di Maria Pia Scarciglia
L’onorevole ha attaccato ferocemente la Riduzione del danno a suo dire “ inutile e controproducente ” spingendosi a sostenere che ” La banalizzazione di droghe e sesso ha conseguenze importanti sulla natalità”.
L’Italia si è presentata alla 68°sessione dei Commissione stupefacenti delle Nazioni Unite (CND) con un discorso pronunciato dal Sottosegretario Mantovano dal sapore spiccatamente revanchista le cui argomentazioni sono apparse lontane dai nuovi scenari internazionali e dalle decisioni politiche di molti paesi che da qualche tempo ragionano su nuove forme di regolamentazione del consumo personale e di tutela della salute. L’onorevole ha attaccato ferocemente la Riduzione del danno a suo dire “ inutile e controproducente ” spingendosi a sostenere che ” La banalizzazione di droghe e sesso ha conseguenze importanti sulla natalità”. Le parole del Sottosegretario sono state immediatamente contestate dal mondo dell’associazionismo e degli operatori medici sanitari che hanno ricordato i buoni risultati delle politiche di RDD, di empowerment ispirate da Lea e gli interventi di Peer support realizzati dalle Asl. Crediamo importante partire proprio dalle parole dell’on. Mantovano per provare a ri-discutere di politiche sulle droghe in Italia, terreno da tempo di battaglie ideologiche che nulla hanno a che fare con le evidenze scientifiche e con le Raccomandazioni delle istituzioni internazionali, in particolare ONU e OMS.
Da oltre trent’anni la legislazione italiana in materia di sostanze stupefacenti ha attraversato diverse fasi, oscillando tra approcci più punitivi e tentativi di bilanciamento con politiche socio-sanitarie. La modifica del Testo Unico in materia di sostanze stupefacenti e psicotrope ha sempre esercitato un certo fascino sui vari governi che si sono succeduti, particolarmente per quelli del centro destra, alfieri indiscussi della war on drugs. In effetti, dopo un periodo in cui il dibattito è stato meno ideologico, si è provato a ragionare sulle modifiche al Testo Unico cercando di rovesciare il paradigma panpenalistico aprendo a fattispecie più tenui con la lieve entità del fatto, forme nuove di regolamentazione della detenzione fino alla cannabis terapeutica e a quella light.
Oggi, la normativa sulla droga D.P.R. 309/90 continua ad avere un impatto drammatico sui numeri del carcere. Sono circa il 34% i detenuti per violazione del Testo Unico sugli stupefacenti e il 40% di chi entra in carcere usa droghe.
Oggi, la normativa sulla droga D.P.R. 309/90 continua ad avere un impatto drammatico sui numeri del carcere. Sono circa il 34% i detenuti per violazione del Testo Unico sugli stupefacenti e il 40% di chi entra in carcere usa droghe. Il Governo qualche tempo fa aveva affermato che i detenuti che usano droghe non possono stare in carcere ma devono accedere alle Comunità terapeutiche. Peccato che la normativa preveda già l’accesso alle Comunità grazie ad alcune disposizioni che consentono ex art 90 e 94 D.P.R. 309/90 il collocamento in Comunità per la riabilitazione e la cura dei soggetti anzidetti. Tuttavia sul tema delle droghe questo governo non ha mai fatto mistero di avere una sua personalissima visione rappresentata nei maggiori consessi internazionali dall’on. Mantovano le cui deleghe consentono un controllo capillare del Dipartimento delle Politiche antidroga. È pur vero che nessun governo si è rivelato particolarmente all’altezza di affrontare e governare le sfide di un mercato sempre più performante e pervasivo nonostante i molti sforzi del Presidente Draghi e della Ministra Dadone il cui impegno aveva portato a organizzare l’ultima Conferenza governativa sulle dipendenze coinvolgendo il mondo dell’associazionismo e la comunità scientifica. Anche il Governo di centro destra prepara la VII Conferenza nazionale sulle dipendenze il prossimo novembre escludendo deliberatamente tutte le organizzazioni della società civile, gli esperti e le Persone che usano sostanze (PUD).
