XVIII rapporto sulle condizioni di detenzione

Casa di lavoro e la colonia agricola

Casa di lavoro e la colonia agricola

Casa di lavoro e la colonia agricola

1024 576 XVIII rapporto sulle condizioni di detenzione

La casa di lavoro e la colonia agricola

Oltre alle case circondariali e alle case di reclusione, la legge prevede l’esistenza di case di lavoro e colonie agricole. Si stratta di istituti nei quali le persone internate eseguono le misure di sicurezza detentive previste al numero 1 comma 1 dell’art. 215 c.p. ovvero, appunto, “l’assegnazione a una colonia agricola o ad una casa di lavoro”. Le due misure si differenziano esclusivamente per il genere di lavoro che dovrebbe caratterizzare la permanenza nell’istituto, se di natura agricola oppure industriale o artigianale.
Fino al 31 marzo 2015 le carceri italiane ospitavano internati anche in esecuzione delle misure di sicurezza del ricovero in una casa di cura e custodia e in un ospedale psichiatrico giudiziario. Da quella data, gli internati per misure di sicurezza detentive psichiatriche dovrebbero trovarsi solo nelle Rems.
Il sistema delle misure di sicurezza fu inserito dal guardasigilli fascista Alfredo Rocco, come egli stesso spiega nella relazione al codice penale del 1930, per “apprestare più adeguati mezzi legislativi di lotta contro la delinquenza, aumentata specialmente nel periodo postbellico in conseguenza dei profondi rivolgimenti psicologici e morali, economici, sociali e politici, prodottisi negli individui e nella collettività in conseguenza della grande guerra vittoriosa”. In particolare, “i mezzi puramente repressivi e propriamente penali si erano rivelati insufficienti a combattere particolarmente i gravi e preoccupanti fenomeni della delinquenza abituale, della delinquenza minorile e della delinquenza degli infermi di mente pericolosi. Per rimediare a questa insufficienza il nuovo codice penale ha non solo rinvigorito il sistema delle pene principali ed accessorie, ma ha altresì introdotto il sistema delle misure di sicurezza”.
Il riferimento alla delinquenza abituale è quello che qui ci riguarda. L’art. 216 c.p. assegna a una colonia agricola o a una casa di lavoro sostanzialmente coloro che sono stati giudicati essere delinquenti abituali, professionali o per tendenza (essendo gli altri casi desueti o quasi inesistenti). A differenza delle misure di sicurezza detentive psichiatriche, che vengono disposte al posto della pena per gli incapaci di intendere e di volere, questi periodi di detenzione si aggiungono invece alla pena già scontata.

Prima del 2014 le misure di sicurezza erano indeterminate nella loro durata massima, essendo prorogabili fino a quando si valutasse la permanenza della pericolosità sociale del soggetto

Se prima del 2014 le misure di sicurezza erano indeterminate nella loro durata massima, essendo prorogabili fino a quando si valutasse la permanenza della pericolosità sociale del soggetto, la legge sul superamento degli Opg ha disposto che non possano eccedere il tempo edittale massimo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso. La Cassazione, con sentenza n. 41230 del 13 giugno 2019, ha chiarito che in caso di misura applicata per dichiarazione di abitualità nel reato va considerato il massimo edittale previsto per il più grave dei reati per cui la persona è stata condannata.
È difficile non vedere nelle misure di sicurezza della casa di lavoro e della colonia agricola una semplice duplicazione della pena detentiva, tanto dal punto di vista teorico che concreto. Per quanto riguarda il primo, ciò accade paradossalmente ancor più oggi che è caduta la sola autentica differenza con la pena, ovvero l’indeterminatezza dovuta alla presunta impossibilità, secondo la filosofia che sottende alle misure di sicurezza, di prevedere quando cesserà la pericolosità sociale. Spostandoci sul piano concreto, le case di lavoro sono in tutto simili a sezioni carcerarie ordinarie. Come in queste ultime, il lavoro tende a mancare. Tra l’altro, la riforma dell’o.p. dell’ottobre 2018 ha cancellato il vecchio comma 3 dell’art. 20, secondo il quale il lavoro era “obbligatorio per i condannati e per i sottoposti alle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa di lavoro”.
Anche Rocco, nella già citata relazione, si arrampica sugli specchi nel difendere “la diversità profonda tra pena e misura di sicurezza”. Oggi l’internamento in casa di lavoro o in colonia agricola, presentando solamente un contenuto di tipo afflittivo, equivale a una duplicazione della pena, in violazione del principio del ne bis in idem e già censurato dalla Cedu nella sentenza M. c. Germania del 17 dicembre 2009.

Altri elementi di sovrapposizione tra pena e misura di sicurezza detentiva li ha indicati di recente la Corte Costituzionale. Con la sentenza n. 83 del 13 aprile 2017 si è fortunatamente pronunciata a favore dell’esperibilità anche da parte degli internati del risarcimento ex art. 35-ter o.p. per chi abbia subito trattamenti inumani o degradanti. E con la sentenza n. 197 del 21 ottobre 2021 ha confermato la costituzionalità dell’applicazione anche agli internati del 41-bis, purché le restrizioni previste consentano di lavorare (la Cassazione aveva sollevato questione di legittimità sottolineando tra l’altro come le limitazioni del regime non permetterebbero di dimostrare alcuna evoluzione personale, andando inevitabilmente incontro a ulteriori proroghe della misura). Alla fine del 2021 erano 4 gli internati sottoposti al 41-bis, tutti nel carcere di Tolmezzo.
Al 28 febbraio 2022, erano 280 gli internati nelle carceri italiane, lo 0,5% del totale dei presenti. Di questi, 61 erano stranieri, il 21,8% del totale degli internati, una percentuale significativamente inferiore a quella generale (gli stranieri costituiscono il 31,3% della popolazione detenuta complessiva), a segno dell’inferiore abitualità nel reato e pericolosità sociale della componente straniera.
Negli ultimi trent’anni circa, la presenza di internati vede due fasi quantitative distinte. Prima del 2015, l’oscillazione varia approssimativamente tra le 1.000 e le 1.500 unità, con percentuali che vanno dall’1,8% al 4%, anche a causa dell’oscillare dei numeri complessivi della detenzione.

