Salute mentale

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1024 576 XVIII rapporto sulle condizioni di detenzione

di Michele Miravalle

Pazze galere. Esiste una “questione psichiatrica” nel sistema dell’esecuzione penale?

Era la primavera del 2017 quando gli ultimi due “internati per vizio di mente” uscirono dall’(ex) Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto.
Quel giorno si chiuse definitivamente la storia manicomiale italiana. Gli Ospedali psichiatrici, sia quelli civili, dismessi con la l. 180/1978, che quelli giudiziari, superati dalla l. 81/2014, diventavano così “solo” oggetto di studio per gli storici.
Sul piano formale e normativo, l’Italia si confermava dunque Paese affezionato alla sua tradizione di de-istituzionalizzazione della salute mentale. Il sistema-Italia, dalla “liberazione” dei manicomi civili ad opera di Franco Basaglia e dei suoi allievi e colleghi, ha preferito strumenti e interventi sul paziente-cittadino, che possano prescindere dall’internamento in luoghi chiusi, definiti dalla sociologia, istituzioni totali.
La tanto storica quanto non procrastinabile chiusura dei luoghi dell’internamento non ha tuttavia sciolto tutte le questioni sul tappeto e, in alcuni casi, le ha acuite, come nel contesto dell’esecuzione penale, laddove la “questione psichiatrica” incontra la “questione criminale”.
In questo articolo ricostruiamo come, nel biennio 2021-2022, sia successi fatti significativi riguardanti i pazienti psichiatrici autori di reato, sia dentro al carcere che fuori dal carcere, in quei luoghi dove si eseguono le misure di sicurezze (le Rems, ma anche le comunità psichiatriche territoriali che accolgono pazienti provenienti dal circuito penale).

Le carceri-manicomio. Il nodo delle Articolazioni per la tutela della salute mentale.

Proprio in corrispondenza del faticoso percorso di chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, gli Osservatori di Antigone nel corso delle loro visite di monitoraggio degli istituti penitenziari, ad ogni latitudine, hanno iniziato a registrare un crescente tensione sul punto salute mentale. Frasi come “qui sta diventando un manicomio”, “e lui come le gestiamo?”, “questa persona non dovrebbe stare qui, in carcere”, “segnaliamo ogni giorno allo psichiatra, ma l’unica cosa che fa è aumentare le terapie” sono scampoli di dialogo ricorrenti, pronunciate, con diverse sfumature e intensità, da molti degli operatori incontrati durante le visite.
Sono frasi tutte riconducibili a quell’eterno conflitto tra “bisogno di cura” ed “esigenze di sicurezza” che il carcere è chiamato a bilanciare. L’ abbraccio mortale” tra Giustizia e Salute. Tra diritti che confliggono e faticano a convivere. Non sono questioni nate oggi, si tratta di nodi riconducibili alle radici stesse della questione criminale: l’inquadramento teorico e la “gestione” operativa della mens rea è infatti l’essenza delle scienze criminologiche.
Una questione che, ancora oggi, rimane da governare.
Da quelle frasi registrate durante le visite, si evince un dubbio cruciale: se gli Opg venivano definitivi “manicomi-carcere”, la loro chiusura ha implicato che gli istituti penitenziari si siano trasformati in carceri-manicomio?

Si tratta di un tema con radici antiche, già nel 1876 ad Aversa, nella casa penale per invalidi ospitata nel convento cinquecentesco di San Francesco da Paola, nasceva la prima “sezione per maniaci”, che poteva ospitare fino a diciannove persone. Vi erano rinchiusi i “delinquenti impazziti, che rappresentano scene di terrore e che portano scompiglio”, così li descrive Filippo Saporito, psichiatra e storico direttore del manicomio di Aversa. Erano pazzi e criminali allo stesso tempo, troppo pazzi per stare in un carcere, troppo criminali per un manicomio civile.