Con la pubblicazione in Gazzetta ufficiale dell’11 aprile 2025 la trilogia dei decreti del governo Meloni sembra compiuta visto l’iter di approvazione del D.D Legislativo Sicurezza convertito poi nel Decreto Legge n. 48 recante Disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario.
I primi due atti sono stati il Decreto Cutro, il cui nome ricorda la strage dei migranti morti in mare a poche miglia dalla spiaggia di Cutro, e il Decreto Caivano, quello che prende il nome del paesino campano teatro di violenze e di disperato disagio giovanile.
Il dibattito pubblico si è riacceso attorno a interventi normativi emergenziali – in particolare il decreto “Caivano” e quello “Sicurezza” – che hanno introdotto un inasprimento delle pene e nuove misure repressive. Nel frattempo sono state aggiornate le tabelle delle sostanze stupefacenti, includendo nuove droghe sintetiche e persino riclassificando farmaci come stupefacenti. Infine, la giurisprudenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha affrontato questioni cruciali: dal confine tra uso personale e spaccio, alla qualificazione dei casi di lieve entità, fino alle implicazioni legali delle nuove sostanze psicotrope.
Negli ultimi anni il Governo italiano ha adottato misure d’urgenza per fronteggiare fenomeni di criminalità giovanile e diffusione di droghe, culminate nel decreto-legge 15 settembre 2023 n. 123 (convertito nella l. 159/2023), ribattezzato decreto “Caivano” dal nome di una periferia teatro di gravi episodi di degrado e violenza minorile. Questo provvedimento, nato sull’onda emotiva di fatti di cronaca, ha introdotto misure straordinarie di contrasto al disagio giovanile e alla criminalità minorile, tra cui numerose novità in materia di stupefacenti. Un coacervo di norme eterogene tutte caratterizzate dal medesimo approccio repressivo che trovano il loro massimo splendore all’interno dell’art 3 del decreto Caivano, il cui comma 1 modifica fino a stravolgere il d.l. 20 febbraio 2017, n. 14, conv. con modif. in l. 18 aprile 2017, n. 48 conosciuto meglio come decreto Minniti, autore della figura del daspo urbano. Ebbene, si introducono misure per gli ultraquattordicenni che vanno dal divieto di frequentare locali pubblici o aperti al pubblico, al divieto di accesso a scuole, plessi scolastici, sedi universitarie, di cui all’art. 13 c. 1 nel caso di denuncia o condanna anche non definitiva, intervenuta nei tre anni precedenti, per uno qualsiasi dei delitti di cui all’art. 73 t.u. stup. e non più solo – come nel decreto Minniti, in relazione alle sole condotte di vendita o cessione di sostanze stupefacenti o psicotrope – bensì a tutte le condotte contenute nell’art 73 T.U. Stupefacenti, il divieto di accesso viene perciò esteso a tutti i luoghi contemplati dalla norma, in maniera indifferenziata. La violazione dell’art 3 comma 1 e 3 ( quest’ultimo prevede delle autentiche misure restrittive della libertà personale che vanno dalla presentazione presso gli uffici di polizia, obbligo di rientrare nella propria abitazione o altro luogo di privata dimora entro una determinata ora e di non uscirne prima di altra ora prefissata, divieto di allontanarsi dal comune di residenza, obbligo di comparire in un ufficio o comando di polizia specificamente indicato, negli orari di entrata ed uscita dagli istituti scolastici), nell’ipotesi di “specifiche ragioni di pericolosità”, concetto non meglio precisato ed ancora una volta non più oggetto di discrezionalità da parte del giudice.
Di talchè, viene limitata la discrezionalità del giudice in tema di sospensione condizionale della pena ex art 163 c.p. ( violando di fatto un altro pilastro della scienza penale che consente una valutazione del giudice sulla personalità dell’imputato o/e indagato ai sensi dell’art 133 c.p. ai fini della pena da applicare) se il fatto è commesso all’interno o nelle immediate vicinanze di locali pubblici o aperti al pubblico poiché la sospensione condizionale della pena viene subordinata al divieto di accedere in locali pubblici o pubblici esercizi specificamente individuati.
