XVIII rapporto sulle condizioni di detenzione

Vedere. Il ruolo delle immagini nei casi di violenza e tortura

Vedere. Il ruolo delle immagini nei casi di violenza e tortura

Vedere. Il ruolo delle immagini nei casi di violenza e tortura

1024 576 XVIII rapporto sulle condizioni di detenzione

di Valeria Verdolini

Vedere. Il ruolo delle immagini nei casi di violenza e tortura

“Vedere!” questo è il punto essenziale quando si parla di carcere. “Bisogna aver visto”, scriveva Piero Calamandrei. Le sue celebri parole sono state richiamate dalla ministra Marta Cartabia in occasione della visita del 14 luglio 2021 al carcere di Santa Maria Capua Vetere, a seguito della notizia di atti di violenza perpetrati nei confronti dei detenuti da personale della polizia penitenziaria, e della pubblicazione dei relativi filmati. La centralità delle immagini è metafora dell’intero discorso della Ministra della giustizia, che evoca nuovamente le visione parlando di “una fotografia autentica della realtà penitenziaria”.

Sebbene la sollecitazione del costituzionalista e della ministra Cartabia siano entrambe rivolte alle condizioni di detenzione, è significativo richiamarle dopo che per la prima volta, forse, nella storia della Repubblica Italiana, sono emerse intere videoregistrazioni di una vita penitenziaria caratterizzata da pratiche di coercizione fisica da parte di agenti di polizia penitenziaria nei confronti delle persone in custodia dello Stato.

Cosa mostrano quelle immagini? In che modo “avere visto” cambia la relazione col carcere, con la violenza, e con l’esigibilità dei diritti intramurari?

Oltre alle immagini di Santa Maria Capua Vetere, sono state diffuse anche alcune registrazioni di videosorveglianza della Casa Circondariale di Monza, rispetto ad una giornata dell’agosto 2019, che rappresentano anch’esse un episodio di coercizione violenta.

Cosa mostrano quelle immagini? In che modo “avere visto” cambia la relazione col carcere, con la violenza, e con l’esigibilità dei diritti intramurari?
Senza entrare nel merito delle vicende processuali, ancora in corso, questo contributo vorrebbe analizzare proprio le immagini, cosa si vede, come si vede e cosa ci restituiscono le visioni di tali agiti nei confronti delle persone private della libertà.
Zimbardo (2008) nel suo studio sulla violenza in carcere distingue tra “situazione” e “contesto”. Per l’autore una specifica situazione assume una certa autonomia rispetto al contesto culturale più generale, “solo esaminando e comprendendo le cause di quel male saremo forse in grado di modificarlo, di tenerlo a freno, di trasformarlo con decisioni sagge e con un’azione comune innovativa” (Zimbardo, 2008, p. 27) e individua tre aspetti centrali per analizzare i fenomeni: “la Persona”, “la Situazione” e “il Sistema” (P.G. Zimbardo, 2008, p. 473).

Il tentativo sarà quindi quello di analizzare i tre aspetti evidenziati da Zimbardo nelle due videoregistrazioni di sorveglianza prodotte e diffuse nel 2021 riguardanti i fatti avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e nella casa circondariale di Monza.

La registrazione che obbliga a “vedere!” le violenze collettive nel penitenziario è apparsa il 29 giugno 2021 (con nuovi video emersi anche il 6 luglio 2021) e riferisce delle violenze compiute nell’aprile del 2020 dagli agenti di polizia nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta. I carabinieri di Caserta hanno eseguito 52 misure cautelari nei confronti di agenti della polizia penitenziaria e dirigenti carcerari coinvolti e il 9 settembre 2021 si sono chiuse le indagini nei confronti di 120 persone coinvolte nell’inchiesta. Seguendo le categorie di Zimbardo, è quindi da inquadrare la Situazione: I fatti mostrati nel video sono relativi alle azioni intraprese dagli agenti a seguito della rivolta nel “reparto Nilo” del carcere il 5 aprile 2020, dopo la notizia di un caso di positività al coronavirus nella struttura. Sebbene la rivolta terminò la notte stessa, il giorno successivo secondo la Procura alcuni agenti misero in atto perquisizioni punitive e ritorsioni. Le accuse per le persone coinvolte dalle misure cautelari sono a vario titolo di torture pluriaggravate, maltrattamenti pluriaggravati, lesioni personali pluriaggravate, falso in atto pubblico aggravato, calunnia, favoreggiamento personale, frode processuale e depistaggio.

