XVII rapporto sulle condizioni di detenzione

Una morte evitabile. Il processo, le motivazioni, il ruolo dei medici penitenziari nella sentenza sulla morte di Alfredo Liotta

Una morte evitabile. Il processo, le motivazioni, il ruolo dei medici penitenziari nella sentenza sulla morte di Alfredo Liotta

Una morte evitabile. Il processo, le motivazioni, il ruolo dei medici penitenziari nella sentenza sulla morte di Alfredo Liotta

1024 538 XVII rapporto sulle condizioni di detenzione

Simona Filippi

Una morte evitabile. Il processo, le motivazioni, il ruolo dei medici penitenziari nella sentenza sulla morte di Alfredo Liotta.

Il Giudice, nelle motivazioni della sentenza, ribadisce la legittimazione alla costituzione di parte civile di Antigone anche evidenziando il “concreto operato” nei confronti dei prossimi congiunti.

Il 31 dicembre 2020, il Giudice del Tribunale di Siracusa, Dott.ssa Federica Piccione, ha depositato le motivazioni della sentenza che ricostruiscono la responsabilità penale di cinque medici penitenziari per il decesso di Alfredo Liotta.

È doveroso ribadire che trattasi di sentenza di primo grado e che pertanto la responsabilità penale dei condannati non può dirsi definitiva – anche se i fatti di reato sono prossimi alla prescrizione, e pertanto soltanto una rinuncia a questo meccanismo potrebbe portare alla definizione di un secondo grado di giudizio.
È altrettanto doveroso evidenziare che il processo si è celebrato per nove imputati, tutti medici penitenziari ad eccezione del perito medico nominato dalla Corte di Appello di Catania, e che quattro di loro sono stati assolti “per non aver commesso il fatto”.
Tengo particolarmente a dedicare lo scritto del rapporto annuale di Antigone a questo processo per più motivi: per i familiari di Alfredo, prima fra tutti la moglie Patrizia, e per il grande impegno tenuto dall’associazione in tutti questi anni fin dal mese di giugno 2013, quando è stato depositato l’esposto, concretizzatosi in molti aspetti, dal prezioso lavoro delle volontarie, il medico Susanna Zecca e la psicologa Lucia Giordano, sino alla costituzione di parte civile nel processo. Il Giudice, nelle motivazioni della sentenza, ribadisce la legittimazione alla costituzione di parte civile di Antigone anche evidenziando il “concreto operato” nei confronti dei prossimi congiunti i quali avevano deciso di presentare denuncia “proprio grazie all’intermediazione dell’Associazione che li aveva sostenuti durante la fase procedimentale delle indagini.”

La morte di Alfredo è stata determinata dallo stato di “cacchesia” ossia dal progressivo deterioramento di tutti gli organi, anche di quello cardiaco.