Il decreto Caivano ha inasprito le pene per il reato di spaccio di droga di lieve entità (art. 73 co. 5, DPR 309/1990).
Il decreto Caivano ha inasprito le pene per il reato di spaccio di droga di lieve entità (art. 73 co. 5, DPR 309/1990): la pena massima è stata elevata da 4 a 5 anni di reclusione oltre a quella pecuniaria. Questa modifica, apparentemente minima, ha conseguenze giuridiche importanti, perché portando il massimo edittale a 5 anni, si contempla automaticamente la custodia cautelare in carcere per i fatti di lieve entità, prima preclusa (dato che con pena massima a 4 anni non era consentito disporre misure custodiali in base all’art. 274 c.p.p., bensì alternative alla detenzione). Un’altra novità singolare è l’inserimento della circostanza del “non occasionale”: il legislatore ha aggiunto nel comma 5 dell’art. 73 un secondo periodo che prevede pene più elevate (reclusione da 1 anno e 6 mesi a 5 anni, multa da 2.500 a 10.329 euro) «quando la condotta assume caratteri di non occasionalità» . In sostanza, il fatto di lieve entità viene scisso ovvero sdoppiato in due sottocategorie: a) i fatti occasionali, puniti con la pena base (minimo sei mesi); b) i fatti non occasionali, puniti più severamente (minimo 18 mesi). Questa nuova figura può essere letta come una sorta di aggravante a effetto speciale inserita nel comma 5, benché ci sia dibattuto in dottrina se configuri un reato autonomo. La distinzione ruota attorno all’etereo concetto di “occasionalità”, non descritto in modo chiaro dalla legge. Sul punto è intervenuta di recente la Cassazione: con sentenza Sez. III, 13 febbraio 2025, n. 5842, si è chiarito che la “non occasionalità” ricorre quando l’agente, al momento del fatto, risulta già condannato almeno una volta per reati della stessa specie. In altre parole, la non occasionalità è stata interpretata come una forma attenuata di abitualità: richiede almeno un precedente specifico (mentre per l’abitualità in senso stretto la giurisprudenza richiede almeno due illeciti precedenti). Questo orientamento quindi lega la nuova aggravante alla recidiva specifica del soggetto che persiste in attività di spaccio, seppur di lieve entità, distinguendolo dallo spacciatore “occasionale”.
Un nuovo irrigidimento previsto dal Decreto Caivano è l’estensione dell’art. 240-bis c.p. (confisca per sproporzione) anche ai casi di condanna per il reato di lieve entità.
Il governo ha previsto anche la confisca allargata: un nuovo irrigidimento previsto dal Decreto Caivano è l’estensione dell’art. 240-bis c.p. (confisca per sproporzione) anche ai casi di condanna per il reato di lieve entità. In precedenza, la confisca allargata – strumento che consente allo Stato di confiscare i beni di provenienza sospetta e sproporzionati al reddito del condannato – non era applicabile alle condotte di piccolo spaccio (considerate di minor allarme sociale). Ora, invece, anche chi è condannato per art. 73 co.5, DPR 309/1990, se la condotta non è occasionale (bastano due episodi), potrà subire la confisca dei beni di valore ingiustificato. Si tratta di un segnale della volontà di incidere sul profitto economico anche del micro-traffico di droga utile per il piccolo spacciatore al suo consumo personale. L’intento dichiarato è stato quello di dissuadere i minorenni e i giovani dal dedicarsi allo spaccio, rendendo più concreta la minaccia della carcerazione immediata senza sconto alcuno. Dal punto di vista del principio di proporzionalità, però, questa scelta desta perplessità: si colpisce più duramente un’area di microcriminalità (spesso legata a situazioni di disagio sociale o tossicodipendenza), rischiando di equipararla a reati ben più gravi relativi al grande traffico delle organizzazioni criminali.