Il video porta la data del 6 aprile 2020, alle ore 18.27, e si svolge nella saletta della socialità della prima sezione. Qui l’attenzione si concentra su Persona, o meglio le persone, dividendo nella descrizione detenuti e personale penitenziario. La stanza ha circa una ventina di detenuti appoggiati al muro, in ginocchio, di spalle, vestiti. Al centro della stanza due agenti in assetto anti-sommossa con scudo, casco, manganello e guanti fanno scorrere in ginocchio un detenuto verso la parete. Circa venti minuti dopo la scena è ripresa dall’angolazione opposta. Gli agenti sono una decina, manganellano i detenuti sulla testa e alle ginocchia, e li colpiscono con ginocchiate allo stomaco. I detenuti non reagiscono ai colpi. La scena successiva, seppur in contemporanea in termini temporali, si svolge nel corridoio destro della prima sezione: ci sono all’incirca una trentina di agenti, con manganelli (alcuni con caschi e scudi, altri no) e sono distribuiti ai lati del corridoio. I detenuti vengono fatti passare e colpiti al passaggio sulla testa e sulle ginocchia, a volte con manganelli, a volte con le mani (con guanti). La registrazione prosegue, mentre i minuti scorrono, con la medesima scena. Il video stacca e si vede un passaggio lungo la tromba delle scale. I detenuti sono colpiti mentre salgono. Ritorna il corridoio, con un minutaggio antecedente, che fa dedurre oltre due ore di pestaggio. Nel corridoio delle percosse, viene colpito anche un detenuto in sedia a rotelle.

Nei due video ulteriori video prodotti e resi pubblici si vede la preparazione della saletta della socialità: è presente un calcio-balilla al centro della stanza, che sarà spostato nelle due ore successive. I detenuti vengono colpiti di nuovo sia con mani che con i manganelli: alle ginocchia, alle reni, e con schiaffoni in testa. L’assenza dell’audio delle registrazioni non restituisce gli scambi, ma le immagini sono quelle di un scena ordinata. I detenuti subiscono compostamente i colpi. Gli agenti non mostrano concitazione in viso (spesso coperto da casco o mascherina) ma l’azione non sembra improvvisata o frutto di un degenerare di eventi o eccesso di conflittualità.
Come emerge dagli atti della procura a commento delle immagini, si può dedurre che:
“Il reale scopo dimostrativo, preventivo e satisfattivo, finalizzato a recuperare il controllo del carcere e appagare presunte aspettative del personale di Polizia Penitenziaria (dalle chat tratte dai dispositivi smartphone, poi sequestrati, emergeva la reale causale, ossia dare il segnale minimo per riprendersi l’istituto e motivare il personale dando un segnale forte), essendosi conseguentemente utilizzato un atto di perquisizione . La perquisizione risultava, di fatto, eseguita senza alcuna intenzione di ricercare strumenti atti all’offesa ovvero altri oggetti non detenibili, ma, per la quasi totalità dei casi, le immagini della videosorveglianza rendevano un realtà caratterizzata dalla consumazione massificata di condotte violente, degradanti ed inumane, contrarie alla dignità ed al pudore delle persone recluse”.

Come ha affermato Horowitz, se guardiamo i gesti nelle azioni degli agenti, “Il momento stesso dell’attacco diventa spesso una questione di eccitamento e addirittura di piacere, in cui torture e mutilazioni potrebbero aver luogo in uno stato d’animo d’ilarità, di «barbara frivolezza»” (Horowitz 2001, p. 114). Al contrario, focalizzando l’attenzione sui detenuti, forse si realizza il primo etimo della tortura per i greci, che veniva chiamata
ἀνάγκη. Ἀναγκαĩος che significa “necessario” o, meglio ancora, “inevitabile”.
Le immagini ben corrispondono alla descrizione del “corridoio verde” fatta da Dostoevskij nella sua “Memorie di una casa di morti”1). Con corridoio verde “si indicava, nel gergo carcerario, il passaggio del detenuto da punire tra le due file di soldati armati di verghe. L’espressione compare nel Dizionario del gergo russo citato nella Postfazione, e come esempio è menzionato appunto Dostoevskij2).”

