Primo rapporto sulle donne detenute in Italia

Le donne scrivono al Difensore Civico di Antigone

Le donne scrivono al Difensore Civico di Antigone

Le donne scrivono al Difensore Civico di Antigone

1024 576 Primo rapporto sulle donne detenute in Italia

Alicia Alonso Merino

Le donne scrivono al Difensore Civico di Antigone

Come ogni anno, il Difensore Civico dei diritti delle persone detenute di Antigone ha ricevuto lettere con domande e dubbi di donne detenute in diversi carceri o reparti del Paese. Il basso numero di detenute in Italia (circa il 4% del totale) non consente di garantire che le donne siano confinate vicino alle loro case. Ciò si traduce in una situazione in cui le donne possono essere detenute in reparti di carceri maschili, più vicine ai loro luoghi di residenza, o in carceri femminili che spesso si trovano a grande distanza da casa, poiché ce ne sono pochissime.

Essere rinchiuse in sezioni di carceri maschili significa che i bisogni speciali delle donne potrebbero non essere presi in considerazione

Essere rinchiuse in sezioni di carceri maschili significa che i bisogni speciali delle donne potrebbero non essere presi in considerazione, poiché il regime carcerario sarà determinato dalla maggior parte dei detenuti maschi. Così una detenuta della CC di Como ha descritto la discriminazione e la difficoltà di accesso agli stessi servizi nelle stesse condizioni dei detenuti:

“Al femminile non c’è possibilità di usufruire del teatro, non c’è possibilità di fare corsi di musica, visto che gli strumenti sono solo al maschile. L’area adibita all’aria non ha palloni utilizzabili… e non da alcuna possibilità di svolgere attività sportive.
L’area educativa esiste solo al maschile e le detenute sono prive di educatori stabili, con la conseguenza che non vengono redatte osservazioni e sintesi, precludendo l’acceso a misure alternative, con danni gravissimi per le detenute”.

Molte donne sono tenute lontane dalle loro case, riducendo le possibilità di contatto familiare

In pratica, molte donne sono tenute lontane dalle loro case, riducendo le possibilità di contatto familiare. Questa distanza dalla famiglia e la mancanza di contatti diretti è motivo di denuncia per le detenute. Nello specifico, dal carcere di Latina ce lo raccontava una detenuta:

“Non faccio colloqui con mia madre dal 20.12.2019. Non ho più il papà e mia madre non ce la fa a venire sia per problema di salute sia per problema economici. È vero che io ho sbagliato, ma mia madre che colpa ne ha? Il mio percorso non è servito a niente? Non ce la faccio più, sto male, questo distacco è troppo”.

Anche dal carcere di Messina si fanno carico di quanto sia dolorosa questa realtà, soprattutto quando sono madri:

“[a Messina] tante mamme lontano dai propri figli, da Napoli, Roma, Puglia e sono stati trasferiti qui su un’isola? I disagi vengono creati alle famiglie e ai tanti bambini che sono privati d’avere contatti da vicino con le proprie mamme”.

La “colpa” per l’abbandono dei figli è un altro motivo di angoscia e dolore permanenti

La realtà dei figli e delle figlie che risentono della difficoltà dell’assistenza diretta e la “colpa” per l’abbandono è un altro motivo di angoscia e dolore permanenti. Così ce lo ha raccontato una madre detenuta nei CC di Vigevano:

“Ho 2 figli minorenni, il maschio del 2008 (affidato a mia madre) e la femmina del 2009 (affidato al padre e mia madre), purtroppo ne ho avuto uno nel 2019, ma è stato portato in affidamento in ospedale stesso. Da allora non ho più avuto sue notizie. Io so che per legge l’adottabilità si apre quando si hanno 10 anni di condanna, mentre con me hanno aperto l’adottabilità sin da ora anzi già da 1 anno. Non mi hanno dato nemmeno la possibilità di dimostrare che ho cambiato vita. Sto cadendo in una brutta depressione. È come se io stessi facendo una doppia carcerazione”.

