti minorenni al momento dei fatti.
Le tecniche impiegate – pavimenti insaponati per far cadere i ragazzi, vestiti imbottiti per attutire i colpi, pestaggi in zone cieche alle telecamere – parlano di una violenza quotidiana, non occasionale. Tra i casi più gravi, la violenza sessuale di gruppo subita da un minore nel 2022, con gravi lesioni e l’assenza totale di sorveglianza.
I soggetti più colpiti risultano i più vulnerabili: minori stranieri, LGBTQIA+, con disagio psichico o senza reti familiari. La fuga di sette ragazzi il 25 dicembre 2022, l’aumento esponenziale della popolazione minorile, l’abuso di psicofarmaci (cinque volte la spesa media di Bollate) compongono un quadro di crisi profonda.
Come ha dichiarato Girolamo Monaco, direttore dell’IPM di Treviso: “La violenza accade. Sempre. Quando le persone non vengono guardate.” E al Beccaria, a non essere guardati, sono proprio i ragazzi.
Dai casi analizzati emerge un quadro coerente, benché articolato, della violenza penitenziaria in Lombardia. Il filo rosso che attraversa San Vittore, Monza, Pavia, Opera e l’IPM Beccaria è l’uso della forza come strumento di controllo, spesso mascherato da necessità operativa o legittima difesa. In tutti i casi, se confermate le accuse, la documentazione ufficiale tende a occultare o minimizzare i fatti, aprendo zone grigie di impunità (molte delle accuse sono di falso ideologico e abuso d’ufficio, coinvolgono agenti ma anche indirettamente il resto del personale). Il ricorso sistemico a formule giuridiche (come l’art. 41 sull’uso della forza necessitata) appare spesso come un velo normativo che copre l’arbitrarietà.
Particolarmente rilevante è il ruolo delle “zone d’ombra”: angoli ciechi delle telecamere, omissioni nei verbali, vuoti nella catena di responsabilità. Negli atti processuali, questi spazi di invisibilità coincidono spesso con gli spazi della violenza. Le prassi sono legate a precise tecnologie del sapere, a un modus operandi che non è improvvisato o casuale, in cui la violazione è spesso endemica e non episodica e denunciata. Una violenza che assume di volta in volta diverse intensità: dall’episodio di abuso sul singolo detenuto (come a san Vittore e Monza) a casi più sistemici, come all’IPM Beccaria.
Tuttavia, ogni situazione mostra anche specificità. A San Vittore, la violenza è agita come vendetta istituzionale e intimidazione. A Monza, il processo ha messo a nudo la distanza tra discorso ufficiale e pratica concreta, con il carcere come teatro di rimozione e falsificazione, anche se i capi d’accusa sono soprattutto reati contro la persona e non legati strettamente al ruolo. A Pavia, la giustizia si mostra forse asimmetrica: archiviazione senza arrivare a dibattimento per gli agenti, maxi-processo per i detenuti. Opera rappresenta il caso più recente, ancora in fase embrionale, ma segnato da testimonianze allarmanti se venissero confermate. L’IPM Beccaria, infine, è lo scenario più devastante: non solo per la gravità dei reati, ma per la sistematicità e per il coinvolgimento di minori, i più fragili e invisibili tra gli invisibili.
I casi analizzati – San Vittore, Monza, Pavia, Opera e l’Istituto Penale Minorile Beccaria – compongono un quadro eterogeneo ma coerente delle forme di violenza istituzionale che attraversano il sistema penitenziario lombardo. Variano le intensità, ma aumentano le frequenze. Sebbene ogni vicenda presenti specificità legate al contesto, alle vittime e agli esiti giudiziari, emergono alcune linee comuni che meritano di essere ricostruite criticamente per restituire la profondità sistemica del fenomeno.
La violenza non è più diretta verso l’esterno, ma colpisce segmenti interni della popolazione – soggetti invisibili, marginalizzati, psichiatrizzati. La risposta diventa eccessiva, confusa, autodistruttiva. Lo Stato, anziché proteggere, attacca il proprio tessuto sociale in nome della sua salvaguardia.
Nella fisiologia sociale dello Stato moderno, le istituzioni di controllo – carcere, polizia, tribunali – agiscono come dispositivi immunitari, incaricati di difendere l’integrità del corpo collettivo da ciò che viene percepito come minaccia o disordine. In condizioni di equilibrio, questo sistema dovrebbe distinguere con precisione tra ciò che appartiene al “sé” e ciò che è estraneo, tra ciò che può essere integrato e ciò che richiede una risposta difensiva. È proprio su questa soglia che si innesca la patologia.
Come nelle malattie autoimmuni, quando il meccanismo di identificazione fallisce, il sistema aggredisce i propri elementi costitutivi. La violenza non è più diretta verso l’esterno, ma colpisce segmenti interni della popolazione – soggetti invisibili, marginalizzati, psichiatrizzati. La risposta diventa eccessiva, confusa, autodistruttiva. Lo Stato, anziché proteggere, attacca il proprio tessuto sociale in nome della sua salvaguardia. Nei penitenziari, nelle caserme, nei CPR, questa violenza non è un’anomalia ma il sintomo di una crisi sistemica del riconoscimento politico e simbolico.