Simile composizione collettiva e strategica si ritrova anche ne “Il regime carcerario italiano”, di Riccardo Bauer della prima fase repubblicana, in cui si legge: “Si crede forse che nelle carceri italiane il cosiddetto santantonio, cioè la pratica delle busse inflitte da un gruppo di agenti al detenuto impastoiato nelle coperte, sia assolutamente sconosciuto?”3)

Infine, in tempi più recenti, Christian G. De Vito in Camosci e Girachiavi racconta con queste parole le reazioni alle proteste del 1969: “Quando i reclusi cessarono ogni resistenza e scesero dai tetti, dentro San Vittore vennero incolonnati e fatti passare tra due ali di poliziotti e guardie carcerarie che presero a percuoterli con manganelli, calci, pugni, cinghie, perfino catene 4)“ (De Vito, 2009, p. 59).

Tutti i racconti, così come le immagini, riferiscono di una forte passività dei soggetti che subiscono l’azione violenta. Le immagini, infatti, restituiscono una serie di persone inermi, così paralizzate dagli eventi da quasi non avere lo spazio per accusare il dolore fisico ricevuto.

La ritualità dei gesti è organizzata, e richiama i metodi e le forme dell’attacco coercitivo già viste in precedenza. Come se ci fosse una trasmissione di una tecnologia della repressione, di un sapere disciplinare che si accompagna alle forme e strutture del penitenziario. Allo stesso modo, tutti i racconti, così come le immagini, riferiscono di una forte passività dei soggetti che subiscono l’azione violenta. Le scene, infatti, restituiscono una serie di persone inermi, così paralizzate dagli eventi da quasi non avere lo spazio per accusare il dolore fisico ricevuto. Randall Collins sostiene che la dimensione di attacco prevede una collettivizzazione delle emozioni, mentre “​​le vittime sono quasi sempre passive, preda di una paralisi emozionale che preclude loro qualsiasi possibilità di resistenza. Le vittime non oppongono resistenza in quel determinato momento, anche se potrebbero averlo fatto prima, in un’altra situazione, perché sono intrappolati in un’atmosfera emozionale collettiva”.5)

Chauvenet, Rostaing e Orlic (2008) riportano le riflessioni di alcuni agenti nella loro indagine in Francia, che affermano che la rappresaglia sia al contempo un modo per prevenire le violenze future e per punire quelle precedenti. Kauffman (1988), invece, legge il grado di violenza che può verificarsi nelle lezioni impartite ai detenuti dallo staff come una misura non dell’onnipotenza dei supervisori, ma della loro vulnerabilità.

Seguendo un ordine di apparizione, un secondo video è stato trasmesso in esclusiva su Rai 1 il 12 agosto 2021. Si tratta del pestaggio di un detenuto avvenuto nel carcere di Monza, che ha portato al rinvio a giudizio di quattro agenti e una vicecomandante alla fine del mese di luglio 2021, per i fatti avvenuti due anni prima. Le accuse sono di abuso d’ufficio, lesioni aggravate, falso. La voce del cronista annuncia che si svolge nel reparto di infermeria. Il video non ha audio. C’è un detenuto in mutande, su una barella, accompagnato da 4 agenti, tre lo circondano attorno alla barella, ai lati delle braccia e dietro la testa. Il reparto è vuoto, tutti i blindi sono chiusi. Gli agenti indossano guanti di lattice. Lo immobilizzano tenendolo per le braccia. Due si posizionano sul lato destro della barella. Uno torce il braccio destro del detenuto. L’altro schiaccia il petto. Un terzo agente guarda, in piedi. Il quarto agente, sulla sinistra, inizia a colpirlo con degli schiaffi in faccia ripetuti. Il filmato stacca, e riprende dall’altra parte del corridoio. Il detenuto, sempre riverso sulla barella, viene portato nell’ultima cella in fondo al corridoio. Ora gli agenti sono cinque. Il garante nazionale, intervistato durante il servizio, commenta così: “Quella persona viene scaricata, come fosse una cosa è quello che noi diciamo è una “cosificazione”. C’è stato anche un tentativo di coprire ciò che era avvenuto”. E prosegue: “ci sono settori che all’interno del corpo di polizia penitenziaria hanno questo tipo di cultura che va estirpata proprio per il bene del corpo della polizia penitenziaria”. In questo caso il video prodotto non aiuta a comprendere i fattori individuali (chi è la persona vittima del pestaggio? cosa è avvenuto in precedenza? Quali ragioni hanno determinato questo tipo di reazione? Per quel che emerge dall’inchiesta giornalistica, la persona stava protestando in sciopero della fame: è questa la ragione?) né la situazione precedente alle immagini, anche se tuttavia è evidente che ci siano dei motivi che hanno permesso che quel gruppo di pubblici ufficiali esercitasse una forma di coercizione fisica organizzata (le immagini non sono scomposte, le persone non si accavallano nelle azioni, la gestione degli atti non è concitata, gli agenti indossano i guanti prima di esercitare la violenza fisica) in una situazione di vita quotidiana e non a fronte di particolari fattori di fibrillazione del penitenziario. Inoltre, in queste immagini c’è una consapevolezza della presenza della telecamera, la maggior parte delle azioni avviene nel “cono d’ombra” della registrazione. Possiamo intuire la rapidità dei gesti, e la non volontarietà dell’azione (il luogo in cui la persona viene portata non è lo stesso in cui viene “versato” dalla barella) ma anche l’intenzione che i gesti non siano visibili nè tracciabili, a differenza delle immagini dei video di Santa Maria Capua Vetere, in cui -seppur supposte- le telecamere non vengono considerate. L’azione avviene in differenti spazi del penitenziario nel primo caso, con una organizzazione collettiva che non si sottrae alla visione dei livelli apicali. In questo video monzese, invece, il centro dell’azione avviene fuori dall’occhio di chi guarda, il corpo è sottratto alla vista. I gesti presentano delle caratteristiche ricorrenti, come la dimensione collettiva. Randall Collins sostiene, infatti, che: “la tortura sia perpetrata quasi esclusivamente dai gruppi, con la loro tipica dinamica emozionale al centro di questo processo”; il percuotere le stesse parti del corpo, l’uso dei guanti, l’organizzazione e la calma degli agenti.