Non mancano nemmeno le critiche alle condizioni in cui si deve scontare la pena e la mancanza di prospettive future

Non mancano nemmeno le critiche alle condizioni in cui si deve scontare la pena, la mancanza di prospettive future, la possibilità di svolgere un percorso trattamentale per migliorare progressivamente le condizioni di vita all’interno del carcere. Dal carcere di Messina ci hanno descritto così la situazione:

“I passeggi sono pochissimi metri, non si può passeggiare, non c’è lo spazio. Il bagno è con un muro a metà da schifo. E una tettoia di lamiere…. Mi domando perché lo stato è così indifferente a tutto questo? mi sembra un 41 bis, cosa si deve fare? A chi dobbiamo rivolgerci? Il codice penale non prevede le torture psicologiche, però ci sono costantemente, Se presenti una domandina per le telefonate, o per le video chiamate e la perdono ti dicono non si trova la domandina e ci rimettiamo noi perché si telefona solo due volte a settimana. Se ci stiamo rivolgendo a voi è perché veramente si è al limite della sopportazione di tutto questo abuso”

La critica all’abbandono istituzionale è confermata da un’altra detenuta nella CC di Latina dove si è lamentata che:

“[A Latina] nessuno si interessa per la declassificazione. Ma se dopo un percorso impeccabile a nessuno è interessato aiutarmi, sono delusa e amareggiata, anche se ormai manca poco alla fine. Da Latina non esce nessuno, né in permesso, né con un beneficio. Si può attendere 15 mesi per una camera di consiglio? Per poi avere un rinvio di altri 5 mesi?”

Denuncia ricevuta sulla vita in carcere che concludeva citando il Canto II de La Divina Commedia di Dante: “Lasciate ogni speranza voi che entrate”, paragonando la mancanza di speranza che implica scontare una pena detentiva, all’inferno che ha descritto il fiorentino.

Quella mancanza di speranza, insieme alle condizioni di disumanità, patologie mentali, problemi di dipendenza, sono senza dubbio alcuni dei complessi fattori di rischio che fanno decidere a una persona di porre fine all’angoscia vitale della reclusione, ricorrendo al suicidio. Una piaga istituzionale che quest’anno sta raggiungendo cifre allarmanti e che colpisce anche le donne detenute.

Una detenuta della CC di Vigevano, che ci ha scritto per chiederci informazioni in merito alla possibilità di accedere a una misura alternativa, ci ha anche raccontato che:

“A Bergamo ho salvato una detenuta dopo averla trovata impiccata, ringrazio dio che non sia morta”.

Oltre alle detenute, c’è anche un numero significativo di donne che si rivolgono al Difensore Civico preoccupate per gli altri detenuti

Oltre alle detenute, c’è anche un numero significativo di donne che si rivolgono al Difensore Civico preoccupate per gli altri detenuti. Sono le madri, le mogli, le compagne, le sorelle o le amiche dei carcerati. Donne che sostengono il sistema carcerario dall’esterno e che spesso passano inosservate al sistema stesso.

L’esperienza di avere un familiare privato della libertà è devastante. Dal momento dell’arresto, le famiglie affrontano sostanziali cambiamenti nella loro vita quotidiana; la loro organizzazione si riconfigura, la loro economia peggiora, i loro legami e le loro relazioni affettive si alterano. Gli effetti prodotti dal carcere sono molteplici e gravi: colpiscono la soggettività e l’autonomia dei detenuti, ma si estendono anche oltre le mura, colpendo direttamente le famiglie e, soprattutto, le donne. (RIMUF, 2022, p. 2)

Nel corso dell’ultimo anno, gran parte delle lettere ricevute dalle parenti dei detenuti hanno avuto a che fare con la preoccupazione per la loro situazione di salute e la mancanza di cure adeguate per varie patologie. Così, la figlia di una ristretta ci ha contattato riferendoci che la madre era stata arrestata ed era affetta da varie patologie e nessuno dalla CC di Latina le ha dato riscontro in merito alle problematiche di salute. Mentre un’altra donna ci scriveva preoccupata per il suo compagno detenuto nella Casa di Reclusione di Opera:

“Lui dovrebbe prendere dei medicinali e ancora prima di esser li per custodia cautelare doveva fare un intervento e che tramite medico di base non è possibile far avere medicine e li non sono provvisti. […] Nel 2006 aveva fatto pure una tac alla testa perché aveva problemi con una vena e dovrei risalire a una copia. Ho scritto al medico di base ma è da solo 3 anni quel medico. Voi cortesemente sapete consigliare come dovrei fare o muovermi per far sì che abbia copia e che lui venga curato in modo adeguato e sicuro?”.

