XVII rapporto sulle condizioni di detenzione

Gabbie, box, manette. La coercizione nei tribunali.

Gabbie, box, manette. La coercizione nei tribunali.

Gabbie, box, manette. La coercizione nei tribunali.

1024 538 XVII rapporto sulle condizioni di detenzione

Eleonora Colombo e Claudio Paterniti Martello

Gabbie, box, manette: gli imputati e i mezzi di coercizione nei tribunali italiani ed europei

È frequente, in Italia e in molti Paesi europei, che gli imputati, in tribunale, siano sottoposti a mezzi di coercizione. Spesso vengono tradotti da un ambiente all’altro del tribunale con le manette ai polsi, nonostante la presenza di agenti ai loro fianchi. È poi frequente, almeno in Italia, che in attesa dell’udienza si ritrovino ristretti in celle adiacenti all’aula dell’udienza, anche in questo caso ammanettati e affiancati da agenti di polizia. In molti paesi, infine, assistono alla propria udienza confinati in box di vetro o plexiglass, o in celle chiuse da sbarre di ferro (i cosiddetti gabbiotti, frequenti in Italia); o, ancora, in ambienti separati dal resto dell’aula da balaustre di legno.1)Si veda, sul tema, specie della rappresentazione, il documento “The Dock and Physical Restraints : the presumption of innocence put to the test by appearances at trial”, consultabile al link seguente: https://www.ejtn.eu/Documents/Themis%202012/THEMIS%202012%20BUCHAREST%20DOCUMENT/Written_paper_France%206.pdf L’applicazione di queste misure coercitive, in genere, non è dovuta a esigenze di sicurezza reali, comprovate. Formalmente sono motivate dalla pericolosità presunta degli imputati. Nella realtà la causa è da ricercare in ragioni logistiche, e in una certa inerzia che impedisce di mettere in discussione strumenti coercitivi inutili (il più delle volte) e disposizioni spaziali ereditate da un tempo in cui le garanzie processuali erano più deboli e le esigenze di sicurezza, almeno in alcuni casi, erano reali.
Questo trattamento coercitivo non è riservato a tutti gli imputati. Riguarda solo coloro che giungono in udienza già privati della libertà, perché in stato di fermo o arresto, o in custodia cautelare. Queste persone arrivano in aula dalle celle del tribunale stesso, dalle stazioni di polizia o dal carcere, a seconda dei paesi e delle situazioni specifiche. Si tratta di persone che sono sottoposte a misure cautelari, ma che fino a sentenza definitiva sono innocenti. Ed è una delle ragioni per cui pone problema il fatto che spesso non siedano in aula da persone libere, accanto al proprio difensore, conformemente al principio della parità delle parti. Ce ne sono della altre, come vedremo.
In Italia, in molti tribunali, questi soggetti fanno ingresso in aula da un’entrata diversa, separata. Da un parte c’è l’ingresso generale, dall’altro una porta che conduce al cosiddetto “gabbiotto” – nome informale che ben rende l’idea del luogo di cui si parla. In genere le condizioni materiali dell’aula e del “gabbiotto” divergono considerevolmente: da un lato una panchina di legno o di cemento, dall’altro poltrone di una certa qualità; da un lato pulizia, dall’altro spesso sporcizia.