Zimbardo ha sostenuto che il potere pervasivo, benché impalpabile, di una quantità di variabili situazionali può avere la meglio sulla volontà individuale di resistere

Zimbardo ha sostenuto che il potere pervasivo, benché impalpabile, di una quantità di variabili situazionali può avere la meglio sulla volontà individuale di resistere (Zimbardo, 2008, p. XXVIII).

Risultano efficaci le parole di Bertolt Brecht, “inspiegabile, pur se quotidiano, indecifrabile, pure se è regola”. Più lapidarie, invece, quelle che propone Angela Davis definendo questo tipo di violenza come violenza di routine: “l’ordinario è caratterizzato dalla violenza di routine che permea tutte le prigioni; lo straordinario estende il continuum della violenza alla tortura” (2005, p. 114).

Quali sono le differenti variabili situazionali rispetto ai due episodi registrati dalle videocamere di sorveglianza? Cosa c’è in comune? Quali tratti si possono tratteggiare delle forme della violenza nel penitenziario? Quali possono essere gli aspetti di “sistema”? Come ha affermato Randall Collins (1974) possiamo trovare una chiave della crudeltà nella connessione tra la moralità e i confini di inclusione ed esclusione del gruppo. I confini morali possono porre alcune persone al di fuori di tale obbligazione etica, ma possono anche organizzare confronti che rendono la violenza non solo moralmente indifferente ma moralmente motivata.

Inoltre, indipendentemente dalle motivazioni sottese, cosa producono tali immagini? Tra le difficoltà più classiche nei confronti degli accertamenti giudiziari per episodi di violenze, sevizie e, nei casi più gravi di tortura in contesti di custodia c’è l’assenza di di evidenze probatorie in grado di acclarare le responsabilità, a fronte di meccanismi a volte opachi che hanno portato anche ad inquinare le prove. Non è un caso che le immagini abbiano svolto un ruolo centrale come spinta d’avvio di due celebri processi recenti: il processo Aldrovandi e il processo Cucchi. In entrambi i casi, i parenti delle vittime hanno esposto le immagini dei corpi martoriati come forma di verità, per essere credute. A distanza di tre lustri, con l’introduzione del reato di tortura nel 2017 e l’arrivo delle prime condanne, queste nuove immagini aprono ad un dibattito più articolato e rappresentano la prova principe di quelli in corso. Se le vicende precedenti si erano presentate come episodi, singoli casi, le famose “mele marce”, le nuove immagini prodotte dalle recenti registrazioni evocano le parole di Pietro Buffa (2013), che parlando del caso di Asti scriveva: “l’approccio situazionista pone l’attenzione non tanto sulle mele marce quanto, piuttosto, sui cattivi cesti (P.G. Zimbardo, 2008, p. 271) intendendo, in questo modo, il fatto che non sono tanto le qualità o le perversioni individuali a generare i comportamenti patologici oggetto di attenzione quanto il complesso situazionale, fatto di ruoli, regole, norme, anonimato delle persone e del luogo, deumanizzazione, conformismo e tante altre variabili che andremo ad analizzare e che caratterizzano il contesto in cui quelle persone si calano, rinforzato, a sua volta, dal Sistema più generale”.

