di Perla Allegri
Il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna e/o quando l’atteggiamento violento è finalizzato a reprimere i diritti o le libertà della persona offesa o comunque l’espressione della sua personalità, e ciò in relazione alla sua qualità di donna.
Nel marzo 2025 è stato presentato un disegno di legge -composto da otto articoli – che interviene sulla questione della violenza di genere. Il provvedimento, in linea con il programma governativo, si propone di adempiere agli obblighi internazionali1 sulla lotta alla violenza contro le donne. Il fulcro della proposta risiede nell’introduzione dell’art. 577-bis c.p., che configura il delitto di “femminicidio” punito con l’ergastolo, tipizzando le ipotesi in cui il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna e/o quando l’atteggiamento violento è finalizzato a reprimere i diritti o le libertà della persona offesa o comunque l’espressione della sua personalità, e ciò in relazione alla sua qualità di donna.
Se da un lato va accolta con favore la crescente consapevolezza legislativa che i delitti di violenza maschile contro le donne sono radicati in una relazione di potere strutturalmente discriminatoria e diseguale – finora poco esplicitamente riconosciuta e, proprio per questa mancata nominazione, mai efficacemente contrastata – dall’altro emerge il legittimo interrogativo sulla reale necessità di una tipizzazione specifica del reato.
Per inquadrare correttamente la questione, e prima di procedere all’esame critico della proposta legislativa, è essenziale però considerare i dati empirici sul femminicidio in Italia.
Il grafico seguente illustra i dati ufficiali del Ministero dell’Interno relativi alle vittime femminili di omicidio dal 2015 al 2024.
I dati non mostrano un incremento del fenomeno, ma piuttosto una sostanziale stabilità, con una leggera tendenza alla diminuzione negli ultimi anni.
L’analisi di questi dati richiede alcune considerazioni metodologiche. In primo luogo, contrariamente a quanto talvolta emerge dal dibattito pubblico e mediatico, i dati non mostrano un incremento del fenomeno, ma piuttosto una sostanziale stabilità, con una leggera tendenza alla diminuzione negli ultimi anni. Questa osservazione non intende in alcun modo sminuire la gravità del problema o l’urgenza di un intervento efficace, ogni singolo caso rappresenta infatti una tragedia inaccettabile. Basti pensare che se si analizzano quei numeri si scopre un quadro allarmante circa il contesto relazionale degli omicidi con vittime femminili: in oltre nove casi su dieci, le donne perdono la vita nell’ambito domestico-affettivo per mano maschile. Analizzando più dettagliatamente il profilo degli autori, emerge che in più della metà delle situazioni (57,4%) l’aggressore risulta essere il compagno attuale della vittima, mentre nel 12,7% dei casi si tratta di una relazione sentimentale ormai conclusa. Significativa anche la percentuale di violenza intergenerazionale, con il figlio responsabile nel 9,1% delle circostanze e il padre nel 4,6%2.
Mentre gli omicidi con vittime maschili mostrano un andamento decrescente nel tempo, quelli con vittime femminili si caratterizzano per una persistente e inquietante stabilità
Tornando al rapporto tra omicidi con vittime maschili e femminili, se è vero che le oscillazioni numeriche presentano variazioni statisticamente poco significative, i dati del Ministero dell’Interno evidenziano però un aspetto particolarmente rilevante: mentre gli omicidi con vittime maschili mostrano un andamento decrescente nel tempo, quelli con vittime femminili si caratterizzano per una persistente e inquietante stabilità, rivelando la natura strutturale e – soprattutto – resistente del fenomeno rispetto agli innumerevoli interventi preventivi e repressivi.
I dati qui riportati supportano la tesi secondo cui la violenza contro le donne costituisce un fenomeno strutturale, non contingente né emergenziale, che necessita di un approccio sistemico e non di interventi frammentari dettati dall’emotività mediatica del momento né da leggi manifesto (Graziosi, 2013). Ma la risposta penalistica è sufficiente per fronteggiare questi dati?
Dal punto di vista giuridico, il sistema penale prevede già la massima pena possibile per il reato di femminicidio.