La disposizione diseguale delle parti in causa ha un forte valore simbolico, enfatizzato peraltro dalla frequente esposizione mediatica degli imputati. L’aula dell’udienza è in effetti un luogo pubblico, in cui talvolta sono presenti videocamere che registrano immagini poi trasmesse in servizi televisivi, giornali, altri canali online.
Come si è detto, le ragioni formali a fondamento di queste misure sono le cosiddette esigenze di sicurezza. Sbarre, barriere e manette servono a scongiurare pericoli di fuga, aggressioni, disordini che potrebbero insorgere nel corso dell’udienza, contatti con terzi. Che questi pericoli siano reali e attuali è però perlomeno dubbio. Com’è dubbio che non vi siano altri mezzi dissuasivi che è possibile mettere in atto. Da diverse interviste svolte da Antigone con avvocati operanti in vari fori d’Italia, è emerso con chiarezza come a monte non vi sia alcuna valutazione concreta, puntuale, relativa al singolo caso. Non si prendono in conto elementi legati al caso – come la resistenza al momento dell’arresto – da cui si potrebbe far desumere una presunzione di pericolosità del soggetto – per quanto anche questi criteri sarebbero discutibili. Quella privazione della libertà è il frutto di un automatismo, il risultato di una prassi che mette simbolicamente l’imputato in una situazione di pre-colpevolezza. Rispetto al pericolo di violenze, peraltro, va tenuto conto del fatto che al momento dell’interrogatorio l’imputato, almeno in Italia, viene comunque tradotto di fronte al giudice, al quale parla senza strumenti di coercizione. Senza che ciò comporti reazioni sconsiderate.
È un trattamento diffuso in molti paesi, sia pur con alcune varianti, che contrasta con diversi principi: la presunzione di innocenza, visivamente messa in discussione dai segni tipici della pena, portati da soggetti non ancora giudicati; la tutela della dignità della persona sottoposta a procedimento penale; il diritto a un’assistenza legale effettiva, ostacolata dalla distanza fisica tra il difensore e l’assistito, o da citofoni rumorosi e altre barriere.2)Sul tema si veda l’interessante articolo del New York Times, corredato da numerose e significative immagini: https://www.nytimes.com/2013/11/19/world/europe/courtroom-cages-remain-common-despite-criticism.html

L’impatto visivo degli imputati in gabbia è forte. Sono note, in Italia, le immagini dell’aula bunker di Palermo (un’aula di tribunale costruita tra il 1985 e il 1986 nel carcere dell’Ucciardone) in cui si celebrò il maxiprocesso a Cosa nostra.

L’impatto visivo degli imputati in gabbia è forte. Sono note, in Italia, le immagini dell’aula bunker di Palermo (un’aula di tribunale costruita tra il 1985 e il 1986 nel carcere dell’Ucciardone) in cui si celebrò il maxiprocesso a Cosa nostra: gli imputati, accusati di reati gravissimi (e poi condannati), assistevano alle udienze da gabbie metalliche in cui si trovavano uno a fianco all’altro. In quel caso si trattava di soggetti con forti legami con il territorio, e rispetto ai quali appariva e appare fondato il sospetto di pericolosità. Ma quel trattamento è riservato anche a molti altri imputati, non paragonabili ad essi. La reclusione nei gabbiotti è prassi diffusa ogni qualvolta un’udienza chiama in causa un numero rilevante di imputati. Quando gli imputati sono pochi è più raro che vi si faccia ricorso. In questi casi è più facile che il giudice conceda loro di sedere a fianco al proprio difensore – come peraltro previsto dalla normativa. Ad ogni modo ciò avviene, spesso, dopo un’attesa più o meno lunga passata in una cella adiacente all’aula, talvolta in manette.
In Italia i “gabbiotti” sono uno strumento coercitivo diffuso. In altri paesi sono molto presenti box di vetro o plexiglass. Hanno avuto grande diffusione mediatica, nei mesi scorsi, le immagini di Aleksej Navalny, attivista, politico e blogger russo che ha assistito al proprio processo, a Mosca, da un box di vetro.

Hanno avuto grande diffusione mediatica, nei mesi scorsi, le immagini di Aleksej Navalny, attivista, politico e blogger russo che ha assistito al proprio processo, a Mosca, da un box di vetro.