Il decreto Caivano ha introdotto anche strumenti mirati a neutralizzare il contesto minorile: ha esteso ai minori sopra i 14 anni misure tipicamente pensate per adulti, come il DASPO urbano (divieto di accesso a determinate aree urbane) per chi sia sorpreso a spacciare o detenere droga ai fini di spaccio nei pressi di scuole, università e locali pubblici. Inoltre, è stato previsto l’arresto obbligatorio in flagranza per i minorenni colti nello spaccio (mentre prima era spesso discrezionale), e introdotto un ammonimento del Questore specifico per i giovani a rischio devianza, sul modello di quanto fatto per le cosiddette “baby gang”. L’insieme di questi interventi configura una decisa svolta repressiva verso i minorenni coinvolti in piccoli reati di droga, ciò in aperto contrasto con i principi e valori del sistema di giustizia minorile italiano.
Le ricadute pratiche di tali misure sono già tangibili poiché, stando alla Relazione annuale al Parlamento, nel 2023 si è registrato un sensibile aumento dei minorenni entrati nel circuito penale per reati di droga, dato che l’associazione Antigone mette in diretta correlazione con gli effetti del decreto Caivano. Nello specifico, i giovani detenuti negli Istituti Penali per i Minorenni (IPM) hanno toccato già ad inizio 2024 quota 500, un numero record nell’ultimo decennio. Il 15% degli ingressi in carcere minorile nel 2023 riguarda reati di stupefacenti (167 casi, contro una media del 13% negli anni precedenti). Addirittura, gli ingressi cautelari (detenzione preventiva) di minori sono balzati da 243 (gennaio 2023) a 340 ( 2024), indicando che la maggiore possibilità di custodia cautelare è effettivamente utilizzata dai Tribunali per i Minorenni. Da qualche tempo Antigone parla di “impennata” dei detenuti minori e di effetti “distruttivi” sul sistema della giustizia minorile, tradizionalmente improntato alla tutela educativa. Si osserva anche un aumento del 37% in un solo anno degli ingressi in IPM per violazioni della legge droga, portando le carceri minorili a essere sovraffolate come quelle degli adulti.
Questi dati hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale e di politica criminale. Il modello italiano di giustizia minorile, fissato dal D.P.R. 448/1988, era costruito sulla residualità del carcere e sulla centralità di strumenti rieducativi come la messa alla prova e le misure di comunità. Il decreto Caivano rischia di “stravolgere l’impianto” di quel modello, equiparando in parte il trattamento del minorenne a quello dell’adulto (ad esempio con le misure cautelari del comma V ex art. 73 D.P.R. 309/90).
A tale proposito, va rimarcato che l’innalzamento della pena massima a 5 anni per lo spaccio lieve ha ristretto l’ambito di applicazione della messa alla prova per i minori imputati: quest’istituto, previsto come alternativa al processo per reati con pena edittale non superiore a 4 anni, non è più invocabile per il piccolo spaccio (venendo così meno uno strumento ritenuto efficacissimo per il recupero dei giovani). Analogamente, la pena più elevata preclude, di fatto, l’accesso ad alcune misure alternative al carcere dopo la condanna, che spesso richiedono soglie di pena inferiore (si pensi all’Affidamento in prova al servizio sociale ex art 47 ter O.P.). Tali effetti alimentano dubbi di costituzionalità sia rispetto al principio rieducativo della pena (art. 27 Cost.) sia al principio di extrema ratio del carcere per i minori.
Nella Relazione illustrativa e nel dibattito parlamentare dove siamo stati auditi, abbiamo evidenziato che senza potenziare le politiche d’inclusione, scuola, sport e formazione nelle aree disagiate, l’effetto deterrente di pene più dure rischia di essere nullo o controproducente.