Dal punto di vista giuridico, il sistema penale prevede già la massima pena possibile per il reato di femminicidio. Nell’ordinamento attuale si applica infatti l’ergastolo nei casi di omicidio aggravato quando perpetrato da persone che abbiano posto in essere condotte persecutorie, cd. stalking (art. 576, n. 5.1, c.p.). La medesima sanzione è applicata quando la vittima è il coniuge (anche in caso di separazione legale), il partner di un’unione civile, il convivente o una persona con cui l’autore del reato abbia avuto una relazione sentimentale (art. 577, n. 1, c.p.). E allora perché tipizzare una nuova fattispecie?
Se da un lato non è possibile ignorare che il sistema giuridico necessita di evolversi, soprattutto quando si tratta di riconoscere e proteggere i diritti fondamentali delle donne (ed è bene che rimanga zona aperta di dibattito e non “zona proibita” al pensiero critico proprio quando i soggetti da tutelare sono le donne), dall’altro però – a mio parere – l’introduzione di un reato ad hoc va incontro ad alcune criticità che proverò – senza alcuna pretesa di esaustività – a illustrare brevemente.
L’inasprimento delle sanzioni penali o l’introduzione di nuove fattispecie incriminatrici incidono in misura molto marginale, se non nulla, sulla deterrenza di quelle condotte che sono fortemente radicate in certe dinamiche socioculturali profonde.
Come ampiamente dimostrato dagli studi criminologici (Baratta, 2019; Pavarini, 2013; Mosconi, Padovan 2005), l’inasprimento delle sanzioni penali o l’introduzione di nuove fattispecie incriminatrici incidono in misura molto marginale, se non nulla, sulla deterrenza di quelle condotte che sono fortemente radicate in certe dinamiche socioculturali profonde. La violenza di genere, nello specifico, si caratterizza per una componente emotiva e culturale che rende gli autori scarsamente permeabili al messaggio intimidatorio della norma penale. L’idea che la previsione dell’ergastolo possa fungere da efficace deterrente per gli autori di femminicidio si rivela priva di fondamento empirico. Tali delitti, infatti, raramente sono preceduti da un calcolo razionale delle conseguenze sanzionatorie, essendo piuttosto il prodotto di dinamiche relazionali spesso caratterizzate da una dimensione emotiva incontrollata.
Nonostante il rafforzamento delle sanzioni e l’introduzione di nuove fattispecie incriminatrici, l’incidenza della violenza di genere permane sostanzialmente invariata.
Se l’inasprimento sanzionatorio avesse reale efficacia preventiva, già le modifiche normative introdotte con il cd. Codice Rosso (l. 69/2019) e la successiva legge Roccella (l. 168/2023) avrebbero dovuto produrre una significativa riduzione dei casi, risultato che l’analisi statistica poc’anzi analizzata ha inequivocabilmente smentito. Come osserva Milli Virgilio (2025), l’incessante stratificazione legislativa – dal reato di stalking del 2009, passando appunto per il Codice Rosso fino alle recenti modifiche della Legge Roccella – lungi dal costituire un progressivo perfezionamento del sistema, si configura piuttosto come implicita ammissione della fallacia dell’approccio esclusivamente penalistico. Se il paradigma repressivo-penalistico avesse effettivamente sortito gli effetti auspicati, non assisteremmo a questa compulsiva riproduzione normativa che, di fatto, si traduce in un continuo incremento degli adempimenti formali – emblematici sono in tal senso i crescenti obblighi di comunicazione alla persona offesa nelle diverse fasi procedimentali – senza tuttavia incidere significativamente sul fenomeno che intende contrastare. I dati statistici poc’anzi analizzati ne offrono un’inequivocabile conferma: nonostante il rafforzamento delle sanzioni e l’introduzione di nuove fattispecie incriminatrici, l’incidenza della violenza di genere permane sostanzialmente invariata. L’idea che l’inasprimento sanzionatorio possa di per sé fungere da deterrente – si scontra con la complessità eziologica di un fenomeno radicato in profondi squilibri sociali, culturali ed economici che trascendono la sfera giuridico-penale (Virgilio, 2014).