La ragione clinica della morte di Alfredo Liotta

Il 26 luglio del 2012 alle 21.40 circa, il detenuto M.D.P., che svolgeva la mansione di piantone per Alfredo, si accorge che lo stesso aveva lo sguardo fisso nel vuoto, per questo avvisa il medico di turno il quale, alle ore 21.50, ne accerta il decesso.
La morte di Alfredo è stata determinata dallo stato di “cacchesia” ossia dal progressivo deterioramento di tutti gli organi, anche di quello cardiaco,derivante dal fatto che il tessuto muscolare era stato sostituito da tessuto fibroso a causa della scarsa nutrizione.
Questo elemento è stato accertato in maniera certa nel corso del dibattimento in quanto tutti i consulenti, sia dell’accusa che della difesa, hanno convenuto sul fatto che il progressivo decadimento delle condizioni fisiche del paziente, determinato dalla mancata nutrizione, sia stata la causa principale della morte di Alfredo.
Alfredo è morto perché nelle ultime settimane di vita non è più riuscito a nutrirsi prima del cibo e infine, durante gli ultimi giorni, anche dei liquidi.
Il piantone, sentito quale testimone nel processo, ha ricordato che Alfredo non si alzava neanche per andare a lavarsi e che era lui a pulirlo “con l’acqua, con la spugna”, ha ricordato che Alfredo “abbaiava” sempre per il dolore. (Testimonianza resa da M.D.P. in data 02.07.2019)
Anche la moglie ha ricordato le condizioni in cui ha trovato il marito in uno degli ultimi colloqui: “l’ho visto con la sedia a rotelle […] era pelle e ossa perché lui di fisico, me lo ricordo, era un settanta chili… […] Quindi bello e robusto era. Quindi, nel momento in cui me lo vedo venire e portare con la sedia a rotelle, poi con mio figlio abbiamo guardato nei pantaloni, che abbiamo ristretto i pantaloni, ho visto che le gambe ce le aveva quanto il mio braccio, dico era nascosto dal pantalone largo e poi aveva questo viso pallido, bianco, gli occhi gialli, le orecchie cadenti bianchissime, faceva un brutto odore.” (Testimonianza resa da Patrizia Savoca in data 25.06.2019)
La moglie ha incontrato l’ultima volta Alfredo il 18 luglio 2012, otto giorni prima della morte.
Il diario clinico attesta il quotidiano inesorabile decadimento, fisico e psichico, del detenuto, con riferimenti frequenti ad un suo presunto atteggiamento di strumentalizzazione:
2 luglio 2012: “viene portato in barella perché riferisce malessere generale e di non riuscire a mantenere posizione eretta”; sempre il 2 luglio 2012: “Si visita a letto perché a suo dire non riesce ad alzarsi”;
4 luglio 2012: “Si visita il detenuto in cella, su richiesta dell’infermiera, poiché apparentemente non in grado di recarsi in infermeria. Il detenuto si presenta sdraiato a letto, poco curato nell’aspetto e nella persona, maleodorante, riferisce di non alimentarsi in modo appropriato”;
9 luglio 2012: “Soggetto che non si alimenta da diversi giorni”; sempre il 9 luglio 2012: “Riferisce di non riuscire ad alimentarsi, ma beve l’acqua, e di non mantenere la stazione eretta”; sempre il 9 luglio 2012: “Soggetto che non si alimenta da diversi giorni e non riesce a mantenere la stazione eretta”;
13 luglio 2012: “Scarsamente collaborante e poco disponibile al colloquio. Eloquio stentato, tono flebile e a tratti contenuto sconnesso. Riferisce di non alimentarsi non avendo sensazione di fame […] riferisce di non sapere perché non si alimenta”;
18 luglio 2012: “Non collaborante. Il piantone riferisce che non si alimenta”;
19 luglio 2012: “Rifiuta di praticare soluzione fisiologica”;
20 luglio 2012: “Rifiuta controllo e di praticare flebo”;
21 luglio 2012: “Si visita in cella il detenuto che presenta alvo diarroico da ieri dopo aver praticato peretta evacuativa per stipsi ostinata. […] Il detenuto riferisce astenia marcata e parla con voce flebile. Non si alimenta e non riesce a mantenere la stazione eretta. Lo si invita a praticare flebo ma non appare disponibile”;
23 luglio 2012: “Lamenta bruciore anale. Alla visita l’ano è sporco di feci”;
25 luglio 2012: “Si visita in cella il detenuto che presenta abbondante rettorragia per la presenza di noduli emorroidari ma non accetta di sottoporsi a terapia medica. Il detenuto non si alimenta non assume liquidi a sufficienza e rifiuta qualsiasi terapia. […] Condizioni cliniche scadenti ad evoluzione progressiva”;
26 luglio 2012: “Il sottoscritto […] viene notiziato che il il detenuto Liotta Alfredo non rispondeva agli stimoli del piantone, con cui aveva parlato fino a pochi minuti fa. Recatomi urgentemente in sezione, trovo il detenuto in sezione, supino sul letto, senza segni vitali. All”ispezione non si notano segni efferenti di violenza. Decesso per presunte cause naturali.

Il dibattimento ha permesso di ricostruire che Alfredo non voleva morire, anzi, poco prima di perdere del tutto la lucidità aveva anche accettato di farsi inserire una flebo di soluzione fisiologica.

Sciopero della fame o anoressia?