Tradizionalmente infatti, nel gergo criminal-penitenziario la macro-categoria di persone con patologia psichiatrica autori di reato si divide in due gruppi, i “folli-rei” e i “rei-folli”.
Per “folli-rei” si intendono le persone giudicate incapaci di intendere e volere, ma socialmente pericolose e dunque il gruppo di persone per cui sono state pensati gli Opg prima e le Residenze per le Misure di sicurezza (Rems), oggi.

Per “rei-folli” si intende invece quella categoria onnicomprensiva di persone giudicate capaci di intendere di volere, riconosciute colpevoli di un reato e per questo condannate a pena detentiva, per i quali la patologia psichica si aggrava o insorge successivamente all’ingresso in carcere, tanto da renderne incompatibile la condizione di salute con lo stato detentivo (c.d. infermità psichica sopravvenuta ex art. 148 c.p.) oppure da rendere necessario un periodo di “osservazione” per valutare la compatibilità con il carcere (ex art. 111.5 reg. esecuzione ord. pen.). Fino al superamento degli Opg, tali “gruppi” erano distinti sul piano normativo, ma indistinti sul piano delle risposte di cura/controllo. Per tutti, si aprivano le porte dell’Opg. A partire dalle l. 9/2012 e, poi, con la l. 81/2014 anche le risposte sanzionatorie e trattamentali cambiano: per i “rei-folli” devono essere trovati gli strumenti di cura esclusivamente all’interno del sistema penitenziario, essendo negata loro, per legge, qualsiasi “alternativa” (la detenzione domiciliare, il ricovero in un luogo di cura, un affidamento “terapeutico”).
È dunque in quel carcere, psicopatogeno e “fabbrica di handicap” (Gallo e Ruggiero, 1989; Ronco, 2018; Sterchele, 2021), che si deve trovare al proprio interno luoghi e strumenti adatti a curare e controllare, allo stesso tempo, il reo-folle. Si sono così organizzate, per via amministrativa e regolamentare, senza precisa copertura normativa, le Articolazioni per la tutela della salute mentale (c.d. Atsm), sezioni a prevalente gestione sanitaria, concentrate in pochi istituti, almeno uno per regione, con un compito quasi impossibile: curare il disagio psichico in un luogo di espiazione di pena. Un ossimoro, che ha prodotto sistematiche violazioni dei diritti individuali e gravi problemi gestionali, più volte sottolineati dalla rete dei Garanti delle persone private della libertà, dalle associazione per la tutela dei diritti umani e dal Comitato Europea per la Prevenzione della Torture durante le visite ispettive svolte nel nostro Paese.

Le sezioni Atsm oggi attive in Italia sono concentrate in 32 istituti penitenziari e sono in tutto 34 (29 maschili, 5 femminili). Vi sono ospitati 261 uomini e 21 donne, dunque meno di 300 persone in totale.

Le sezioni Atsm oggi attive in Italia sono concentrate in 32 istituti penitenziari e sono in tutto 34 (29 maschili, 5 femminili). Vi sono ospitati 261 uomini e 21 donne, dunque meno di 300 persone in totale.

Un numero ridottissimo di persone detenute, circa lo 0,5% della popolazione detenuta che va però approfondito e studiato con precisione.
Evidenziando due punti.

Il primo, è legato a dove viene “trattata” la salute mentale nelle carceri italiane: come monitorato da Antigone nel 2021, la percentuale media di persone detenute “in terapia psichiatrica” (che assumono cioè terapia prescritte dal medico, in maniera continuativa e non eccezionale, né sporadica) è infatti del 40,4%. In altre parole, mediamente 4 detenuti su 10, fanno regolare uso di psicofarmaci a fronte, occorre supporre, di un qualche disagio psichico, magari non grave, ma che comunque suggerisce un trattamento farmacologico.
Occorrerebbe un’analisi epidemiologica più precisa, ma certamente quei numeri fotografano una tendenza evidente a tutti coloro che varcano le soglie di una sezione detentiva: la psichiatrizzazione degli spazi detentivi.
Stiamo dunque parlando di circa 25 mila persone, a fronte delle “sole” 300 ospitate nelle Atsm.

Visti questi numeri, è evidente che le Atsm non sono i soli luoghi dove le persone con patologia mentale, anzi, le Atsm costituiscono un microcosmo dove vengono destinati i casi più gravi (non solo sul piano strettamente medico-sanitario). C’è insomma un universo, ben più consistente, di persone con patologie psichiche anche gravi che vivono “altrove”, spesso in sezioni “comuni” delle carceri italiane.

Si tratta di un dato non per forza negativo, anzi, che può temperare lo “stigma” che accompagna la persona con patologia psichica, purchè sia garantito il diritto alla cura e all’assistenza anche in quei luoghi “altri”, diversi dalle Atsm.

Il secondo punto, strettamente legato alle Atsm riguarda il loro funzionamento e la capacità di essere luoghi di cura e non di sistematica lesione della dignità umana.
E’ infatti proprio visitando una delle Articolazioni italiane, tra le più grandi d’Italia, quella del carcere di Torino, l’ormai celebre reparto Sestante, che Antigone ha scoperto situazioni allarmanti e indegne. Oggi quella sezione è chiusa ed in ristrutturazione, la Procura di Torino ha aperto un fascicolo d’indagine per verificare la commissione di reati da parte di operatori penitenziari e sanitari. Ma quel caso lascia aperto il nodo di come “regolare” le Articolazioni sia sul piano normativo e regolamentare che sul piano operativo.
Occorre individuare, al più presto, modelli di funzionamento omogenei, aprire un confronto tra operatori della salute mentale e operatori penitenziari per condividere, affinché le Articolazioni diventino davvero luoghi dove si possa promuovere la cura e non solo la neutralizzazione delle persone.

Questa è infatti la netta sensazione che ogni osservatore di Antigone ha quando entra in molte delle Atsm italiane. Se, fortunatamente, non sono stati rilevati casi o segnali di contenzione meccanica del paziente, Antigone è testimone di presenza di “spazi” e singole celle utilizzate per svolgere la contenzione “ambientale”. Anche laddove questi spazi non sono previsti, occorre fare chiarezza sull’utilizzo di metodi di contenzione chimico-farmacologica basata su massiccio uso di psicofarmaci, a soli fini di “neutralizzazione” del paziente psichiatrico in carcere.

Il tema della gestione delle Atsm, con la chiusura degli Opg, è diventato molto rilevante. la legge 81/2014 ha infatti reso impossibile “scaricare” sulle Rems i casi più problematici sul piano psichiatrico. Fino ad allora, l’’istituzione penitenziaria aveva infatti la possibilità di avere un’istituzione di scarico verso cui indirizzare tutti i casi problematici e di difficile gestione.

Si tratta di un meccanismo che gli studiosi delle istituzioni totali conoscono bene. Il carcere avrebbe continuato ad affollare le Rems, come prima faceva degli Opg, usando l’etichetta di malattia mentale, come “scusa” per delegare ad altri la gestione di quell’individuo. L’unico modo di rompere questo meccanismo, era distinguere la risposta sanzionatoria, precludendo, per legge, la possibilità di ricorrere al ricovero in Rems. Come avevamo già raccontato nel XVI Rapporto, proprio su questo punto, era intervenuta la Corte Costituzionale (sent. n. 99/2019). Investita della questione dalla Corte di Cassazione (Cassazione Penale, Sez. I, Ordinanza n. 13382, 22 marzo 2018) sulla compatibilità costituzionale della differenza tra grave patologia fisica e psichica, impedendo ai malati psichici di usufruire delle possibilità date ai malati fisici e, principalmente, del rinvio della pena ex art. 147 c.p. e della detenzione domiciliare ex art. 47, terzo comma, 1-ter (la c.d detenzione domiciliare “in deroga” o “umanitaria”). Dopo quella la decisione della Corte, se durante la carcerazione si manifesta una grave malattia di tipo psichico, il giudice potrà disporre che il detenuto venga curato fuori dal carcere, potendo concedere, anche quando la pena residua è superiore a quattro anni, la misura alternativa della detenzione domiciliare “umanitaria”, o “in deroga”, così come già accade per le gravi malattie di tipo fisico. In particolare, il giudice dovrà valutare se la malattia psichica sopravvenuta sia compatibile con la permanenza in carcere del detenuto oppure richieda il suo trasferimento in luoghi esterni (abitazione o luoghi pubblici di cura, assistenza o accoglienza) con modalità che garantiscano la salute, ma anche la sicurezza. Questa valutazione dovrà quindi tener conto di vari elementi: il quadro clinico del detenuto, la sua pericolosità, le sue condizioni sociali e familiari, le strutture e i servizi di cura offerti dal carcere, le esigenze di tutela degli altri detenuti e di tutto il personale che opera nell’istituto penitenziario, la necessità di salvaguardare la sicurezza collettiva.

Che la questione psichiatrica all’interno delle carcere sia diventata terreno di scontro tra visioni e prospettive inconciliabili, lo dimostra il fatto che nella riforma dell’Ordinamento penitenziario approvata nel 2018, a cavallo tra due legislature furono stralciate le proposte (già approvate in prima lettura) riguardanti la “necessità di potenziare l’assistenza psichiatrica negli istituti di pena” di cui all’art. 1 dello stesso articolo. Tali norme, secondo la ratio della legge delega originaria, avrebbero dovuto essere coordinate con le novità previste da altri punti della stessa delega (in particolare ex art. 1 comma 16 lett. c) e d) che prevedeva la “revisione della disciplina delle misure di sicurezza personali”), per addivenire ad un intervento integrale in tema di salute mentale ed esecuzione penale, che interessasse certamente l’Ordinamento penitenziario, ma anche il codice penale e il codice di procedura penale. Con precisione chirurgica invece, in seconda lettura, sono stati espunti tutti i riferimenti alla tutela della salute mentale nel contesto penitenziario. Dunque l’armonizzazione dell’ordinamento penitenziario rispetto alle novità in tema di misure di sicurezza rimane ancora un processo incompiuto. Eppure dagli operatori penitenziari e sanitari proviene un deciso allarme legato all’aumento dei casi di disagio psichico in carcere, spesso trattato attraverso un uso massiccio di terapie farmacologiche. Certamente l’intervento normativo non avrebbe risolto il problema, ma avrebbe influito sulla diffusione di pratiche virtuose. Proposte come l’introduzione di una specifica tipologia di affidamento in prova per i soggetti con disagio psichico (simile a quella prevista per le persone tossicodipendenti) o la definizione di un chiaro perimetro normativo che regoli le sezioni penitenziarie specializzate nel trattamento del disagio psichico, chiarendo, ad esempio, la competenza circa le modalità di accesso e i rapporti con i servizi di salute mentale esterni sono rimaste lettera morta. Quello di come evitare l’effetto carcere-manicomio rimane forse il più complicato dei nodi “conseguenti” alla riforma.

Le misure di sicurezza psichiatriche: le Rems e la libertà vigilata.

Era atteso che che il 2022 si sarebbe aperto con almeno tre decisioni importanti in tema di “folli-rei”: due della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, il caso Sy e il caso Ciotta, e una della Corte Costituzionale, a seguito dell’Ordinanza 131/2021 su impulso della questione sollevata dal giudice di Tivoli. Ad oggi, possiamo commentare due delle tre decisioni, che analizziamo insieme, nonostante le differenze nel merito.
Il tema è “fare un tagliando” al percorso di superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, capendo ciò che ha funzionato, ed è molto, e ciò che invece va corretto. È stato un percorso tortuoso, iniziato con la riforma della sanità penitenziaria nel 1999 e passato attraverso la vergogna pubblica delle immagini di degrado e abbandono girate nei sei Opg italiani dalla Commissione d’inchiesta del Senato nel 2012. quel percorso ha portato alla creazione di una trentina di residenze sanitarie (le Rems), capillarmente diffuse sul territorio e con un limite massimo di venti posti fissato per legge.
E’ la prima volta che nel sistema dell’esecuzione penale italiano viene introdotto il “numero chiuso”. Un principio tanto banale, quanto rivoluzionario: il numero di ospiti in Rems non può mai derogare la capienza massima e dunque le Rems non possono essere “sovraffollate”. Ciò ha prodotto una “lista di attesa” di persone che attendono di essere ricoverate in Rems. I casi più critici, sono coloro che trascorrono questa attesa in carcere, come nel caso di Giacomo Sy, che ha scelto la strada del ricorso Cedu.
Dunque, il focus della Corte, al netto del caso singolo, era proprio questo meccanismo: è in linea con le disposizioni Cedu il trattenimento di una persona in carcere, quando esiste una valutazione peritale, confermata dal giudice, che ne ordina la collocazione in luogo di cura?
La Corte EDU non prende posizione sulla scelta normativa del “numero chiuso”, ma valuta il merito della questione, dichiarando che occorre garantire il livello di cure adeguato alle condizioni psico-fisiche, a prescindere dal luogo in cui si svolge la privazione della libertà.
La Corte Costituzionale, interrogata dal giudice di Tivoli, si è pronunciata su una questione simile,. Riconoscendo, dopo articolata istruttoria, la costituzionalità della legge 81/2014 e dunque, giudicando positivamente, il percorso di superamento dell’OPG. Vengono tuttavia indicati punti di frizione con i principi costituzionali, la necessità di dare esecuzione tempestiva alle misure giudiziarie chiedendo di affrontare il problema della lista di attesa demandando analisi di dettaglio e soluzioni ai diversi attori istituzionali e non escludendo, anzi auspicando, un intervento normativo.
La Corte invoca infatti una complessiva ed urgente riforma di sistema, che assicuri al ricovero in Rems “un’adeguata base legislativa”, garantendo al contempo «il potenziamento e la realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di Rems sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni, nel quadro di un complessivo e altrettanto urgente potenziamento delle strutture sul territorio in grado di garantire interventi alternativi adeguati rispetto alle necessità di cura e a quelle, altrettanto imprescindibili, di tutela della collettività”.
Un passaggio critico delle motivazioni della Corte riguarda la natura della misura di sicurezza detentiva che unirebbe insieme privazione della libertà e coercizione alle cure. Una lettura che suscita molte perplessità in quanto per il malato mentale autore di reato non dovrebbero valere le leggi n. 180/1978 e n. 219/2017, ma ancor più perché sul piano medico psichiatrico non vi può essere cura senza il consenso, la partecipazione, la responsabilità e la prospettiva della libertà. Se dovesse persistere una tale lettura della misura di sicurezza si aprirebbe un interrogativo sul senso di una gestione sanitaria delle REMS.

Alla luce di queste decisione, del giudice di Strasburgo e di quello Costituzionale, proviamo a sintetizzare alcuni nodi aperti e irrisolti:

La dimensione delle Rems. L’anomalia lombarda.

Il 27,4% (151 persone, di cui 133 uomini e 18 donne) della popolazione sottoposta a misura di sicurezza detentiva in Rems è concentrata in un solo luogo, il sistema poli-modulare di Rems di Castiglione delle Stiviere, in Lombardia.

Dunque più di una persona internata su quattro “risiede” nell’unica Rems lombarda. Per i critici, è questa una grave stortura del sistema ed un “tradimento” dello spirito della riforma. Non è questa la sede per un’attenta disamina sui punti critici e di forza del c.d. “modello Castiglione”, né sulle ragioni politiche, amministrative e sanitarie che hanno portato Castiglione delle Stiviere ad essere, nel bene e nel male, un “modello”.

L’anomalia di Castiglione ha radici antiche, è stato infatti il primo tra gli Ospedali psichiatrici giudiziari ad essere “sanitarizzato” e dunque gestito dalla sanità regionale lombarda in via esclusiva, vedendo impiegati nei suoi padiglioni professionalità esclusivamente socio-sanitarie. In questo senso, la Lombardia aveva precorso una delle finalità più ambiziose della riforma: la sanitarizzazione dei luoghi dell’esecuzione delle misure di sicurezza, rinunciando del tutto a ricorrere al supporto della polizia penitenziaria e delle forze dell’ordine nella gestione ordinaria della sicurezza interna e perimetrale della struttura. Mentre in tutti gli altri Opg italiani (con la sola, parziale e problematica, eccezione di Reggio Emilia, dove, a partire dagli anni Duemila alcuni reparti furono sanitarizzati) i poliziotti penitenziari operavano nei reparti di degenza, esattamente come in qualsiasi carcere, in Lombardia no.

In Lombardia dunque il passaggio da Opg a Rems non ha prodotto in quel luogo sostanziali trasformazioni, se non di denominazione. Eppure la stessa Regione Lombardia, chiamata dal Governo fin dal 2012 a redigere piani di riforma degli Opg, aveva previsto di soddisfare il requisito della “territorialità” delle misure di sicurezza, affiancando a Castiglione delle Stiviere (nei progetti originali, erano qui previsti 240 posti, pari alla capienza “storica” di quel luogo), altre tre strutture (nelle province di Como, Brescia e Milano) per un totale di ulteriori 40 posti. Quel piano originario fu poi ridimensionato e oggi Castiglione delle Stiviere è l’unico luogo in Lombardia dove eseguire la misura di sicurezza del ricovero in Rems.

In un momento storico in cui, causa pandemia, si sta riaprendo la riflessione su quali siano i modelli che meglio interpretano il diritto alla salute costituzionalmente garantito, occorre aprire una riflessione franca, ragionata e non ideologica se questa “anomalia lombarda” debba continuare o se si debbano promuovere modelli diversi. Perché più di un quarto di pazienti sottoposti a ricovero in Rems debbono concentrarsi in un solo luogo? Non vi sono evidenze di carattere socio-demografico che giustifichino il fatto che in Lombardia vi sia il triplo dei ricoverati rispetto anche alle altre regioni più popolose d’Italia (43 in Campania, 46 in Sicilia, 60 nel Lazio).

Le posizioni giuridiche delle persone internate

Tra i dati quantitativi più problematici, vi è quello relativo alle posizioni giuridiche dei ricoverati. La suddivisione che qui interessa è tra ricoveri provvisori (art. 206 c.p.) e definitivi (art. 222 c.p.). Nel primo gruppo rientrano coloro che sono ancora sottoposti a procedimento penale, i c.d. definitivi sono invece coloro che sono già stati prosciolti perché non imputabili, ma sottoposti a misura di sicurezza perché socialmente pericolosi.

Una differenza rilevante dal nostro punto di vista, è che la competenza a decidere sulle misure provvisorie è dei giudici di cognizione (nella quasi totalità dei casi, i giudici per le indagini preliminari), sulle misure definitive (revoche, proroghe, trasformazione delle misure) decide invece la magistratura di sorveglianza. I numeri ci dicono che i due gruppi sono quantitativamente ormai omogenei e che la tendenza degli ultimi anni è quella di un lieve ma costante incremento delle misure provvisorie e di una stabilità di quelle definitive. Se, con una certa approssimazione giuridica, paragoniamo le misure di sicurezza provvisoria alle condanne non definitive e alle misure cautelari in carcere, scopriamo una rilevante differenza: le persone in Rems in attesa di una sentenza definitiva sono sensibilmente di più di quelle in carcere (quasi il 50% in Rems, intorno al 30% in carcere, dato che, comunque, è tra i più alti d’Europa). Possono essere molte le spiegazioni del dato, su tutte il fatto che quando viene decisa una misura provvisoria ci troviamo tendenzialmente più vicini alla commissione del reato ed è dunque possibile che la situazione psicopatologica della persona sia ancora in fase acuta. Va considerato che la persona in misura provvisoria verosimilmente è meno conosciuta dai servizi psichiatrici territoriali – salvo che non abbia una pregressa presa in carico per altri motivi diversi dalla commissione del reato. Sono questi alcuni dei fattori che rendono più difficile l’individuazione di un Programma terapeutico individuale (il c.d. PTRI) e di soluzioni “alternative” alla Rems. Il giudice, in attesa di definire il processo e di ricevere i risultati delle perizie e delle consulenze tecniche psichiatriche, sarà dunque più propenso a optare per una misura più custodiale come il ricovero in Rems.