È uno strumento molto diffuso anche in Francia. Le norme, come spesso accade, contrastano con le prassi. Nell’ordinamento italiano, l’art. 474 c.p.p. contiene un principio generale secondo il quale ogni imputato dovrebbe assistere libero all’udienza. L’articolo prevede delle eccezioni. Ma dovrebbe trattarsi, appunto, di eccezioni. Questo il testo del codice: “l’imputato assiste all’udienza libero nella persona, anche se detenuto, salvo che in questo caso siano necessarie cautele per prevenire il pericolo di fuga o di violenza. Le eccezioni dovrebbero essere motivate, ma nella pratica ciò non accade. A questo si aggiunge l’art. 146 delle disposizioni attuativa del codice di procedura penale, il quale prevede che le parti private siedano a fianco dei propri difensori – salvo la sussistenza di esigenze di cautela, che ancora una volta dovrebbero essere le eccezioni. Infine, l’art. 42 bis dell’ordinamento penitenziario vieta, per le traduzioni individuali dei detenuti, l’uso delle manette, salvo i casi di pericolo di fuga o in cui siano presenti condizioni particolarmente difficili, certificate da un provvedimento della direzione del carcere o dell’autorità giudiziaria. È un aspetto diverso rispetto alle modalità con cui si assiste all’udienza, ma comunque rilevante.

Uno sguardo alla Francia

La Francia, si è detto, è uno dei paesi che fanno un ricorso generalizzato ai box. In seguito a un decreto3)Arrêté du 18 août 2016 portant approbation de la politique ministérielle de défense et de sécurité NOR : JUST1624217A, consultabile al seguente indirizzo: http://www.textes.justice.gouv.fr/art_pix/JUST1624217A.pdf emanato dal Ministero della Giustizia nel 2016 (con il quale si dava applicazione a una direttiva nazionale relativa alla sicurezza delle attività giudiziaria), ha preso il via, nei tribunali d’Oltralpe, la generalizzazione del dispositivo di sicurezza costituito dal box di vetro, già presente in molti tribunali. Il provvedimento è stato duramente criticato e infine  impugnato dal Syndicat des avocats de France di fronte al Défenseur des droits, l’ombudsperson francese. È inoltre giunto di fronte alla Corte di Cassazione e al Consiglio di Stato. In seguito a queste azioni l’installazione dei box si è interrotta dopo aver riguardato 18 aule di tribunale. Il Défenseur des droits ha censurato con il proprio parere il provvedimento del Governo4)https://juridique.defenseurdesdroits.fr/doc_num.php?explnum_id=17462, raccomandando ai Ministeri degli interni e della Giustizia l’abrogazione della normativa vigente, la limitazione della presenza dei box ai soli casi in cui sussistono gravi rischi per sicurezza, oltreché la creazione di box rispettosi dei diritti fondamentali dell’imputato. Il provvedimento ha suscitato interesse in vari paesi5)In Italia il provvedimento è stato ottimamente commentato da  Nicola Canestrini. Cf. il suo  La detenzione in gabbie metalliche durante l’udienza è lesiva dei diritti fondamentali dell’imputato, in Giurisprudenza Penale Web, 2018, 4, cosultabile al link seguente: https://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2018/04/Canestrinii_gp_2018_4.pdf Per l’interesse suscitato dalla questione vedi ad esempio il risalto dato da Fair Trials. https://www.fairtrials.org/news/glass-boxes-courtrooms-violate-presumption-innocence-finds-french-ombudsperson, e vale la pena riproporre le argomentazioni avanzate dal Défenseur. La prima riguarda l’infondatezza dei presupposti su cui poggia il provvedimento del Governo, ovvero l’esistenza di esigenze di sicurezza. Il Défenseur sottolinea come nei tre tribunali da lui monitorati non vi sia stato, negli anni precedenti, alcun episodio di violenza, tentativo di fuga o di contatti con terzi. Anche dalle interviste di Antigone è emerso come episodi del genere, in Italia, siano pressoché inesistenti. Alcuni hanno visto nel ricorso ai “gabbiotti” un lascito degli anni ‘70, un periodo che ha visto alcune contestazioni in aula, per quanto largamente minoritarie.