Il dibattimento ha permesso di ricostruire in maniera chiara e dettagliata che Alfredo non aveva smesso di nutrirsi per uno sciopero della fame ma a causa della sindrome anoressica di cui era portatore oramai da diverso tempo, e che ha determinato la mancata nutrizione, l’ipotonia e l’ipotrofia muscolare sino a causarne l’incapacità di intendere e di volere nella manifestazione del rifiuto della terapia sia orale che parenterale.
Il medico legale che aveva effettuato l’autopsia sul cadavere e al quale era stato chiesto di ricostruire le cause della morte per individuare eventuali responsabilità, aveva invece stabilito che, a partire dal 19 luglio 2012, Alfredo aveva iniziato uno sciopero della fame “con rifiuto dell’assunzione di liquidi, sia per via orale che per fleboclisi, che di qualunque altra terapia” e che tale astensione aveva provocato un collasso cardiocircolatorio acuto. Per questo, concludeva il medico, non si poteva configurare alcuna responsabilità in capo al personale medico.
Era il 31 dicembre 2012.
Finalmente, il dibattimento ha permesso di ricostruire che, a partire dalla metà del mese di luglio 2012, Alfredo non era più consapevole e lucido rispetto all’esigenza di alimentarsi come fonte di sopravvivenza e che questo meccanismo non si è instaurato per una scelta consapevole di protesta tramite lo strumento dello sciopero della fame ma si è instaurato quale conseguenza della patologia anoressica e del significativo abbattimento della pressione arteriosa.
Il 18 luglio, Alfredo aveva una pressione pari a 100/60 e il 21 luglio i valori scendevano a 85/65. Aveva in atto una rettoragia.
I valori pressori così alterati unitamente alla mancata alimentazione e idratazione hanno reso Alfredo incapace di determinarsi in maniera consapevole. Il dibattimento ha permesso di ricostruire che Alfredo non voleva morire, anzi, poco prima di perdere del tutto la lucidità aveva anche accettato di farsi inserire una flebo di soluzione fisiologica.
Alfredo non ha mai detto: “Lasciatemi morire, voglio morire”; Alfredo diceva una cosa molto differente: di “non alimentarsi in modo appropriato” (8 luglio 2012), di “non riuscire ad alimentarsi” (9 luglio 2012), di “non alimentarsi non avendo sensazione di fame” (13 luglio 2012), di “non sapere perché non si alimenta” (16 luglio 2012).
Anche la moglie ha ricordato che il marito a colloquio le diceva che “non riusciva a mangiare” e che in carcere non lo curavano:no, qua non c’è assolutamente niente, aiutami tu, fai qualcosa fuori tu”, “mi chiedevano quanti figlio ho, come mi chiamo, dico io sto male, perché mi chiedono queste cose e non provvedono che io sto male”.
La moglie ha ricordato che chiedeva ad Alfredo se mangiava o se lo stavano curando e lui “mi ha detto di no, dice fai qualcosa tu fuori. Quindi, dico, dammi il tempo, resisti, l’abbiamo supplicato con i miei figli, lui piangeva, piangeva perché diceva che io non ho più forze, non ce la faccio più e poi ci sono stati attimi dove era lucido e poi non era lucido, perché stava tutto il tempo a lamentarsi e piangeva dei dolori che aveva addosso.”
Durante l’ultimo colloquio, Patrizia ha provato anche a fargli bere un po’ di latte di mandorla: “mi sono fatta dare un po’ di latte di mandorla da un detenuto e con mio figlio dico: vieni apri la bocca, ti imbocco io, dico, ti aiuto io. Lui aveva paura, dico, non ce la faccio, non ce la faccio. Dico ingoia un pochino, ingoia, perché se tu non bevi lo sai come vai a finire. Dice: ma non sono io, mi diceva, non sono io che non voglio, non posso, mi diceva.”
Dunque, a pochi giorni dalla morte, il 16 luglio, in uno stato di depauperamento oramai protratto da troppo tempo, Alfredo riferisce al medico che lo visita di non sapere la ragione per cui non si nutriva.
Proprio a partire da questo momento, i medici avrebbero dovuto prendere atto che il paziente non era più consapevole delle sue azioni e avrebbero dovuto attivarsi per garantire il mantenimento delle funzioni vitali.
In questo momento infatti risulta dal diario clinico che Alfredo era entrato in una condizione psichica che gli impediva di auto-determinarsi consapevolmente in ordine al rifiuto delle cure.
Alfredo non si è astenuto dall’assunzione del cibo e poi anche dei liquidi in maniera cosciente e lucida ma in quanto affetto da una forma importante di anoressia, e l’astensione del cibo ha provocato l’insorgenza di uno stato di incoscienza assimilabile allo stato di infermità mentale, pertanto doveva prevalere l’istanza solidaristica di protezione della vita.
Viceversa, ovviamente quando il detenuto decide volontariamente di protrarre il digiuno, accettando anche il rischio di morire, il sopravvenuto stato di incoscienza non può giustificare l’intervento medico in quanto opera il limite fondamentale della libertà terapeutica del soggetto che implica anche la libertà di lasciarsi morire.

I medici non hanno eseguito neanche un esame obiettivo né fatto diagnosi.