Le critiche rivelano che la risposta del decreto appare squilibrata verso la repressione, trascurando interventi preventivi sul piano educativo e sociale. Nella Relazione illustrativa e nel dibattito parlamentare dove siamo stati auditi, abbiamo evidenziato che senza potenziare le politiche d’inclusione, scuola, sport e formazione nelle aree disagiate, l’effetto deterrente di pene più dure rischia di essere nullo o controproducente. Invece, il decreto investe prevalentemente sul diritto penale simbolico, “dando più pene e più carcere” come segnale diassuasivo. Ci si interroga se ciò rispetti il principio di necessità e proporzionalità della norma penale: punire con il carcere un quattordicenne per qualche dose (magari consumatore egli stesso) comporta costi umani e sociali elevati, potendo pregiudicare il percorso di crescita e di recupero del minore d’età. Il nostro modello è stato d’esempio per gli altri paesi che guardavano all’Italia replicando norme e prassi in particolare le alternative alla detenzione per il minore d’età e i suoi interessi superiori preminenti rispetto alla pena e alla punizione in generale. La stessa attenzione che il sistema di giustizia minorile ha sempre riservato a spazi come le comunità per i minori oggi sempre più in difficoltà e private dei contributi pubblici. Un altro aspetto significativo è l’aumento dei minori non accompagnati nelle carceri minorili che amplifica le difficoltà e la gestione di una utenza debole e bisognosa di cure e interventi psicologi.
In un colpo solo, un intero settore economico che operava in una zona lecita (circa 3.000 aziende agricole e migliaia di punti vendita, emersi grazie alla legge del 2016) è stato dichiarato illegale.
Parallelamente al decreto Caivano, il Governo ha promosso un più ampio intervento normativo in tema di ordine e sicurezza pubblica, noto come disegno di legge “Sicurezza”, poi in parte confluito in un decreto-legge 11 aprile 2025 n. 48 (denominato anch’esso, decreto “Sicurezza”). Tale provvedimento è un testo piuttosto eterogeneo che tocca vari ambiti (tutela di personale in servizio, contrasto a terrorismo e usura, carcere con il nuovo reato di rivolta, ecc.), ma contiene disposizioni di rilievo anche in materia di stupefacenti. In particolare, ha destato grande attenzione la norma sulla cannabis cosiddetta “light”, con cui l’Italia ha scelto un approccio diametralmente opposto a quello sperimentato in altri paesi europei: un ritorno al proibizionismo totale per la canapa a basso contenuto di THC, sotto lo 0,5%. L’art. 18 del decreto Sicurezza 2025 vieta espressamente qualsiasi uso delle infiorescenze di canapa industriale, consentendone la produzione solo se destinata al “florovivaismo professionale”. Ciò significa che sono adesso vietate la vendita, la detenzione, la lavorazione e il commercio di prodotti derivati dalle infiorescenze, anche se con THC sotto i limiti di legge finora vigenti. In un colpo solo, un intero settore economico che operava in una zona lecita (circa 3.000 aziende agricole e migliaia di punti vendita, emersi grazie alla legge del 2016) è stato dichiarato illegale “da un giorno all’altro”. Il decreto è entrato in vigore immediatamente dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (aprile 2025), lasciando appena 24 ore agli operatori per adeguarsi: allo scadere, chiunque continuasse a vendere canapa light sarebbe suscettibile d’incriminazione per spaccio o traffico di stupefacenti.