I numeri sulla posizione giuridica evidenziano la difficoltà di trasformare davvero il ricovero in Rems in extrema ratio tra le misure a disposizione del giudice, soprattutto nella fase precedente alla conclusione del giudizio. Evidentemente i correttivi immaginati dalla riforma – tra cui l’aggravio motivazione chiesto al giudice che deve esplicitare perché non è sufficiente nessuna delle altre misure previste alternative al ricovero in Rems – non sono sufficienti a “correggere” le storture di un sistema Rems-centrico. Dalle osservazioni svolte durante la ricerca, si intuisce che il ricovero in Rems avviene con maggior frequenza se l’autorità giudiziaria non entra in contatto (oppure entra in contatto tardivamnete) con i servizi di salute mentale territoriali. Laddove questo contatto avviene nelle ore immediatamente successive l’iscrizione della notizia del reato, vi è minor ricorso al ricovero provvisorio in Rems, in favore di altre soluzioni. Dove invece tale dialogo tarda, il ricovero in Rems pare invece la soluzione più ricorrente (e “rassicurante” per rispondere alle istanze di sicurezza sociale). Occorre considerare che il paziente “provvisorio” in Rems è tendenzialmente di più difficile gestione, non tanto sul piano sanitario, ma da un punto di vista di “organizzazione” del servizio: finchè non arriva la decisione definitiva sull’imputabilità e la pericolosità sociale, i servizi territoriali non si attivano per costruire il Piano terapeutico riabilitativo individualizzato (il c.d. PTRI) e dunque non si iniziano neanche ad “immaginare” interventi alternativi al ricovero in Rems

Le liste d’attesa: come non sovraffollare le Rems.

Come detto, quella delle “liste d’attesa”, cioè di quelle persone che pur destinatarie di un ordine di ricovero in Rems non vi accedono, per mancanza di posti disponibili, è forse tra le più intricate questione aperte dalla riforma, sia sul piano giuridico che politico. È forse questo il terreno di maggiore attrito tra cultura giuridica e cultura sanitaria. “In attesa di posto in Rems” era Valerio Guerrieri, morto suicida nel febbraio 2017 nella sua cella del carcere di Regina Coeli a Roma, nonostante il giudice avesse ordinato la misura di sicurezza. L’idea che un ordine legittimamente posto dall’autorità non venga eseguito, o meglio non possa essere eseguito per mancanza di posti, è una novità assoluta nel campo dell’esecuzione penale. Nel contesto italiano, nessun istituto penitenziario si rifiuterebbe di ospitare una persona destinataria di un ordine di carcerazione perché è stata raggiunta la capienza massima. Nel microcosmo Rems queste “impossibilità” rappresentate dalla direzione sanitaria all’autorità giudiziaria sono invece prassi quotidiana, fin dai primi giorni di apertura delle nuove Residenze, motivo per il quale nessuna Rems ospita – né ha mai ospitato – un numero superiore di persone rispetto ai posti disponibili. Insomma, il sistema delle misure di sicurezza non conosce sovraffollamento, fenomeno invece endemico del contesto penitenziario italiano.

Sul tema è tuttavia difficile avere una posizione minimamente oggettiva, basata su dati realistici e verificati. Le “liste d’attesa” sono infatti gestite a livello regionale, senza criteri di priorità condivisi e senza una banale condivisione dei numeri. Anche nella Relazione inviata alla Corte Costituzionale nell’ambito dell’istruttoria prodromica alla sentenza n. 22/2022 i dati comunicati dal Ministero della Salute e quelli provenienti dal Ministero della Giustizia differivano.