Le omissioni dei medici

La data del 16 luglio 2012 è stata dunque individuata dal Giudice come momento a partire dal quale i medici, a fronte della incapacità di autodeterminarsi del paziente, si sarebbero dovuti attivare per evitare che il progressivo deterioramento fisico già in atto degenerasse in maniera irreversibile.
Le diverse attività, anche le più elementari, che i medici non hanno invece posto in essere ma che avrebbero dovuto fare vengono ben evidenziate nella sentenza: i sanitari non hanno sottoposto Alfredo a esami di laboratorio per verificare il funzionamento degli organi vitali e per accertare quale fosse l’equilibrio idroelettrolitico dell’organismo, non hanno accertato quale era la funzionalità degli organi vitali, in quale stato essi si trovavano e le cause della progressiva ipotensione al fine di attivare le terapie così come non hanno accertato le cause psicologiche e psichiatriche del rifiuto del cibo.
I medici non hanno eseguito neanche un esame obiettivo né fatto diagnosi. I cinque medici si sono limitati a visitare Alfredo nella sua cella e a segnare giorno per giorno il degrado delle sue condizioni nonostante non soltanto il decadimento fisico fosse evidente e nonostante, elemento altrettanto rilevante, nel diario clinico vi fossero comunque importanti elementi clinici che avrebbero dovuto ulteriormente allarmarli: il 2 luglio 2012, viene chiesta visita psichiatrica in quanto il paziente “non si alimenta correttamente”; 9 luglio 2012, viene chiesto il trasferimento presso un CDT e lo psichiatra che lo visita evidenzia “tono dell’umore deflesso” e giunge alla conclusione clinica di “sindrome anoressica”; 10 luglio 2012: viene nuovamente ribadita la necessità di un trasferimento presso un CDT dell’amministrazione; 13 luglio 2012, un medico che lo visita parla espressamente di “stato sub confusionale”.
A partire proprio dal 13 luglio, nessun medico dei cinque che lo visiteranno si attiva per mantenere stabile il quadro clinico anche in presenza dei presupposti per un intervento coattivo, anche se Alfredo oramai non si alimentava da giorni e aveva interrotto anche l’assunzione di liquidi: “ciò che si rimprovera ai sanitari, a partire dal 13.7.2012, è l’abbandono del Liotta sia sotto il profilo diagnostico […] sia sotto quello terapeutico, atteso che tutti i sanitari succedutisi sino al decesso non avevano fatto altro che registrare acriticamente lo stato di fatto, senza rispondere adeguatamente ai campanelli di allarme di un aggravamento della situazione in corso.
Il dibattimento ha permesso di accertare che il tempestivo intervento dei sanitari avrebbe posto un argine alla degenerazione progressiva e avrebbe certamente ritardato l’evento morte consentendo il riequilibrio dei valori mediante l’assunzione di liquidi e nutrienti.

La vicenda di Alfredo Liotta, nel suo atroce epilogo, attesta con forza la necessità di continuare a porre sempre lo sguardo alle modalità con cui le persone detenute vengono curate.

Considerazioni finali

Vale sicuramente la pena concludere questa ricostruzione tornando alla parte iniziale della sentenza, ove il Giudice inizia la ricostruzione delle responsabilità degli imputati dall’analisi della posizione di garanzia ricoperta dai medici penitenziari (“1. Posizione di garanzia dei medici della struttura carceraria”) richiamando gli articoli 11 della Legge penitenziaria e 18 del Regolamento di esecuzione.
I fatti accertati in questa lunga vicenda giudiziaria dimostrano infatti la necessità di continuare a ribadire con forza la piena titolarità del diritto alla salute della persona privata della libertà.
Conosciamo bene il senso e le ragioni politiche e sociali della riforma con cui nel 2008 sono state finalmente attribuite la cura della persona detenuta al Servizio sanitario nazionale ma la vicenda di Alfredo Liotta, nel suo atroce epilogo, attesta con forza la necessità di continuare a porre sempre lo sguardo alle modalità con cui le persone detenute vengono curate.

Queste le parole utilizzate dal consulente medico della Procura nel corso del dibattimento: “chiunque dei medici presta la propria prestazione sanitaria consapevole che riveste la figura di garanzia nei confronti del malato, qui nel carcere è ancora esasperata questa figura perché il detenuto non può liberamente fare qualsiasi cosa che vuole, cioè è limitato a quello che sono le possibilità offerte che si dà. Quindi ognuno prescrive la responsabilità eventualmente di non fare delle scelte conseguenti alle valutazioni cliniche che fa”.