La dichiarazione della ministra Roccella sul nuovo reato di femminicidio è a questo proposito particolarmente emblematica di un paradosso metodologico. La ministra, affermando che i femminicidi sono diminuiti solo lievemente e che pertanto è necessario intervenire nuovamente, certifica involontariamente l’inefficacia dell’approccio precedente, per poi riproporre la medesima strategia penalistica (Peroni, 2025). In altre parole, la diagnosi di insufficienza delle precedenti misure penali, seguita dalla prescrizione di un ulteriore strumento sanzionatorio è di per sé rappresentativa dell’approccio meramente punitivo che continua ad essere riproposto come unica soluzione.
La risposta penalistica, pertanto, si rivela intrinsecamente limitata, poiché interviene quando la violenza si è già manifestata.
Questa ipertrofia delle aspettative riposte nel diritto penale rischia però di produrre un duplice effetto negativo: da un lato, offre l’illusione di un intervento risolutivo che in realtà non affronta le cause strutturali del fenomeno; dall’altro, mi permetto, facilita il processo di deresponsabilizzazione delle istituzioni rispetto all’implementazione di politiche sociali, educative e culturali di medio-lungo termine, che l’esperienza comparata indica come significativamente più efficaci nel contrastare il fenomeno nelle sue radici. La semplice criminalizzazione non può incidere efficacemente sui fattori strutturali che alimentano la violenza di genere, come il persistere di stereotipi culturali, la dipendenza economica e le disuguaglianze sistemiche. La risposta penalistica, pertanto, si rivela intrinsecamente limitata, poiché interviene quando la violenza si è già manifestata, privilegiando una logica reattiva anziché preventiva e – sulla base di una logica costantemente emergenziale risponde con un panpenalismo anziché lasciar spazio a favore di una strategia integrata che contempli interventi strutturali di prevenzione primaria, volta a incidere sui fattori socioculturali che alimentano la discriminazione e la violenza di genere (Arcidiacono, Crocitti, 2015).
Un aspetto particolarmente problematico dell’intervento penale risiede nel suo potenziale effetto di esacerbazione della figura di vittima della donna. La creazione di una fattispecie ad hoc rischia paradossalmente di cristallizzare una rappresentazione della donna come soggetto intrinsecamente vulnerabile (Creazzo, 2008), bisognoso di speciale protezione, anziché promuovere un’effettiva autonomia e autodeterminazione femminile. Questa dinamica può essere inquadrata in quello che Tamar Pitch (1998, 2022) ha efficacemente definito come “femminismo punitivo”, ovvero quella tendenza di alcuni movimenti femministi contemporanei a ricorrere al diritto penale come strumento privilegiato per la tutela delle donne. Secondo Pitch, questa strategia, benché comprensibile come risposta all’inadeguatezza delle politiche tradizionali, presenta significative contraddizioni in quanto il femminismo ha storicamente messo in discussione l’autorità statale e i suoi apparati repressivi, denunciandone la matrice patriarcale. Risulta pertanto paradossale ricorrere proprio a quegli stessi strumenti per promuovere l’emancipazione femminile (Pitch, 1998, 2022).
Il rischio è che l’enfasi sulla punizione rafforzi ulteriormente le logiche securitarie già dominanti nel dibattito pubblico, contribuendo a costruire un’immagine della donna come soggetto vulnerabile che necessita di protezione dall’alto.
Il rischio è che l’enfasi sulla punizione rafforzi ulteriormente le logiche securitarie già dominanti nel dibattito pubblico, contribuendo a costruire un’immagine della donna come soggetto vulnerabile che necessita di protezione dall’alto, piuttosto che come agente attivo del proprio processo di emancipazione. Ciò può generare forme di vittimizzazione secondaria, in cui le donne vengono relegate a un ruolo passivo all’interno del sistema giudiziario, con il rischio di tradursi in nuove forme di stereotipizzazione. Come evidenziato ancora da Pitch, una tutela penale specifica potrebbe – anche involontariamente – contribuire a riprodurre quelle stesse asimmetrie di potere che intende contrastare, confermando così l’idea di una ‘debolezza’ femminile come caratteristica intrinseca anziché come prodotto di specifiche dinamiche socio-culturali (Pitch, 2022). Questa visione alimenta una rappresentazione delle donne come categoria unitaria definita principalmente dalla sua potenziale vittimizzazione, offuscando le differenze individuali e la complessità delle esperienze femminili.