Il Défenseur ha poi ravvisato nella collocazione degli imputati in box di vetro o plexiglass una violazione del diritto a un processo equo e alla partecipazione effettiva al procedimento. Tale collocazione, infatti, comporta difficoltà per l’imputato a conferire con il proprio difensore nel corso dell’udienza. La comunicazione, sostiene il Défenseur, è possibile, ma è fortemente inibita dalla presenza del vetro o di citofoni rumorosi, quando invece dovrebbe essere sempre libera e confidenziale. La questione, in Francia, era già stata affrontata molti anni prima. Già nel 1985 la Corte di Cassazione si era pronunciata sulla legittimità dei box di vetro, subordinandola alla presenza di confidenzialità e libertà nella comunicazione tra assistito e difensore.6) Cf. 9 Cour de cassation, Chambre criminelle, 15 mai 1985, 84-95.752, citata nel provvedimento del Défenseur des droits.

I difensori intervistati da Antigone hanno messo in luce un ulteriore elemento che inibisce la comunicazione con l’assistito, ovvero la presenza frequente, in Italia, di agenti che stazionano in prossimità degli imputati.

I difensori intervistati da Antigone hanno messo in luce un ulteriore elemento che inibisce la comunicazione con l’assistito, ovvero la presenza frequente, in Italia, di agenti che stazionano in prossimità degli imputati. È un problema che non riguarda solo il momento specifico dell’udienza. Da una precedente ricerca7)Cf. il report sull’Italia del progetto “Inside police Custody”, dell’associazione Antigone era emerso in effetti come la violazione della riservatezza del colloquio tra avvocato e assistito fosse frequente anche prima delle udienze, limitatamente ai casi delle direttissime. Nel tribunale di Roma, per fare un esempio, i colloqui che precedono le direttissime avvengono di norma nel corridoio antistante l’aula dell’udienza, o in un angolo dell’aula stessa, con gli agenti posti accanto alla persona arrestata. L’avvocato può chiedere che si allontanino, ma sta a lui farlo, e spesso non lo fa.  

Il Défenseur des droits, nel suo parere, rileva poi come la collocazione degli imputati in box di vetro o plexiglass violi il principio di presunzione di innocenza. L’ombudsperson rileva un contrasto con la direttiva (UE) 2016/343, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, avente per oggetto il rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali.8)Cf. https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX%3A32016L0343 La direttiva prevede, all’art. 5, relativo alla presentazione di indagati e imputati, l’adozione, da parte degli stati membri, di “misure appropriate per garantire che gli indagati e imputati non siano presentati come colpevoli, in tribunale o in pubblico, attraverso il ricorso a misure di coercizione fisica”. Lo stesso articolo prevede delle eccezioni che rendono in alcuni casi legittima l’applicazione di mezzi di coercizione, allorché si riveli necessario prevenire tentativi di fuga o contatti con terzi, o per esigenze di sicurezza. Ma dovrebbe trattarsi di eccezioni. La presentazione degli imputati nei box di vetro o in celle, sostiene il Défenseur, assimila l’imputato a un colpevole, ed è suscettibile di influire sul libero convincimento del giudice e dei giurati. Si tratta di un’opinione diffusa anche tra gli avvocati intervistati da Antigone. 

Infine, ed è un punto centrale, il Défenseur rileva rispetto alla norma impugnata e alla prassi diffusa un’incapacità da parte dello Stato di garantire la dignità delle persone sottoposte a procedimento penale. A tal proposito richiama la giurisprudenza più recente dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che vale la pena riproporre brevemente. La Corte Edu ha visto spesso in questa modalità di presentazione dell’imputato una violazione dell’art. 3 della Convenzione, che proibisce qualsiasi forma di tortura, pena o trattamento inumano o degradante. Giova ricordare che quello presente nell’art. 3 è un divieto assoluto. Non sono cioè ammesse eccezioni motivate dalla specificità della situazione e da conseguenti esigenze di bilanciamento, contrariamente a quanto previsto per altri diritti.