Dopo lo spartiacque del 2015, invece, si rimane sempre al di sotto dei 350 internati, con percentuali di 0,5% o 0,6%. La spiegazione va ovviamente cercata nella chiusura degli Opg avvenuta in via definitiva il 31 marzo 2015, data in cui si trovavano ancora 805 persone nei sei Opg italiani (erano 993 a fine 2014, 1.051 a fine 2013, 1.094 a fine 2012). Si badi che essi non ospitavano solo internati, ma anche detenuti cui era sopraggiunta una patologia psichiatrica durante l’esecuzione della pena e che dunque sono rientrati in carcere.
Oggi gli internati censiti dal Dap dovrebbero essere solo quelli assegnati a casa di lavoro o a colonia agricola. Le informazioni circa la loro dislocazione non sono del tutto chiare. La sola casa di lavoro interamente qualificata come tale, sebbene abbia annessa una sezione circondariale, è l’istituto maschile di Vasto, in Abruzzo, con una capienza ufficiale di 197 posti e che al 28 febbraio scorso recludeva 108 persone, di cui circa 70 internati. La casa di reclusione di Isili, in Sardegna, ha quella che sembra essere la sola sezione di colonia agricola in Italia. Nella sua ultima relazione al Parlamento risalente allo scorso anno, il Garante nazionale censisce altre cinque sezioni ufficiali di case di lavoro nelle case di reclusione maschili di Castelfranco Emilia e Aversa, in quelle femminili di Venezia e Trani, nelle case circondariali di Barcellona Pozzo di Gotto e Tolmezzo (nonostante l’art. 62 o.p. preveda che possano essere istituite sezioni di casa di lavoro o colonia agricola solo presso le case di reclusione). A queste va senz’altro aggiunta la casa di lavoro piemontese, tradizionalmente nel carcere di Biella e trasferita o in via di trasferimento in quello di Alba.
Ma nelle statistiche Dap, sempre al 28 febbraio, risultano anche 3 internati in Calabria, 7 nel Lazio, 9 in Lombardia, 4 in Toscana. Si tratta probabilmente di persone destinatarie di una misura di sicurezza psichiatrica, che dovrebbero trovarsi in una Rems e che attendono illegittimamente in carcere che si liberi un posto per loro in una di queste strutture. Verosimilmente anche nelle altre regioni un certo numero di internati si trova in questa posizione (ancora secondo l’ultima relazione del Garante nazionale, 65 persone erano in carcere in attesa di un posto in Rems).

Un giro per le varie sezioni mostra l’illegittimità della misura di sicurezza detentiva, mera duplicazione della pena, o quantomeno la sua totale mancanza di contenuto.

Un giro per le varie sezioni mostra l’illegittimità della misura di sicurezza detentiva, mera duplicazione della pena, o quantomeno la sua totale mancanza di contenuto. La vita degli internati non si differenzia sensibilmente da quella dei detenuti e i dati Dap su capienze e presenze negli istituti neanche distinguono tra le due categorie. Altissima è la percentuale di disagio psichico. La misura di sicurezza viene spesso prorogata, anche a fronte di una bassa pericolosità sociale, a causa della mancanza di reti sociali esterne che possano prendere in carico la persona. Nel carcere di Vasto si assiste al paradosso di una casa di lavoro dove molti internati sono dichiarati formalmente inabili a lavorare per problemi psichiatrici. A fronte di 108 persone presenti, 22 sono le psicosi, 38 i gravi disturbi della personalità, 25 le depressioni, 5 i disturbi bipolari. Le tre serre sono state chiuse per mancanza di manodopera. La sartoria, moderna e attrezzata, viene usata pochissimo. Gli internati faticano ad andare in licenza per mancanza dell’accompagnamento che viene loro prescritto. Anche a Castelfranco Emilia la popolazione internata presenta le stesse fragilità, sebbene nel tempo si sia riusciti a valorizzare maggiormente gli spazi per le lavorazioni interne. A Isili le patologie psichiatriche degli internati rendono difficile la gestione della colonia agricola e la convivenza con i detenuti. A parte il lavoro non c’è molto da fare neanche in termini di opportunità future di reinserimento. A Trani e a Venezia non sembra esserci una differenziazione tra il regime delle donne internate e detenute. Barcellona Pozzo di Gotto, dopo la chiusura della casa di lavoro di Favignana, ha fatto molta fatica a caratterizzarsi come tale, vista la sola possibilità di attività lavorative domestiche. A Biella la sezione casa di lavoro, in tutto una sezione carceraria ordinaria, era una sorta di ‘cronicario’ di persone fragili e con varie difficoltà di salute. Una situazione in parte analoga abbiamo trovato ad Aversa, dove nel corso della visita, è stata rilevata la presenza di persone internate fisicamente inabili, aiutate da altre persone internate.
Le misure di sicurezza detentive scontano un’evidente insufficienza gestionale concreta. Ma esse si scontrano anche con un’infondatezza teorica che affonda le radici in una concezione illiberale del diritto penale. È davvero arrivato il momento di ripensare la loro presenza nell’ordinamento italiano.