Il terzo aspetto che mi preme rilevare fa riferimento alla questione della gerarchia delle vittime. La nuova fattispecie solleva interrogativi fondamentali sulla costruzione normativa delle vittime meritevoli di protezione. La norma – che punisce l’omicidio commesso “come atto di discriminazione o di odio verso la persona in quanto donna” o finalizzato a “reprimere i diritti, le libertà o l’espressione della personalità della vittima in relazione alla sua qualità di donna” – pur identificando correttamente la matrice discriminatoria e di controllo patriarcale del fenomeno, produce paradossalmente nuove forme di esclusione.
La normativa, anziché destrutturare, finisce per cristallizzare i pilastri della struttura patriarcale: binarismo di genere, subalternità femminile ed eteronormatività.
Nell’attuale formulazione della fattispecie emerge con inquietante chiarezza la problematica costruzione di una gerarchia delle vittime che riflette e cristallizza preesistenti disuguaglianze strutturali. La scelta legislativa di circoscrivere la tutela rafforzata alle sole donne cisgender rappresenta infatti un’operazione tutt’altro che neutrale: essa riproduce normativamente una visione essenzialista dell’identità di genere che esclude sistematicamente altre soggettività (come le persone transgender, ad esempio). La normativa, anziché destrutturare, finisce per cristallizzare i pilastri della struttura patriarcale: binarismo di genere, subalternità femminile ed eteronormatività.
Questa esclusione – mentre proclama di proteggere le “vittime vulnerabili” – rinforza i meccanismi di esclusione e invisibilizzazione delle soggettività più marginalizzate. È risaputo come più spesso la violenza letale basata sul genere colpisce con particolare intensità proprio chi si colloca ai margini della normatività di genere: le donne trans subiscono tassi di violenza sproporzionatamente elevati, eppure rimangono invisibili nella costruzione giuridica del femminicidio3. Questa selettività nella protezione penale potrebbe contribuire attivamente a un processo di vittimizzazione secondaria e solleva serie questioni in relazione al principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione. Se l’obiettivo è riconoscere la matrice discriminatoria alla base di tali condotte, sarebbe giuridicamente più coerente e di certo più armonico continuare a prevedere un’aggravante specifica piuttosto che un reato autonomo, evitando così irragionevoli disparità di trattamento.
La nuova fattispecie di femminicidio sembra perciò inserirsi in un paradigma di risposta essenzialmente simbolico con l’alto rischio di ridursi a un’operazione priva di efficacia preventiva.
La nuova fattispecie di femminicidio sembra perciò inserirsi in un paradigma di risposta essenzialmente simbolico con l’alto rischio di ridursi a un’operazione priva di efficacia preventiva: all’interno della cornice populistica che caratterizza l’attuale produzione normativa, la vittima diventa uno strumento utilizzato per finalità di iper-punizione piuttosto che un soggetto sociale concreto, portatore di istanze specifiche.
Quest’uso dello strumento penale risuona storicamente come indice di un’abdicazione della politica al proprio ruolo di risolvere le problematiche più profonde. La tutela concreta delle persone che subiscono violenza di genere si costruisce infatti principalmente attraverso le pratiche sociali e le reti di solidarietà che operano nelle comunità. I centri antiviolenza e le strutture capaci di creare connessioni significative rappresentano alcuni degli strumenti più efficaci nel fornire protezione. Eppure, assistiamo oggi all’indebolimento progressivo di questo tessuto comunitario, fenomeno che riflette la più ampia tendenza alla svalutazione della dimensione sociale a favore di una visione prevalentemente individualistica dei problemi sociali (Boiano, 2025) a cui si pretende di dare risposta esclusivamente col diritto penale (Zuffa, 2019).
Il potenziamento della rete territoriale dei centri antiviolenza, delle case rifugio e dei servizi di assistenza psicologica e legale costituisce una risposta concreta e immediata al bisogno di protezione delle vittime, con un’efficacia preventiva notevolmente superiore rispetto a qualsiasi intervento sul piano sanzionatorio. Parallelamente, la formazione specifica degli operatori del sistema giudiziario, sanitario e delle forze dell’ordine rappresenta un elemento imprescindibile per il riconoscimento precoce dei fattori di rischio.