La posizione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo

Queste le sentenze più recenti e significative della Corte Edu. Nella sentenza Khodorkovskiy e Lebedev v. Russia9)Vedi Khodorkovskiy e Lebedev c. Russia, 25 luglio 2013, ricorsi 11082/06 e 13772/05, del 25 luglio 2013, la Corte afferma che la collocazione nel corso dell’udienza all’interno di un gabbia metallica può costituire trattamento degradante. Nella sentenza Yaroslav Belousov v. Russia10) Vedi Yaroslav Belousov v. Russia, ricorsi 2653/13 e 60980/14, sentenza 4 ottobre 2016, del 4 ottobre 2016, precisa che ciò vale sempre per le gabbie metalliche (e dunque per i cosiddetti “gabbiotti”), ma che per i box di vetro o plexiglass è necessario valutare altri elementi (durata della collocazione, dimensioni, modalità di comunicazione con il proprio assistito e altri). 

Nel caso di Belousov, la Corte ha ravvisato una violazione dell’art. 3, oltre che del diritto di difesa dell’imputato, garantito dall’art. 6 comma 3 lettere (b) e (c) della Convenzione e riguardante la partecipazione effettiva al processo ed all’assistenza difensiva.11)Cf. il commento di N. Canestrini citato sopra Il ricorrente, che aveva peraltro subito una detenzione provvisoria ingiustificata, era stato posto nel box di default, senza una valutazione concreta del caso, per tutta la durata del processo (di diversi mesi). In ragione di tale collocazione non aveva potuto “comunicare riservatamente con il proprio difensore se non attraverso microfoni/altoparlanti posti sul vetro ma in prossimità della polizia penitenziaria, senza poter scambiare appunti”.12)Traduzione di Canestrini Un passaggio della sentenza è particolarmente significativo rispetto agli effetti umilianti e degradanti che la Corte ritiene derivino dalla collocazioni nei box o nelle celle: “da ultimo, la Corte non trova argomenti convincenti per ritenere necessario tenere rinchiuso un imputato in una gabbia durante il processo per contenerlo fisicamente, per prevenire la sua fuga, per contenere comportamenti disordinati o aggressivi, o proteggerlo da aggressioni esterne. Il confinamento nella gabbia quindi può essere difficilmente inteso in modo diverso dal voler degradare o umiliare la persona ingabbiata. È quindi evidente il significato umiliante e degradante di una persona rinchiusa in una gabbia durante il processo”.13)Vedi ancora il commento di Canestrini

Vi è poi la sentenza Kavkazskiy c. Russia, del 28 novembre 2017, con cui la Corte condanna ancora una volta la Russia per aver violato l’art. 3 della Convenzione a causa della collocazione dell’imputato dentro un box di vetro. Violazione ravvisata anche nella sentenza Svinarenko e Slyadnev v. Russia.14)Svinarenko and Slyadnev v. Russia [GC] – 32541/08 and 43441/08, consultabile al seguente link: https://hudoc.exec.coe.int/ENG#{%22EXECIdentifier%22:[%22004-14144%22]} In questo caso ha valutato il criterio dello spazio di cui disponevano gli imputati – due persone accusate di reati tra cui la rapina che nel corso del processo erano stati confinati all’interno di gabbie metalliche ampie 1,5 per 2,5 metri, circondate da sbarre e chiuse al di sopra da filo metallico. 

Da ultimo merita di essere citata la sentenza Valyuzhenich v. Russia, del 26/03/2019, nella quale la Corte ha stabilito che “costituisce un trattamento degradante, in violazione dell’art. 3 CEDU, la detenzione in una gabbia metallica del ricorrente durante le udienze del processo penale in cui è imputato, con la conseguente compressione del suo diritto di difesa, stante l’impossibilità di conferire con il suo legale, e con l’effetto per lui umiliante di apparire un pericoloso criminale, in violazione del principio di presunzione di innocenza”. Ancora una volta la Corte parla di effetto umiliante per l’imputato, e di presentazione dello stesso come “pericoloso criminale”. 