Se le immagini odierne, quindi, ci restituiscono i riflessi di un “sistema”, che ora che è stato visto, richiede un intervento strutturale per modificare le forme della coercizione dalle sue fondamenta, dobbiamo però essere consapevoli della volatilità dell’indignazione.

Se le immagini odierne, quindi, ci restituiscono i riflessi di un “sistema” che richiede un intervento strutturale per modificare le forme della coercizione dalle sue fondamenta, dobbiamo però essere consapevoli della volatilità dell’indignazione. Come afferma Susan Sontag, le immagini della crudeltà suscitano una doppia reazione: da una parte vedere la violenza senza mediazione la rende reale, e ci ingaggia eticamente nella sua realizzazione (in qualche modo, l’evocazione di Calamandrei e il discorso della Ministra davanti alla casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere); dall’altra parte, però, Sontag ci mette in guardia poiché in un mondo saturo di immagini (vere o fake, iperprodotte) tendiamo a divenire insensibili. In altre parole, la violenza delle registrazioni di ieri doveva comunque spartire l’indignazione con la drammaticità delle immagini della pandemia, oggi superate dalla crudeltà delle forme, dei corpi, e dell’indicibile violenza della guerra. Proprio per questo, tali documenti video prodotti nel penitenziario devono essere osservati con una doppia valenza: come epifania di un’opacità che è sempre stata oggetto di sottrazione alla vista e dall’altra parte come spazio di studio per comprendere i meccanismi che si dipanano in tali scene. Più immagini di per sé non cambieranno la nostra conoscenza delle forme degli abusi che si ripetono in modo episodico e individuale (come nel caso di Monza) o con reattività collettiva (come accaduto a Santa Maria Capua Vetere), ma la loro esistenza è essa stessa un punto di partenza importante, per dire che “si è visto”, che “non si può più negare” e che la strada e il lavoro culturale e politico da percorrere per cambiare tali dinamiche è solo all’inizio.

Bibliografia

Buffa P., Prigioni. Amministrare la sofferenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2013.
Calamandrei, Piero. Bisogna aver visto. Il carcere nella riflessione degli antifascisti (Italian Edition) (p.88) Edizioni dell’Asino, Edizioni del Kindle.
Chauvenet A., Rostaing C., Orlic F., La violence carcérale en question, Presses Universitaires de France, Paris, 2008.
Collins, R., Violenza (Italian Edition), Rubbettino Editore, 1974.
Davis A. Y. (2005), Aboliamo le prigioni? Contro il carcere, la discriminazione, la violenza del capitale, Minimum Fax, Roma.
De Vito C. G., Camosci e girachiavi. Storia del carcere in Italia, Laterza, Roma-Bari, 2009.
Dostoevskij, Fëdor. Memorie da una casa di morti. Feltrinelli, Milano, 2017.
Horowitz, D. L. The Deadly Ethnic Riot, University of California Press, Berkeley, 2001.
Invernizzi, I, Il carcere come scuola di rivoluzione, Einaudi, Torino, 1974.
Kaufmann, K. Prison officers and their world, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1988
Sontag, S. Davanti al dolore degli altri, Nottetempo, Milano, 2003.
Zimbardo P.G., L’effetto lucifero: cattivi si diventa?, Cortina, Milano, 2008.

References

References
1 L’intuizione è emersa in una conversazione con Dario Stefano Dell’Aquila.
2 Dostoevskij, Fëdor. Memorie da una casa di morti (Italian Edition) (p.332). Feltrinelli Editore. Edizione del Kindle.
3 Calamandrei, Piero. Bisogna aver visto. Il carcere nella riflessione degli antifascisti (Italian Edition) (p.88). Edizioni dell’Asino. Edizione del Kindle.
4 La testimonianza è riportata in Invernizzi, Il carcere cit., pp. 216-221. I. Invernizzi, Il carcere come scuola di rivoluzione, Einaudi, Torino 1973
5 Collins, Randall. Violenza (Italian Edition) . Rubbettino Editore. Edizione del Kindle.