Le reazioni sono state fortissime. Associazioni di settore, agricoltori, commercianti e giuristi hanno criticato il provvedimento definendolo irragionevole e dannoso, sia dal punto di vista economico che giuridico. Sotto il profilo giuridico, sussistono perplessità sulla legittimità e l’opportunità di un intervento così drastico. Innanzitutto, si discute la sussistenza dei requisiti di necessità e urgenza per un decreto-legge su tale materia: il consumo di cannabis light era già diffuso da anni e regolato in via interpretativa, senza emergenze improvvise tali da giustificare l’aggiramento del dibattito parlamentare ordinario. Si teme inoltre che la norma possa essere soggetta a censure di costituzionalità sotto il profilo della ragionevolezza (art. 3 Cost.) e della libertà d’iniziativa economica (art. 41 Cost.), poiché annienta un settore lecito senza predisporre indennizzi o transizioni. La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2019 raccomandò di escludere il cannabidiolo (CBD) dai controlli internazionali, e nel 2020 l’ONU ha riclassificato la cannabis togliendola dalla lista delle sostanze più pericolose, riconoscendone l’utilità terapeutica. Ignorando questo contesto, l’Italia con il decreto Sicurezza ha scelto di equiparare la canapa industriale alla marijuana ad alto THC annullando, di fatto, la distinzione. La relazione illustrativa originaria del disegno di legge sosteneva che la disponibilità d’infiorescenze di canapa “low THC” potesse incoraggiare il consumo e costituire un rischio di “sovrapposizione” con le droghe, argomentazione accolta con scetticismo dalla comunità scientifica e giuridica. Si tratta dell’ennesima misura ideologica che penalizza la filiera agricola senza reali benefici visto che nelle migliori intenzioni si poteva tutelare e regolamentare la vendita a minori, con regolamentazioni specifiche, anziché con un divieto assoluto.
Un ulteriore aspetto toccato dal decreto Sicurezza riguarda i prodotti a base di CBD (cannabidiolo) e altre sostanze non psicoattive derivate dalla canapa. Già nel 2022-2024 il Ministero della Salute aveva inserito il CBD nella tabella delle sostanze stupefacenti (tab. B) con un proprio decreto, limitandone la libera vendita. Ora, con il divieto sulle infiorescenze, qualsiasi olio o estratto contenente CBD ottenuto da fiori di cannabis rischia di ricadere nel divieto se destinato a uso ricreativo. Il Tar del Lazio ha accolto le scelta ministeriale appellandosi al cosiddetto principio di precauzione in assenza di certezze scientifiche sulla sicurezza del prodotto. L’egida del Governo frena anche la ricerca e l’innovazione su prodotti potenzialmente benefici (oli al CBD per wellness, cosmetici naturali, etc.), in controtendenza rispetto ad altri Paesi, dove tali prodotti sono leciti e diffusi.
Alla luce delle considerazioni e dei ragionamenti, entrambi i decreti potrebbero sollevare questioni di legittimità costituzionale. In termini di principio di legalità e tassatività, paradossalmente il decreto Sicurezza chiude un capitolo d’incertezza legale (quello della cannabis light legale ovunque) ma ne potrebbe aprire altri. Sinora, infatti, la “zona grigia” aveva creato disorientamento su cosa fosse lecito o no – problema di certezza del diritto – risolto ora in senso restrittivo (tutto illecito). Tuttavia, rimane da capire come si concilierà la norma interna con il diritto dell’Unione Europea: la libera circolazione di prodotti a base di canapa con THC minimo era stata in parte tutelata da pronunce europee (caso Kanavape della Corte di Giustizia UE, 2020, che ha vietato discriminazioni commerciali sul CBD). Possibili ricorsi su questo piano non sono esclusi. Inoltre, la repentinità della nuova disciplina ha effetti retroattivi di fatto: attività prima considerate lecite diventano improvvisamente reato, senza una vacatio legis adeguata, sollevando profili di tutela dell’affidamento legittimo degli operatori (un principio riconosciuto nell’ordinamento, sebbene non rigido come il principio di irretroattività, che qui formalmente non si applica).
In definitiva, il decreto Sicurezza del 2025 chiude il cerchio di una stretta normativa sulle droghe in Italia, che va dal livello dello spaccio di strada (decreto Caivano) fino al divieto di commercializzazione della canapa light, ponendo il paese su un binario restrittivo in forte contrasto con alcune tendenze riformatrici a livello internazionale che ancora una volta mostrano la debolezza e il poco peso dell’Italia sui grandi temi dei diritti umani e delle libertà civili.
Fonti e bibliografia essenziale: