Primo rapporto sulle donne detenute in Italia

La storia a lieto fine di Miriam, vittima due volte

La storia a lieto fine di Miriam, vittima due volte

La storia a lieto fine di Miriam, vittima due volte

1024 576 Primo rapporto sulle donne detenute in Italia

Gennaro Santoro

La storia a lieto fine di Miriam, vittima due volte: la detenzione e l'impossibilità di ricevere un permesso di soggiorno

La storia a lieto fine di Miriam è una goccia nell’oceano, un’eccezione alla regola che vede tante donne straniere rimpatriate a fine pena

Miriam (nome di fantasia) è arrivata dal Messico a Fiumicino con una borsa contenente droga. Una corriera della droga arrestata al suo arrivo e condannata con rito direttissimo a cinque anni e quattro mesi di carcere, con la misura di sicurezza dell’espulsione dallo Stato a fine pena.

Durante la detenzione Miriam impara l’italiano e nel 2019 consegue il diploma di scuola secondaria di secondo grado triennale di informatica. Grazie alla buona condotta, ottiene la detenzione domiciliare ed infine l’affidamento in prova. Miriam svolge con successo un tirocinio formativo all’Accademia di Francia, per poi essere assunta da un’azienda di pulizie. Frequenta anche l’Istituto Industriale “Enrico Fermi” e tutte le relazioni dei servizi sociali la dipingono come una ragazza che si è pienamente integrata. Ma intanto il fine pena (luglio 2021) si avvicina ed il terrore di essere rimpatriata in Messico diventa sempre più grande.
Grazie a vari attori del privato sociale (tra gli altri: la Cooperativa Il Cammino, le associazioni BeFree, ColtivAzione, Antigone e la Comunità di Sant’Egidio), Miriam riesce a farsi coraggio e a raccontare la sua storia, che è poi la storia di tante corriere delle droga e di tante donne costrette a commettere reati. Miriam è infatti autrice e vittima del reato che ha commesso. Costretta a salire su un aereo con il carico di droga per ordine del proprio compagno.

Ma Miriam, contrariamente a tante altre, ha la capacità e la fortuna di rivolgersi ad un centro antiviolenza ed alla fine si convince a presentare la domanda di protezione internazionale. Ottiene poi la revoca dell’espulsione per assenza dell’attualità della pericolosità sociale e, una volta finita di scontare la pena, grazie al permesso di soggiorno per attesa asilo, continua a lavorare presso l’azienda che l’ha assunta durante gli ultimi mesi dell’esecuzione della pena. Finalmente, lo scorso 22 novembre, le è stato riconosciuto lo status di rifugiata politica e l’incubo di dover tornare in Messico, dove molto probabilmente sarebbe stata nuovamente costretta a fare la corriera della droga, è finalmente finito.

La storia a lieto fine di Miriam è una goccia nell’oceano, un’eccezione alla regola che vede tante donne straniere rimpatriate a fine pena anche quando sono state costrette a commettere il reato e durante l’esecuzione della pena hanno dato prova di essere pienamente meritevoli di avere un permesso di soggiorno in Italia. Durante l’esecuzione della pena, le donne sono infatti ritenute regolari sul territorio italiano dove devono appunto scontare la propria pena; e ciò le consente di lavorare e di dar prova del proprio reiserimento. A fine pena, però, viene meno il titolo che legittima la loro regolarità sul territorio dello Stato (l’esecuzione della sentenza di condanna) e sono sistematicamente espulse. Tutto ciò in antitesi con la nostra Costituzione che prevede la finalità rieducativa della pena.

Questo perché le straniere in carcere (al pari dei detenuti maschi) incontrano enormi difficoltà nel richiedere il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno o ad accedere alla procedura relativa al riconoscimento della protezione internazionale. Ed infatti, finanche per chi ha un titolo di soggiorno in corso di validità al momento della carcerazione, è sistematicamente precluso di formalizzare la richiesta di rinnovo dal carcere.

La posizione dell’Amministrazione penitenziaria nel tempo si è orientata a sostenere che la richiesta di rilascio/rinnovo del permesso di soggiorno non solo non fosse un obbligo, ma nemmeno un diritto

Questo perché le straniere in carcere (al pari dei detenuti maschi) incontrano enormi difficoltà nel richiedere il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno o ad accedere alla procedura relativa al riconoscimento della protezione internazionale. Ed infatti, finanche per chi ha un titolo di soggiorno in corso di validità al momento della carcerazione, è sistematicamente precluso di formalizzare la richiesta di rinnovo dal carcere.

La posizione dell’Amministrazione penitenziaria nel tempo si è orientata a sostenere che la richiesta di rilascio/rinnovo del permesso di soggiorno non solo non fosse un obbligo, ma nemmeno un diritto: al detenuto si riporta infatti che non è possibile effettuare tale richiesta all’interno dell’istituto, ma che la si dovrà fare al momento dell’uscita. Nella realtà, una volta fuori dal carcere, se non si ha già un permesso di soggiorno, viene avviata la concreta esecuzione dell’espulsione, e molti irregolari finiscono nei Centri di Permanenza per i Rimpatri in attesa di essere espulsi.

Tale stato dell’arte arreca dei gravissimi pregiudizi agli interessati in quanto la costante giurisprudenza ritiene che lo straniero extra UE detenuto abbia un obbligo giuridico chiaro e definito di richiedere il permesso di soggiorno con gli stessi termini e alle stesse condizioni degli altri cittadini stranieri, ovvero ha 60 giorni dalla scadenza per richiederne il rinnovo, oppure può richiederne il rilascio se sussistono i requisiti dall’interno del carcere.
Secondo la sentenza della Corte di cassazione n.50487 del 2019, infatti, la condizione detentiva non è giuridicamente di ostacolo alla presentazione della domanda amministrativa. Nel caso di Miriam, si è riusciti a formalizzare la domanda di protezione internazionale e ad avviare la procedura di rilascio del permesso per attesa asilo proprio perché l’ultima parte della pena è stata scontata in regime di affidamento in prova. Per chi invece è in carcere, di fronte al sistematico e illegittimo rifiuto dell’Amministrazione di trasmettere la domanda di rilascio del permesso di soggiorno in Questura, si suggerisce di far comunque inviare una raccomandata alla detenuta o di far firmare alla stessa una delega ad un volontario affinché trasmetta a mezzo pec la domanda. Ferma restando la possibilità di poter chiedere un intervento dell’Autorità giudiziaria per accertare l’illegittimità del comportamento serbato dall’Amministrazione penitenziaria.

Ciò in quanto, come già detto, la normativa prevede un triplice obbligo: quello del detenuto straniero di presentare richiesta, quello del direttore di trasmettere l’istanza alla competente Questura e quello della Questura di recepire la richiesta e dare avvio alla pratica. Obblighi d’altronde ribaditi anche nella nuova formulazione dell’art. 35 del regolamento penitenziario secondo le Raccomandazioni della Commissione presieduta dal Prof. Marco Ruotolo. Dunque, in attesa che tali Raccomandazioni vengano (finalmente) fatte proprie dal Legislatore, l’unica strada percorribile è quella di inoltrare la richiesta di asilo o rilascio del permesso di soggiorno tramite raccomandata o volontari delegati. Nell’interesse della singola detenuta, ma anche per far sì che il percorso di integrazione intrapreso durante l’esecuzione della pena non sia gettato alle ortiche a fine pena.