La collocazione in box o celle è diffusa in tutta Europa. Hanno sollevato un certo numero di critiche i “docks” installati a partire dal 2000 in molte aule giudiziarie dell’Inghilterra e del Galles. Tali “docks” in alcuni tribunali sono posti all’interno di cavità scavate nel muro, separati dall’aula da una striscia di vetro. In  altri sono delle strutture di legno e vetro poste al centro dell’aula.

Dock in un’aula di tribunale inglese

Anche in Spagna gli imputati sono sottoposti a strumenti di coercizione pesanti, come le manette, applicate senza un’adeguata valutazione del rischio.

Imputato in manette, posto dentro un box di vetro in un’aula di un tribunale spagnolo

Le immagini degli imputati in gabbia, in manette o ammanettati e in gabbia vengono diffuse nei canali televisivi, sui giornali, sui social network. Questo avviene in un quadro mediatico con una forte tendenza “colpevolista”, con dei media che tendono a presentare le ipotesi investigative alla stregua di verità già accertate.

In Italia invece i box di vetro sono un’eccezione. Di norma vi sono appunto i “gabbiotti”, considerati dalla Corte in contrasto con l’art. 3 della CEDU.  

Al tema delle modalità con cui gli imputati assistono alle udienze si affiancano la questione del trattamento a cui sono sottoposti indagati e imputati in attesa dell’udienza, un’attesa spesso consumata in manette dentro una cella adiacente all’aula dell’udienza, oltre che la questione delle modalità con cui vengono trasferiti da un luogo all’altro del tribunale stesso. Spostamenti che di norma avvengono in manette – i cosiddetti “ferri”. La totalità dei difensori intervistati ha espresso forti riserve rispetto alla reale esigenza di ricorrere a questo strumento allorché si è scortati da agenti, in luoghi da cui la fuga è quanto meno inverosimile. Nessuno degli intervistati, peraltro, serbava memoria o aveva conoscenza di tentativi di fuga attuati prima o nel corso dell’udienza. 

I temi sollevati non sono di certo sollevati qui per la prima volta.  In un documento pubblicato dalle Camere penali di Milano15)Scaricabile a questo link: https://www.camerepenali.it/cat/7881/lestetica_della_giustizia,_le_gabbie_e_lipocrisia.html nel 2016, gli avvocati meneghini chiedono la rimozione delle celle dalle aule del Palazzo di giustizia nonché l’abolizione della prassi secondo cui gli imputati vengono tradotti in aula con le manette ai polsi. Il documento cita un episodio significativo dello spazio che i “gabbiotti” occupano nell’immaginario degli operatori legali, e del significato che vi viene associato. In occasione del processo Ruby – in cui era imputato l’ex presidente del consiglio Silvio Berlusconi – il presidente del tribunale dispose in effetti la copertura mediante teli bianchi delle celle dell’aula, così mettendole ancora più in evidenza. 

Il trattamento descritto mette in discussione molti principi affermati dalla più alta normativa: la dignità della persona sottoposta a procedimento penale, la presunzione di innocenza, il diritto a un processo equo, il diritto a un’assistenza legale effettiva. Le torsioni a tali principi sono peraltro enfatizzate dall’esposizione mediatica degli imputati, che li pone davanti a una platea estremamente vasta. Il processo avviene, com’è noto, in un luogo pubblico. Le udienze, di norma, sono aperte al pubblico e ai giornalisti, che in molti casi vi assistono  muniti di videocamera. Le immagini degli imputati in gabbia, in manette o ammanettati e in gabbia vengono diffuse nei canali televisivi, sui giornali, sui social network. Questo avviene in un quadro mediatico con una forte tendenza “colpevolista”, con dei media che tendono a presentare le ipotesi investigative alla stregua di verità già accertate. Ciò mette ancora più in crisi il principio della presunzione di innocenza. 

La diffusione di immagini di indagati o imputati sottoposti a strumenti di coercizione spesso avviene in contrasto con la normativa vigente. Ciò riguarda principalmente il momento dell’arresto o della traduzione da un posto all’altro. L’art. 114 del c.p.p., in effetti, afferma che “è vietata la pubblicazione dell’immagine di persona privata  della  libertà personale ripresa mentre la stessa si  trova  sottoposta all’uso di manette ai polsi ovvero ad  altro  mezzo di coercizione fisica, salvo che la persona vi consenta”. Ora, capita che le immagini  siano fornite dalle autorità stesse. Il Legislatore europeo, con la direttiva 2016/343, ha cercato di delineare norme per il rafforzamento della presunzione di innocenza relativamente alla diffusione di questo tipo di immagini. Gli Stati, si legge nel considerando 19, “dovrebbero adottare le misure necessarie per garantire che, nel fornire informazioni ai media, le autorità pubbliche non presentino gli indagati o imputati come colpevoli, fino a quando la loro colpevolezza non sia stata legalmente provata”

Alla luce del quadro delineato, si impone, tanto nel quadro italiano quanto più in generale in quello europeo, una decisa azione di contrasto alla collocazione automatica degli imputati in gabbie, box o simili. Così come si rende opportuna una modifica delle modalità con cui gli imputati attendono di comparire davanti al giudice o vengono trasferiti da un luogo all’altro del tribunale. È necessario perseguire la strada indicata dalla normativa europea e dalla Corte Edu, garantendo maggiormente la dignità della persona sottoposta a procedimento penale, il diritto a un processo equo e la presunzione di innocenza.

References

References
1 Si veda, sul tema, specie della rappresentazione, il documento “The Dock and Physical Restraints : the presumption of innocence put to the test by appearances at trial”, consultabile al link seguente: https://www.ejtn.eu/Documents/Themis%202012/THEMIS%202012%20BUCHAREST%20DOCUMENT/Written_paper_France%206.pdf
2 Sul tema si veda l’interessante articolo del New York Times, corredato da numerose e significative immagini: https://www.nytimes.com/2013/11/19/world/europe/courtroom-cages-remain-common-despite-criticism.html
3 Arrêté du 18 août 2016 portant approbation de la politique ministérielle de défense et de sécurité NOR : JUST1624217A, consultabile al seguente indirizzo: http://www.textes.justice.gouv.fr/art_pix/JUST1624217A.pdf
4 https://juridique.defenseurdesdroits.fr/doc_num.php?explnum_id=17462
5 In Italia il provvedimento è stato ottimamente commentato da  Nicola Canestrini. Cf. il suo  La detenzione in gabbie metalliche durante l’udienza è lesiva dei diritti fondamentali dell’imputato, in Giurisprudenza Penale Web, 2018, 4, cosultabile al link seguente: https://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2018/04/Canestrinii_gp_2018_4.pdf Per l’interesse suscitato dalla questione vedi ad esempio il risalto dato da Fair Trials. https://www.fairtrials.org/news/glass-boxes-courtrooms-violate-presumption-innocence-finds-french-ombudsperson
6  Cf. 9 Cour de cassation, Chambre criminelle, 15 mai 1985, 84-95.752, citata nel provvedimento del Défenseur des droits
7 Cf. il report sull’Italia del progetto “Inside police Custody”, dell’associazione Antigone
8 Cf. https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX%3A32016L0343
9 Vedi Khodorkovskiy e Lebedev c. Russia, 25 luglio 2013, ricorsi 11082/06 e 13772/05
10  Vedi Yaroslav Belousov v. Russia, ricorsi 2653/13 e 60980/14, sentenza 4 ottobre 2016
11 Cf. il commento di N. Canestrini citato sopra
12 Traduzione di Canestrini
13 Vedi ancora il commento di Canestrini
14 Svinarenko and Slyadnev v. Russia [GC] – 32541/08 and 43441/08, consultabile al seguente link: https://hudoc.exec.coe.int/ENG#{%22EXECIdentifier%22:[%22004-14144%22]}
15 Scaricabile a questo link: https://www.camerepenali.it/cat/7881/lestetica_della_giustizia,_le_gabbie_e_lipocrisia.html