Se è vero che la violenza di genere si alimenta di dipendenza economica e disparità di potere, allora gli interventi realmente efficaci saranno quelli capaci di incidere profondamente sulle dinamiche di subordinazione che costituiscono il substrato della violenza di genere.
Un intervento realmente efficace richiede di spostare il focus dall’inasprimento sanzionatorio ex post verso politiche educative capaci di promuovere modelli relazionali fondati sulla parità. Se è vero che la violenza di genere si alimenta di dipendenza economica e disparità di potere, allora gli interventi realmente efficaci saranno quelli mirati a favorire un’autonomia economica, ma anche politiche di conciliazione vita-lavoro, misure di sostegno all’occupazione e servizi di welfare adeguati, capaci di incidere profondamente sulle dinamiche di subordinazione che costituiscono il substrato della violenza di genere.
Prevedibilmente, la proposta di legge qui discussa si chiude con un’inaccettabile clausola di invarianza finanziaria: come spesso accade, la produzione normativa persiste nell’assenza di adeguate allocazioni finanziarie, privilegiando la risonanza mediatica a breve termine rispetto all’efficacia sostanziale degli interventi proposti sul medio-lungo termine.
La sfida che – da tempo – ci attende pertanto non è tanto quella di inasprire la risposta punitiva, quanto piuttosto di costruire un approccio integrato, che agisca simultaneamente sul piano culturale, educativo, economico e sociale, per consentire di transitare da una tutela meramente simbolica a un contrasto effettivo della violenza basata sul genere in tutte le sue manifestazioni. È doveroso riconoscere, tuttavia, che il dibattito pubblico generato dalla presente proposta di legge costituisce un terreno potenzialmente fertile per una riflessione più ampia e articolata sul fenomeno della violenza di genere.
Arcidiacono, D., Crocitti, S. (2015), Criminal justice system responses to intimate partner violence: The Italian case, in Criminology & Criminal Justice, 15(5), 613-632.
Baratta A. (2019), Criminologia critica e critica del diritto penale. Introduzione alla sociologia giuridico-Penale, Meltemi.
Boiano, I. (2025), Nominare la violenza maschile contro le donne: diritto penale e giustizia tra conflitto simbolico e responsabilità politica, su Giustizia Insieme, https://www.giustiziainsieme.it/en/violenza-di-genere/3455-nominare-la-violenza-maschile-contro-le-donne-diritto-penale-e-giustizia-ilaria-boiano
Creazzo, G. (2008) La costruzione sociale della violenza contro le donne in Italia, in Studi Sulla Questione Criminale, 3(2), 15-42.
Graziosi, M. (2013). Femminicidio: i rischi delle leggi-manifesto, in Studi Sulla Questione Criminale, 8(2), 7–11.
Mosconi, G., Padovan, D. (2005), La fabbrica dei delinquenti. Processo penale e meccanismi sociali di costruzione del condannato, L’Harmattan Italia.
Pavarini, M. (2013, Governare la penalità, Bononia University Press.
Peroni, C. (2025), Anatomia di un dibattito femminista: le ambivalenze del nominare il femminicidio, in Studi sulla questione criminale online, https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2025/04/17/anatomia-di-un-dibattito-femminista-le-ambivalenze-del-nominare-il-femminicidio/
Pitch, T. (1998) Un diritto per due: la costruzione giuridica di genere, sesso e sessualità, Il Saggiatore.
Pitch, T. (2022) Il malinteso della vittima. Una lettura femminista della cultura punitiva, Edizioni Gruppo Abele.
Virgilio, M. (2014). La legge “sul femminicidio”, in M@gm@, 2(1). https://www.analisiqualitativa.com/magma/1201/article_08.htm#_ftn1
Virgilio, M. (2021). Profili giuridici della violenza maschile contro le donne, Sociologia del Diritto, 3, pp. 89-112.
Virgilio, M. (2025), Nominare il femminicidio. Non in nostro nome, in Studi sulla questione criminale online, al link https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2025/03/10/nominare-il-femminicidio-non-in-nostro-nome/
Zuffa, G. (2019), Populismo penale e violenza di genere, atti del seminario, Torino – 21 novembre 2019, 37-43, https://www.fivedabliu.it/wp-content/uploads/2021/03/atti-populismo-penale-e-violenza-di-genere.pdf