Ci ha contattato anche un’altra figlia devastata dalla delicata situazione sanitaria della madre appena trasferita, sempre lontana dalla famiglia:

“Mia mamma detenuta ha varie patologie: psiche, fisiche, cardiopatica, problemi cardiovascolari, anemia, problema al midollo osseo, ipertesa e diabetica. Adesso l’hanno trasferita a Piacenza non tenendo conto delle sue patologie, trattata come neanche un animale. Svegliata alle 3 di notte e col freddo (nemico di chi ha problemi cardiovascolari) e portata a Piacenza…abbiamo saputo sue notizie dopo 3 giorni. Io adesso sto in pensiero perché non so che cure stanno iniziando in questo carcere. Mia mamma ha bisogno delle giuste cure. È piena di patologie… non sta bene lì dentro. Non sappiamo come fare! e poi con i suoi problemi di depressione…”.

Inoltre, la mancanza di conoscenza di come funziona il sistema carcerario o di chi contattare genera enorme angoscia e impotenza:

“Sono una zia disperata che non sa dove andare a sbattere per capire come aiutare il proprio nipote, detenuto nel carcere di Siracusa con un pneumotorace spontaneo e il COVID in corso. Non so come aiutarlo. L’avvocato mi dice che non possiamo fare niente perché lo curano li. La mia domanda è ma con un pneumotorace non dovrebbe stare a casa? Inoltra come posso sapere il medico che lo sta curando?”.

La preoccupazione di come mantenere i contatti, di come svolgere le visite e di quale sia la procedura dei colloqui sono motivi di domande. Una sorella di un detenuto della CC di San Vittore a Milano ci ha chiesto aiuto per capire la procedura per vedere suo fratello. Allo stesso modo, una madre con il figlio incarcerato nella CC di Como aveva bisogno di chiarimenti su come funzionassero i requisiti del Green pass per accedere al colloquio.
Il timore per l’integrità fisica è anch’esso motivo di consultazione. Così scrive una donna preoccupata per la situazione di violenza che il marito aveva subito nella CC di Treviso:

“Mio marito è stato aggredito da un altro detenuto. L’aggressione è stata molto violenta, ha richiesto un intervento sanitario (in ospedale) e mio marito ha ricevuto 30 giorni di prognosi (rottura del setto nasale, trauma cranico ecc.). Vorrei sapere se posso muovermi in qualche modo. Abbiamo 2 bambini, e sono molto preoccupata”.

In tutte le lettere si percepisce una grande preoccupazione per i propri cari, che si aggiunge alla difficoltà di interagire e dialogare con l’amministrazione penitenziaria e alla forte dipendenza dei detenuti dalle loro famiglie all’esterno

In tutte le lettere si percepisce una grande preoccupazione per i propri cari, che si aggiunge alla difficoltà di interagire e dialogare con l’amministrazione penitenziaria e alla forte dipendenza dei detenuti dalle loro famiglie all’esterno. La Rete Internazionale delle Donne Parenti di persone private della libertà ritiene che per queste donne i compiti di cura non siano una scelta ma piuttosto un effetto di almeno due processi contemporanei, che si rafforzano a vicenda. Da un lato, l’ordine sociale su cui si basa la società patriarcale, e dall’altro, la perdita di autonomia e di capacità di autosussistenza che l’istituto carcerario provoca nelle persone e che ha come correlato l’aumento della dipendenza da loro parenti, soprattutto donne (Red Internacional de Mujeres Familiares de Personas Privadas de la Libertad-RIMUF, 2022, El impacto de las cárcel en las mujeres familiares y las afectaciones a sus derechos, Argentina, pag. 20; vedi anche Pérez Correa, Catalina (2014), Las mujeres invisibles: los verdaderos costos de la prisión, BID, México).

La nostra attività di Difensore Civico, accedendo a testimonianze privilegiate della vita carceraria, ci porta ogni anno a trasmettere questa realtà e a cercare di rendere più visibili queste esistenze invisibili del “carcere al femminile”.