di Juan Patrone
L’art. 26 del decreto-legge 11 aprile 2025, n. 48, prevede una modifica, in pejus, all’art. 415 del codice penale (Istigazione a disobbedire alle leggi) ed introduce ex novo l’art. 415-bis (Rivolta all’interno di un istituto penitenziario).
L’art. 26 del decreto-legge 11 aprile 2025, n. 48, Disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario, prevede una modifica, in pejus, all’art. 415 del codice penale (Istigazione a disobbedire alle leggi) ed introduce ex novo l’art. 415-bis (Rivolta all’interno di un istituto penitenziario) al dichiarato fine del “rafforzamento della sicurezza degli istituti penitenziari”. L’art. 27 del decreto-legge estende poi il nuovo reato di rivolta penitenziaria alle strutture per il trattenimento dei migranti di cui agli arti. 10-ter e 14 del del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.
L’art. 415 del cod. pen., “Istigazione a disobbedire alle leggi”, è una disposizione che esprime tutta la filosofia autoritaria del legislatore fascista del 1930: esso prevede che “Chiunque pubblicamente istiga alla disobbedienza delle leggi di ordine pubblico, ovvero all’odio fra le classi sociali, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni “. Si tratta di un reato di rarissima applicazione e che avrebbe ben meritato, nei decenni successivi alla entrata in vigore della Costituzione, una secca abrogazione, se non altro per la sua manifesta e dimostrata inutilità. Ora, al contrario, il Governo ha inteso aggiungere un secondo comma del seguente contenuto: “La pena è aumentata se il fatto è commesso all’interno di un istituto penitenziario ovvero a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute”.
La relazione che accompagna il d.d.l. di conversione del decreto-legge non spende una sola parola per illustrare le ragioni di questa ipotesi aggravata del delitto originario.
La relazione che accompagna il d.d.l. di conversione del decreto-legge non spende una sola parola per illustrare le ragioni di questa ipotesi aggravata del delitto originario: in particolare nulla dice in ordine alla specifica indicazione di “scritti o comunicazioni diretti a persone detenute”. Lo scopo sembra dunque essere quello di punire qualunque forma di comunicazione dall’esterno che possa essere interpretata quale istigazione alla disobbedienza: si noti, “disobbedienza”, non “resistenza” o “violenza”.
L’art. 26 e l’art. 27 del decreto-legge introducono due nuove fattispecie di reato, rispettivamente quello di “rivolta all’interno di un istituto penitenziario” (art. 26 del decreto, art. 415-bis del cod. pen.) e quello di rivolta durante il trattenimento in uno dei centri per stranieri di cui all’art. 14 del TU delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 o in una delle strutture di cui all’articolo 10 -ter TU cit.
Ai fini della sussistenza del reato, costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva.
Le condotte previste sono quelle commesse da chiunque, in numero di tre o più persone riunite, all’interno di un istituto penitenziario o di un centro per stranieri, partecipa ad una rivolta mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza: la pena è quella della reclusione da uno a cinque anni. Ai fini della sussistenza del reato, costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza.
Si impone una prima notazione: il sostantivo “rivolta” non fa parte del lessico giuridico penale.
Si impone una prima notazione: il sostantivo “rivolta” non fa parte del lessico giuridico penale essendo stato utilizzato in un solo caso, invero marginale, previsto dal Codice penale militare di pace all’art. 174, che punisce alcune condotte di grave disobbedienza commessi da militari in servizio. Nella Relazione al Re del Guardasigilli Rocco per l’approvazione del testo definitivo del Codice penale del 1930, non si rinviene la parola “rivolta”. Il termine è definito nel Vocabolario Treccani online come “L’azione e il fatto di rivoltarsi contro l’ordine e il potere costituito (è più che sommossa, ma indica azione più improvvisa e meno estesa e organizzata rispetto a rivoluzione) …”.