Senza una raccolta dati centralizzata e credibile, ogni presa di posizione sulla questione delle liste d’attesa non potrà che essere ideologica e frutto della percezione individuale. Al netto di questa osservazione, l’allungarsi delle liste d’attesa pone due questioni: sull’ “accuratezza” con cui vengono ordinati i ricoveri in Rems e su dove collocare le persone “in attesa”. Se infatti si analizzano le posizioni giuridiche delle persone in lista d’attesa, si nota come la maggior parte siano “provvisori” e dunque in attesa della conclusione del giudizio a loro carico. Una delle ipotesi che andrebbe approfondita è se esiste, tra la magistratura di cognizione, una minor consapevolezza dell’efficacia delle misure “alternative” alla Rems, capaci comunque di rispondere alle esigenze di sicurezza.

Il “fine” della misura di sicurezza per pazienti psichiatrici. Durata del ricovero e percorsi di uscita.

Ci sono ulteriori due dati sui quali focalizzare l’attenzione: l’aumento della durata del ricovero in Rems e le “destinazioni” dei pazienti una volta usciti dalla Rems.Entrambi i dati, pur con rilevanti differenze territoriali, fotografano una tendenza nazionale che dovrebbe preoccupare operatori e policy makers.

Al 30 novembre 2020 la durata media del ricovero in Rems fotografata dal sistema Smop è di 236 giorni, tre anni fa, nel 2017 era di 206 giorni. Una crescita costante. Da un’altra rilevazione svolta dal Garante nazionale delle persone private della libertà, la durata media del ricovero risulta ancora più lunga, nel 2017 era di 365 giorni, nel 2021 sarebbe di 703. Significa che una persona rimane internata in Rems per oltre due anni. Tra i capisaldi della legge 81/2014 vi era la necessaria transitorietà della Rems, questi dati iniziano a metterla in discussione. In prospettiva, tornerà a riproporsi la questione degli “ergastoli-bianchi”, oggi vietati dalla l. 81/2014, che causavano continue proroghe della misura di sicurezza detentiva? Le Rems, nelle intenzioni del legislatore e delle buone pratiche, devono invece diventare “tappe” di un percorso progressivo (la c.d. progressività terapeutica). L’aumento della durata dei ricoveri fotografa un rischio di trasformazione delle Rems in cronicari, dove la durata del ricovero non dipende affatto dalle condizioni di salute, bensì dalla lentezza della “presa in carico” dei servizi territoriali. Pur con evidenti differenze tra territorio, al novembre 2020 i pazienti in Rems senza un Piano terapeutico riabilitativo individualizzato (il c.d. Ptri) erano il 60% del totale dei ricoverati. Senza il Ptri, non si riescono a trovare soluzioni altre diverse dalla Rems, con la conseguenza di allungare le liste d’attesa e “negare” il posto in Rems a persone ancora nella fase acuta della loro patologia. Legato al tema della durata dei ricoveri, vi è la questione del “dopo-Rems”. Cosa succede quando termina la fase acuta del ricovero e il paziente è pronto a lasciare la struttura.

I dati ci dicono che il “ritorno in libertà” è un’ipotesi sostanzialmente mai presa in considerazione dai giudici: dei 172 pazienti dimessi dalle Rems nel corso del 2020 (fino al 30 novembre) solo uno è andato agli arresti domiciliari, mentre per il 72% dei pazienti dimessi (154) vi è la trasformazione della misura in libertà vigilata o l’applicazione della licenza finale di esperimento. Alla necessità di una riflessione approfondita sulla libertà vigilata, quale architrave del sistema delle misure di sicurezza.

Bibliografia

E. GALLO e V. RUGGIERO (1989), Il carcere immateriale. La detenzione come fabbrica di handicap, Torino e , più recentemente

D. RONCO (2018), Cura sotto controllo, Roma

L. STERCHELE (2021), Il carcere invisibile. Etnografia dei saperi medici e psichiatrici nell’arcipelago carcerario, Milano