Nei luoghi di reclusione, il soggetto privo di libertà perde i propri marcatori di cittadinanza e umanità. Il corpo detenuto – soprattutto se straniero, psichiatrizzato o povero – viene ridotto a corpo sospetto, da sorvegliare, contenere, talvolta annientare. L’apparato punitivo produce così una violenza sistemica, occultata dalla retorica della sicurezza o dalla mitologia della devianza irriducibile. I casi documentati di pestaggi e abusi non sono eccezioni, ma espressioni di una risposta autoimmune istituzionale che colpisce i propri cittadini come fossero corpi estranei.
L’analogia con le malattie autoimmuni svela l’ambivalenza del processo: il sistema attacca ciò che dovrebbe proteggere, aggravando la disfunzione invece di ripristinare l’ordine. Il danno è duplice: da un lato la lesione inferta ai soggetti colpiti – fisica, psichica, relazionale – dall’altro l’erosione della funzione regolativa dello Stato, che si rifugia in una logica paranoide di difesa.
Questa dinamica non si limita al carcere: si estende alle frontiere, ai servizi sociali, ai quartieri sotto sorveglianza. È una logica immunitaria diffusa, dove la “cura” non è assente ma pervertita: una cura che punisce in nome della sicurezza. Come in ogni reazione autoimmune, la protezione si traveste da difesa, consumando le risorse vitali del corpo che pretende di salvaguardare.
La lettura necropolitica di Achille Mbembe chiarisce questa logica: il potere decide chi può vivere e chi può essere lasciato morire. La gestione delle vite eccedenti – migranti, detenuti, psichiatrizzati, poveri – si fonda sull’abbandono più che sull’inclusione. Lo Stato produce corpi vivi ma privati di valore politico, esercitando un diritto implicito all’eliminazione. Non è solo brutalità: è una tecnologia del potere che usa la sicurezza per sospendere diritti e giustificare l’abbandono.
A rendere operativo questo sistema è una rete di dispositivi apparentemente neutri – leggi speciali, protocolli disciplinari, automatismi amministrativi – che costituiscono, come suggerisce Michael Taussig, il sistema nervoso dello Stato. Un sistema ipersensibile, che reagisce automaticamente a ogni segnale di alterità: la pelle, l’accento, la fragilità psichica. Lo Stato non ragiona più: reagisce.
Lo Stato moderno, “uomo artificiale” nato per proteggere gli individui dai lupi naturali, si trasforma spesso in predatore: un lupo artificiale capace di crudeltà e arbitrio peggiori di quelli che avrebbe dovuto contenere. Come un licantropo, il potere muta: talvolta in modo lucido e volontario, altre volte per cieca obbedienza a ordini superiori. Entrambi – il carnefice consapevole e l’esecutore passivo – sono prodotti dell’artificio statale, protetti dal suo involucro giuridico.
Eppure questa reattività non è né naturale né inevitabile. È qui che la figura dei “lupi artificiali” evocata da Luigi Ferrajoli acquista pregnanza simbolica. Lo Stato moderno, “uomo artificiale” nato per proteggere gli individui dai lupi naturali, si trasforma spesso in predatore: un lupo artificiale capace di crudeltà e arbitrio peggiori di quelli che avrebbe dovuto contenere. Come un licantropo, il potere muta: talvolta in modo lucido e volontario, altre volte per cieca obbedienza a ordini superiori. Entrambi – il carnefice consapevole e l’esecutore passivo – sono prodotti dell’artificio statale, protetti dal suo involucro giuridico.
Questa metamorfosi si manifesta in modo esemplare negli abusi in divisa: pestaggi, umiliazioni, silenziamenti. Non sono aberrazioni individuali, ma sintomi collettivi. La divisa diventa pelle immunitaria, rafforzata anche da recenti interventi legislativi, come il DL sicurezza: traccia il confine tra chi esercita la forza e chi la subisce, tra violenza legittima e arbitrio. Ma quando ogni distinzione si dissolve, resta solo l’abuso.
La lettura di Paul Farmer sulle “patologie del potere” riconduce queste violenze all’intreccio tra disuguaglianza strutturale e violenza normalizzata. La sofferenza più invisibile – legata a povertà, razzializzazione, reclusione – è inscritta nei corpi e prodotta da precisi assetti economico-politici. La violenza, in questa prospettiva, non è un incidente morale ma una modalità di governo: “violence is not accidental, but integral to the architecture of inequality.”
I casi di San Vittore, Monza, Pavia, Opera e Beccaria restituiscono, nel loro insieme, un’immagine inquietante del sistema penitenziario lombardo. Lontani dall’essere episodi isolati, rivelano una struttura che tollera – e talvolta protegge – l’abuso come strumento di gestione interna, soprattutto nei momenti di crisi o dissenso. Il rischio, se non si attivano meccanismi di responsabilità effettiva, è la normalizzazione della violenza come prassi istituzionale. In questa prospettiva, il compito della società civile, della giustizia e della ricerca è di restituire visibilità a ciò che viene sistematicamente occultato: i corpi colpiti, le parole rimosse, la verità ferita.
La malattia autoimmune del corpo-Stato è, infine, una malattia del riconoscimento: incapacità di vedere nell’altro un frammento di sé. Migranti, detenuti, devianti non sono più parte del corpo comune, ma residui da contenere, sedare, espellere. La guarigione – se possibile – non potrà consistere in una terapia d’urto, ma in un lento riapprendimento della tolleranza immunitaria: un lungo lavoro culturale delle istituzioni e una ricostruzione del legame politico attraverso il riconoscimento dei corpi feriti, silenziati, relegati ai margini del diritto.