Si tratta perciò di un termine atecnico e già per questa ragione si possono immaginare future difficoltà interpretative.
Le condotte descritte come integranti la nuova fattispecie erano tutte già previste da altre disposizioni vigenti:
Rimane perciò oscura la ragione che ha indotto il Governo ad introdurre il nuovo reato per condotte già punite da norme vigenti: inoltre in mancanza di qualsivoglia indicazione al riguardo, non è chiaro cosa accada, ad esempio, in caso di “rivolta” compiuta attraverso atti di resistenza attiva o minaccia nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria e in genere del personale degli istituti. Prevede infatti l’art. 337, primo comma, cod. pen. che “Chiunque usa violenza o minaccia per opporsi a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, mentre compie un atto di ufficio o di servizio, o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni”. Il secondo comma, aggiunto dall’art. 19 del decreto-legge qui in commento, prevede poi che se il fatto è commesso nei confronti di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza, la pena è aumentata fino alla metà, potendo quindi arrivare sino a sette anni e sei mesi.
Il nuovo reato di “rivolta”, il bene giuridico protetto del quale non sembra poter essere individuato che nello stesso della “resistenza” all’autorità, sembra perciò essere punito meno gravemente della resistenza aggravata di cui al neo introdotto secondo comma. Nel concorso fra le due ipotesi criminose potrebbe però ravvisarsi assorbimento anziché concorso, con conseguente possibile irragionevolezza della nuova previsione.
La disposizione che desta i più gravi dubbi di costituzionalità è data però dalla equiparazione, ai fini penali, della resistenza passiva a quella attiva.
La disposizione che desta i più gravi dubbi di costituzionalità è data però dalla equiparazione, ai fini penali, della resistenza passiva a quella attiva. Qui si realizza una abnorme ed inedita dilatazione della fattispecie penale sino alla semplice inesecuzione degli ordini impartiti, senza che la condotta assuma i connotati di una resistenza aggressiva connotata da atteggiamenti violenti o minatori. La resistenza passiva, per la giurisprudenza, non integra il reato di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.) e non autorizza il ricorso all’uso delle armi ai densi dell’art. 53 cod.pen.
Essa diventa invece ora penalmente rilevante nel contesto degli istituti penitenziari o dei centri per immigrati, ossia in contesti caratterizzati da rapporti di forza ed evidente supremazia tra le persone ristrette e il personale dell’amministrazione.
Il riferimento al numero delle persone coinvolte (numero del tutto indeterminato) e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio (il contesto non può che essere quello penitenziario, le cui condizioni generali di degrado sino all’invivibilità sono arcinote), all’impedimento del compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza sono concetti talmente generici da essere buoni a tutti gli usi.
La resistenza passiva può sostanziarsi in uno sciopero della fame, nel rifiuto di rientrare dopo l’ora d’aria, nel restare in cella ed in moltissimi altri modi. Si tratta di manifestazioni di dissenso, per loro stessa definizione non violente, che costituiscono spesso l’unico modo per far conoscere all’esterno le proprie rimostranze, il proprio malessere, il legittimo dissenso. Sembra allora che si voglia reprimere ogni atto sgradito all’autorità di governo ed amministrativa, anche quando lo stesso non arrechi alcuna offesa ad un interesse meritevole di tutela nel nostro sistema costituzionale e sia espressione di libertà di pensiero e di legittima protesta.
L’introduzione di un nuovo reato, dall’altisonante titolo di “rivolta”, anche se passiva, esprime chiaramente l’intenzione di criminalizzare, anziché governare, il sistema delle pene e dell’ordine negli istituti penitenziari e nei centri di trattenimento dei migranti. La forza pura e semplice e l’obbedire sempre e comunque.
Insomma i detenuti e i trattenuti devono obbedire e stare ben zitti.
Si auspica, in conclusione, che questa disposizione venga cancellata in sede di conversione del decreto-legge in quanto essa viola gli arti. 2, 21 e 27 della Costituzione.