L’ombra della privatizzazione

Da più parti nell’ultimo anno sembrano arrivare segnali che guardano a un modello di privatizzazione dell’esecuzione penale, seppur talvolta sotto mentite spoglie.

Da più parti nell’ultimo anno sembrano arrivare segnali che guardano a un modello di privatizzazione dell’esecuzione penale, seppur talvolta sotto mentite spoglie. La gestione della pena deve sempre rimanere pubblica nei propri aspetti costitutivi, al di là di possibili assegnazioni ad aziende private di servizi interni (quali la mensa) non direttamente connessi con la privazione della libertà personale o con la finalità del reinserimento sociale. Come dimostrato dall’esperienza statunitense, la gestione privata della pena rappresenta una deriva politica, sociale, culturale, che può condurre a un’espansione innaturale del sistema penitenziario legata agli interessi economici che l’imprenditore ripone nell’aumento della popolazione detenuta.

Il decreto-legge 4 luglio 2024, n. 92, convertito dalla legge 8 agosto 2024, n. 112, reca all’art. 8 “Disposizioni in materia di strutture residenziali per l’accoglienza e il reinserimento sociale dei detenuti”.

Il decreto-legge 4 luglio 2024, n. 92, convertito dalla legge 8 agosto 2024, n. 112, reca all’art. 8 “Disposizioni in materia di strutture residenziali per l’accoglienza e il reinserimento sociale dei detenuti”. Si istituisce presso il Ministero della Giustizia un elenco “delle strutture residenziali idonee all’accoglienza e al reinserimento sociale” al fine di “semplificare la procedura di accesso alle misure penali di comunità e agevolare un più efficace reinserimento delle persone detenute adulte”. La disciplina relativa a tale elenco andava definita da un decreto del ministro della Giustizia da adottarsi entro lo scorso 8 febbraio, ma non pare si sia ancora provveduto. Per tali strutture si dispone la spesa di 7 milioni di euro annui, a valere sulla Cassa delle Ammende.

Se appare lodevole l’intenzione di facilitare l’accesso a misure alternative al carcere a quei detenuti che sono nei termini di legge per accedervi ma che non dispongono di un domicilio adeguato, appaiono tuttavia ambigue le modalità in cui ciò si prevede. Come menzionato, le strutture residenziali private alle quali ci si affida devono essere idonee tanto all’accoglienza quanto al reinserimento sociale. Se è del tutto condivisibile la previsione di un sostegno economico a soggetti privati che accolgano persone in esecuzione penale fornendo loro un alloggio, ben diverso è l’affidamento a tali soggetti del compito del reinserimento sociale. Ai fini dell’iscrizione nell’elenco, le strutture residenziali “garantiscono, oltre ad una idonea accoglienza residenziale, lo svolgimento di servizi di assistenza, di riqualificazione professionale e reinserimento socio-lavorativo dei soggetti residenti, compresi quelli con problematiche derivanti da dipendenza o disagio psichico, che non richiedono il trattamento in apposite strutture riabilitative”. Il comma 4 dell’art. 8 cita esplicitamente la disponibilità ad accogliere soggetti in regime di detenzione domiciliare. Quest’ultima è una forma di detenzione a tutti gli effetti, sebbene in privata dimora. Quando la privata dimora non appartiene alla persona stessa che sta scontando la pena bensì ad altro soggetto privato, e quando questo soggetto privato riceve fondi pubblici per provvedere alla reintegrazione sociale del condannato, il risultato somiglia molto a un carcere privato.

Bisogna stare attenti che non vada in tale direzione il sostegno della Regione Emilia Romagna alle cosiddette CEC (Comunità Educanti con i Carcerati).

In questo senso, bisogna stare attenti che non vada in tale direzione il sostegno della Regione Emilia Romagna alle cosiddette CEC (Comunità Educanti con i Carcerati), che propongono come alternativa al sovraffollamento carcerario un percorso di rieducazione del condannato gestito da un soggetto privato, in questo caso la Comunità Papa Giovanni XXIII. Il concetto di rieducazione presente all’art. 27 della Costituzione va sempre inteso, come la Corte Costituzionale ha chiaramente spiegato, quale opportunità di reintegrazione sociale da parte dell’autorità pubblica, e non certo quale orientamento di coscienza, assai più pericoloso se gestito da un soggetto privato secondo i propri specifici valori.

Un analogo percorso di creazione di comunità educative come alternativa alla detenzione in carcere si sta avviando in Campania con l’accordo stipulato nel mese di maggio 2025 tra il Dap e l’Associazione Terra Dorea.

Un analogo percorso di creazione di comunità educative come alternativa alla detenzione in carcere si sta avviando in Campania con l’accordo stipulato nel mese di maggio 2025 tra il Dap e l’Associazione Terra Dorea, della quale non si trovano pubblicamente lo Statuto né l’Atto Costitutivo e che si apprende essere stata costituita molto di recente senza che sia chiara l’esperienza in merito.

Un altro segnale preoccupante che ci indica come stia prendendo piede un’idea di privatizzazione della pena proviene dalla proposta contenuta nel documento “La fine del ‘sistema infinito’: il sistema carcerario”, redatto dall’Associazione Spazio Aperto. Tale proposta è stata presentata a Roma nell’ottobre 2024 e a Milano nel maggio 2025 in convegni nelle cui locandine compaiono vari ministri della Repubblica e altre figure istituzionali. La soluzione proposta al sovraffollamento e alle mancanze del sistema penitenziario in termini di reintegrazione sociale lascia emergere uno stravolgimento completo dei valori democratici. Si prevede un carcere privato, costruito e gestito dallo stesso imprenditore che dovrebbe poi andare a usufruire della manodopera detenuta. L’imprenditore dovrebbe costruire all’interno del carcere una struttura industriale, adiacente al padiglione detentivo, nella quale i detenuti si recherebbero a lavorare con lo strumento dell’art. 21 dell’ordinamento penitenziario (lavoro all’esterno). Si dorme e si lavora all’interno dello stesso muro di cinta, dunque, e il tutto viene gestito dalla medesima cordata imprenditoriale. Lo stipendio verrebbe infine sottratto per i quattro quinti alla libera decisione del lavoratore relativa al suo utilizzo e verrebbe destinato da uno Stato paternalista a pagare le spese carcerarie, nonché alla previdenza per la vita futura e al sostegno famigliare. Difficile vedere qualcosa di responsabilizzante in questo modello di gestione della pena, volto a favorire l’imprenditore privato.

Ci auguriamo che i vari segnali qui elencati non costituiscano il preludio per la sottrazione del sistema penitenziario alla gestione statale.