Tortura

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1024 576 XVIII rapporto sulle condizioni di detenzione

Susanna Marietti

Il carcere e la tortura: Antigone nei procedimenti penali

Sono tre i procedimenti penali che coinvolgono Antigone nei quali già è stato chiesto o disposto il rinvio a giudizio per il reato di tortura. Il più avanzato è quello relativo al carcere di San Gimignano, dove – per i cinque imputati che hanno deciso di non avvalersi del giudizio con rito abbreviato, non essendo la nostra associazione coinvolta nel procedimento già concluso contro gli altri dieci – si è in piena fase dibattimentale presso il Tribunale di Siena e dove Antigone si è costituita parte civile. Vi sono poi i grandi procedimenti relativi agli istituti di Torino e Santa Maria Capua Vetere, che vedono un elevato numero di parti coinvolte e dove Antigone è persona offesa.

Nel procedimento che riguarda presunti episodi avvenuti nel carcere di Monza e nel quale Antigone è costituita parte civile, la parte relativa all’ipotesi di tortura è stata archiviata nonostante l’opposizione dell’associazione e si procede adesso per altri reati.

Vi è poi l’esposto presentato da Antigone il 7 aprile 2020 in relazione a quanto raccontato all’associazione da alcuni parenti di persone detenute nel carcere di Melfi, che denunciavano violenze nei confronti dei loro cari come ritorsione per la protesta del 9 marzo precedente che ha seguito lo scoppio dell’emergenza sanitaria. Secondo la ricostruzione di Antigone, nella notte tra il 16 e il 17 marzo alcuni detenuti sarebbe stati denudati e percossi anche con l’uso di manganelli, nonché insultati e messi in cella di isolamento. Nelle dichiarazioni che sarebbero stati costretti a firmare si sosteneva di essere caduti accidentalmente. In molti sarebbero poi stati sottoposti a lunghi trasferimenti nei quali non sarebbe stato loro permesso di usare un bagno. Il 3 maggio 2021 la Procura ha avanzato richiesta di archiviazione, contro la quale Antigone ha presentato opposizione. Si tratta adesso di vedere se l’opposizione verrà accolta o se il procedimento finirà su un binario morto.

Un altro esposto presentato da Antigone il 20 aprile 2020 ha riguardato il carcere di Pavia. Il quadro degli eventi è simile a quello di Melfi: familiari di persone detenute denunciano violente ritorsioni nonché trasferimenti arbitrari a seguito della protesta del marzo precedente. Alcuni detenuti sarebbero stati denudati, lasciati senza cibo, picchiati e insultati, prima di essere trasferiti senza poter avvisare i parenti né portare con sé i propri effetti personali. L’indagine era stata archiviata dal giudice di pace ma i legali di alcuni detenuti che avevano denunciato gli eventi si erano opposti all’archiviazione. Nel maggio 2021 il Gip di Pavia ha accolto l’opposizione e disposto nuove indagini per approfondire l’accaduto.

In fase di indagini preliminari anche gli altri due procedimenti nei quali Antigone ha presentato un esposto per tortura, relativi alle carceri di Palermo Pagliarelli, dove i fatti riguarderebbero le presunte violenze subite da un detenuto nel gennaio 2020 al momento del suo ingresso in istituto, e Milano Opera, dove di nuovo nel marzo 2020 numerosi familiari di persone detenute hanno riferito ad Antigone di gravi abusi che sarebbero stati subiti dai loro cari come ritorsione per le proteste avvenute allo scoppio della pandemia.

Ma entriamo adesso maggiormente nel merito dei primi quattro procedimenti menzionati, per i quali già si evidenzia un’interpretazione del reato di tortura da parte della magistratura inquirente o giudicante.

L’episodio avvenuto nel carcere di San Gimignano, per come riportato dal Tribunale di Siena nel decreto che dispone il giudizio, è il seguente: quindici poliziotti penitenziari, tra cui i cinque imputati in questo procedimento, si riuniscono presso il reparto di isolamento, indossano guanti di lattice e si dirigono verso la cella di M.A. Il detenuto esce dalla cella per recarsi alla doccia e, colto di sorpresa, viene preso per le braccia, spinto brutalmente nel corridoio e colpito con un pugno alla testa. Il decreto che dispone il rinvio a giudizio si sofferma sul fatto che l’uomo perde le ciabatte. Viene poi gettato a terra, circondato per fare schermo alle telecamere, preso a calci e nel contempo minacciato e ingiuriato con frasi come “Perché non te ne torni al tuo paese!” e “Non ti muovere o ti strangolo!”. Agli altri detenuti del reparto viene urlato: “infami, pezzi di merda, vi facciamo vedere chi comanda a San Gimignano!”. M.A. viene alzato da terra e nuovamente spintonato per spingerlo a camminare. Poi viene di nuovo buttato sul pavimento, immobilizzato faccia a terra e gravato del peso di uno dei poliziotti che gli sale col ginocchio sulla schiena. A quel punto gli vengono tolti i pantaloni e viene trascinato in una nuova cella, mentre lo si afferra per la gola e gli si torce un braccio. Una volta in cella continua a essere picchiato con schiaffi e pugni prima di venire abbandonato seminudo senza coperte né materasso almeno per la prima notte.

Questo a tranquillizzare coloro che, temevano un’interpretazione restrittiva delle varie forme plurali presenti nel testo

Tutto si è svolto in un tempo contenuto e continuativo, senza che episodi analoghi si siano ripetuti in più giorni diversi o in momenti distinti del giorno. Questo a tranquillizzare coloro che, al momento della promulgazione della legge che ha introdotto il reato di tortura nel codice penale italiano, temevano un’interpretazione restrittiva delle varie forme plurali presenti nel testo dell’art. 613-bis c.p. riferite all’agire del soggetto – le violenze o minacce gravi e le più condotte, che diventano entrambe essenziali a configurare il reato qualora non si dimostri la crudeltà né il trattamento inumano e degradante – che avrebbe escluso eventi non ripetuti a distanza di tempo. D’altronde già la sentenza della Cassazione n. 37317, risalente a meno di un anno dopo l’introduzione del reato (15 maggio 2018), nel rigettare in sede cautelare i ricorsi di tre uomini accusati di tortura, specifica come per configurare tale reato sia sufficiente l’evento in questione, consistito nell’aver attuato violenze e minacce nei confronti della vittima che si trovava in un’automobile in un episodio non superiore nella ricostruzione difensiva a 57 minuti.

Una successiva sentenza – la n. 50208 dell’11 ottobre 2019, anch’essa riguardante la fase cautelare ed episodi estranei al contesto carcerario – si sofferma sulla locuzione “mediante più condotte” presente nella formulazione dell’art. 613-bis. Si afferma esplicitamente che tale locuzione può essere “relativa non già solo ad una pluralità di ordine temporale con episodi eventualmente reiterati nel tempo, ma anche alla perpetrazione di più contegni violenti nello stesso contesto cronologico”. La Corte apprezza la ricostruzione del Tribunale del riesame che differenzia in questo le “più condotte” dalle “condotte reiterate” degli atti persecutori (art. 612-bis c.p.), che prevedono una riproduzione dei comportamenti in successivi contesti temporali, e sottolinea come una diversa interpretazione lascerebbe prive di tutela molte situazioni, tra cui i fatti della Diaz del luglio 2001 che sono addirittura all’origine di quelle condanne della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che hanno determinato un’accelerazione nell’introdurre il reato di tortura nell’ordinamento italiano.

Alla luce di queste considerazioni si spiega anche l’opposizione di Antigone alla richiesta di archiviazione per la parte riguardante l’ipotesi di tortura in relazione ai presunti eventi che sarebbero accaduti nell’estate 2019 all’interno del carcere di Monza. Nell’agosto di quell’anno Antigone era stata raggiunta dalla telefonata di una persona che denunciava una violenta aggressione subita dal fratello. L’uomo sarebbe stato preso a calci e a pugni nel corridoio della sezione da vari poliziotti penitenziari. In particolare, come si apprende dal decreto che dispone il rinvio a giudizio per altri reati, l’uomo era stato condotto in infermeria poiché da una settimana era in sciopero della fame e della sete. Mentre quattro poliziotti penitenziari lo stavano trasportando su una barella presso quel reparto, uno di loro ha cominciato a colpirlo con pugni e schiaffi al volto e alla testa mentre gli altri tre lo immobilizzavano, per poi tutti farlo cadere sul pavimento provocandogli gravi lesioni. Uno di loro, “con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso e in tempi diversi”, attraverso minacce che poi vengono qualificate come gravi (in un’occasione dicendo alla vittima: “a Monza sai quanti di loro hanno fatto la fine di Cucchi”), lo costringeva a dichiarare il falso per spiegare i traumi sul corpo.

I Pm, nella richiesta di archiviazione che verrà accolta dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Monza, sostengono infondata la notizia di reato relativa all’art. 613-bis c.p., in quanto non sarebbero integrati gli elementi costitutivi del crimine di tortura. Le indagini avrebbero evidenziato come le condotte ascritte agli indagati, affermano i Pm, “configurino un episodio occasionale che non ha cagionato nessuno degli eventi richiesti dal citato articolo e che in ogni caso non è sorretto dall’elemento soggettivo del reato”.

A parte il richiamo all’elemento soggettivo, difficile da comprendere trattandosi del dolo generico (e proprio su questa scelta del legislatore si sono concentrate molte critiche nel dibattito che ha seguito la codificazione del reato), per quanto detto sin qui pare fuori luogo la menzione dell’occasionalità dell’episodio. Sul non costituire l’episodio stesso causa di alcuno tra gli eventi richiesti dal 613-bis (acute sofferenze fisiche, un verificabile trauma psichico, un trattamento inumano e degradante), ci limitiamo a notare come la Cassazione si sia più volte espressa anche in merito a come debba intendersi il verificabile trauma psichico, in tale maniera che rimane il legittimo dubbio se non fosse stato il caso di approfondire in dibattimento la questione, potendosi immaginare come un uomo in custodia, provato dallo sciopero della fame e della sete, fisicamente abusato e più volte minacciato possa ben riportare un simile trauma.

Integra il trauma psichico anche un evento critico, sotto il profilo psicologico, che si presti a rapida risoluzione

Ancora ci soccorre un’interpretazione della Cassazione sui medesimi eventi (le angherie messe in atto da alcuni giovani contro un anziano disabile nel Comune di Manduria) cui si riferiva la già citata sentenza n. 50208 dell’11.10.2019. “In ragione della ratio dell’incriminazione – ravvisabile nella lesione della dignità umana (…)”, si legge nella sentenza n. 47079 dell’8 luglio 2019 (la stessa che poco prima afferma con chiarezza come il trattamento inumano o degradante sia alternativo alle più condotte, sciogliendo così un altro dubbio interpretativo posto nel dibattito pubblico, e come le più condotte che configurano un reato eventualmente abituale possano comunque venire integrate anche solo da due eventi, “e anche in un minimo lasso temporale, come un’ora o alcuni minuti”), per trauma psichico deve intendersi “un evento che, per le sue caratteristiche, risulta ‘non integrabile’ nel sistema psichico pregresso della persona, minacciando di frammentarne la coesione mentale. In tale ottica, integra il trauma psichico anche un evento critico, sotto il profilo psicologico, che si presti a rapida risoluzione”. Quanto alla verificabilità del trauma, che tante preoccupazioni ha destato nel dibattito che ha accompagnato la legge, la Corte è chiara nell’affermare che, potendo essere rilevante anche un trauma temporaneo, non deve considerarsi necessario il riscontro nosografico né quello peritale, ma “la prova dell’evento va ancorata a elementi sintomatici del trauma psicologico, ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato”.

Analogo concetto viene ripetuto dalla Cassazione nella più recente pronuncia n. 32380 del 31 agosto 2021 riferita a un caso di vessazioni ai danni della partner, dove si ribadisce come l’art. 613-bis non preveda che il trauma psichico sia durevole e che esso “deve essere provato nel corso del giudizio e non necessariamente attraverso perizia o altro accertamento tecnico”, ma “l’accertamento può essere ancorato ad elementi sintomatici del turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata”.

Gli altri due procedimenti penali per tortura che coinvolgono Antigone e che si voleva qui brevemente trattare sono entrambi, al momento in cui scriviamo, nella fase dell’udienza preliminare. Si tratta dei procedimenti relativi agli istituti di Torino e Santa Maria Capua Vetere, che vedono un alto numero di parti e di imputazioni.

Per quanto riguarda il primo, gli imputati sono 25 e 13 le persone offese, tra cui 11 persone detenute o ex detenute e due associazioni (Antigone e l’Associazione per la lotta contro le malattie mentali Onlus). Tre degli imputati – il direttore del carcere, il comandante di reparto di polizia penitenziaria e un agente di polizia penitenziaria – hanno optato per il rito abbreviato. Dei 29 capi che compongono la richiesta di rinvio a giudizio, 12 riguardano l’art. 613-bis.

L’atto configura un vero e proprio sistema di gestione penitenziaria fondato sull’uso della violenza e dell’intimidazione. Moltissimi gli episodi riportati. Non sempre è chiara la scelta del Pm su come configurare il reato di tortura in relazione agli eventi esaminati. Dei 12 capi riguardati il 613-bis, in dieci gli elementi della fattispecie richiamati sono sempre gli stessi: le violenze gravi, la crudeltà, le acute sofferenze fisiche, il trattamento inumano e degradante. Nel capo 1 si aggiungono le minacce e il trauma psichico mentre nel capo 8 manca il trattamento inumano e degradante. Nell’episodio riferito in quest’ultimo si riporta come due agenti di polizia penitenziaria, dopo aver condotto in infermeria un detenuto, gli sputassero addosso mentre uno di loro pronunciava la frase “figlio di puttana, ti devi impiccare”, e lo colpissero con violenti pugni al volto a seguito dei quali l’uomo perderà un dente incisivo superiore. Il trattamento inumano e degradante è invece rinvenuto in episodi quali le violenze fisiche con calci e pugni, nonché colpi in faccia con un bastoncino di legno, nei confronti di un detenuto nel giorno del suo ingresso in carcere mentre veniva condotto in sezione. In un altro episodio dove si rinviene un trattamento inumano e degradante, si riportano schiaffi, pugni e calci inferti ancora al momento dell’ingresso in carcere a un detenuto, che poi veniva lasciato a dormire per alcuni giorni sulla lastra di metallo della branda senza materasso, impedendogli inoltre di partecipare all’ora d’aria nonché di andare dal medico. Per quanto riguarda le minacce, che come si è detto compaiono solo in uno dei capi riferiti alla tortura, il Pm sceglie in alcuni casi di aggiungere un ulteriore capo per contestare a parte il reato di violenza privata di cui all’art. 610 c.p., che in alternativa alla violenza prevede appunto la minaccia.

Per quanto riguarda gli eventi avvenuti il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere quali risposta alla protesta del giorno precedente, essi sono tristemente noti per la rilevanza mediatica avuta dalla diffusione delle immagini riprese dalle videocamere interne all’istituto. L’atto di chiusura delle indagini preliminari individua un elenco di 120 indagati e 177 persone offese tra detenuti ed ex detenuti, cui si aggiungono, oltre ad Antigone, il Garante nazionale delle persone private della libertà personale e la Onlus Il Carcere possibile. Il documento, che si compone di 175 pagine, si articola in 85 diversi capi. Tra questi, l’art. 613-bis compare nei capi che vanno dal terzo al diciassettesimo.

Nella recente sentenza (ancora in sede cautelare) n. 8973 del 9 novembre 2021, la Cassazione riassume gli avvenimenti – che qualifica come una ‘mattanza’ – raccontando di “una violenza cieca ai danni di detenuti (…) che veniva esercitata addirittura su uomini immobilizzati, o affetti da patologie ed aiutati negli spostamenti da altri detenuti, e addirittura non deambulanti, e perciò costretti su una sedia a rotelle. Oltre alle violenze, venivano imposte umiliazioni degradanti – far bere l’acqua prelevata dal water, sputi, ecc. -, che inducevano nei detenuti reazioni emotive particolarmente intense, come il pianto, il tremore, lo svenimento, l’incontinenza urinaria”. Nei giorni successivi, quattordici detenuti ritenuti gli ispiratori della protesta sono stati “costretti senza cibo, e, per 5 giorni, senza biancheria da letto e da bagno, senza ricambio di biancheria personale, senza possibilità di fare colloqui con i familiari; tant’è che alcuni detenuti indossavano ancora la maglietta sporca di sangue, e, per il freddo patito di notte, per la mancanza di coperte e di indumenti, erano stati costretti a dormire abbracciati”.

La sentenza citata è rilevante in quanto per la prima volta la Corte di Cassazione si pronuncia sul reato di tortura in un procedimento che riguarda l’applicazione della fattispecie alla pubblica violenza di ufficiali dello Stato su persone in carcere

La sentenza citata è rilevante in quanto per la prima volta la Corte di Cassazione si pronuncia sul reato di tortura in un procedimento che riguarda l’applicazione della fattispecie alla pubblica violenza di ufficiali dello Stato su persone in carcere e dunque legittimamente private della libertà personale. La discutibile configurazione del reato di tortura quale reato comune e non proprio di pubblici ufficiali aveva portato fin qui a pronunce della Corte tutte riguardanti episodi tra privati cittadini.

Richiamando le sentenze da noi sopra citate, la Corte ha ribadito che “il delitto di tortura è stato configurato dal legislatore come reato eventualmente abituale, potendo essere integrato da più condotte violente, gravemente minatorie o crudeli, reiterate nel tempo, oppure da un unico atto lesivo dell’incolumità o della libertà individuale e morale della vittima, che però comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona” e che “la locuzione ‘mediante più condotte’ va riferita non solo ad una pluralità di episodi reiterati nel tempo, ma anche ad una pluralità di contegni violenti tenuti nel medesimo contesto cronologico”. Riferendosi inoltre alla sentenza n. 4755 del 4 febbraio 2020 (anch’essa riferita ai fatti già menzionati avvenuti nel Comune di Manduria), la Corte ha parlato del dolo, specificando che “in tema di tortura, anche quando il reato assuma forma abituale, per l’integrazione dell’elemento soggettivo non è richiesto un dolo unitario, consistente nella rappresentazione e deliberazione iniziali del complesso delle condotte da realizzare, ma è sufficiente la coscienza e volontà, di volta in volta, delle singole condotte”.

Concludiamo qui questo quadro generale dei procedimenti per tortura nei quali Antigone è coinvolta, nonché di alcune interpretazioni che in questi anni hanno fatto luce sulla fattispecie ancora di recente introduzione. Uno strumento normativo, sebbene decisamente perfettibile, che sta dimostrando di avere comunque un’efficacia nel perseguire un crimine di Stato che in passato troppe volte è rimasto impunito.