di Simona Longo e Chiara Serafini
All’interno di un panorama politico europeo fondato su una crescente cultura dell’espulsione, in nome di una presunta sicurezza, da una decina di anni si stanno diffondendo piani di delocalizzazione del sistema penitenziario – parallelamente a interventi di esternalizzazione delle frontiere – con gravi conseguenze sul piano dei diritti umani.
A dicembre 2023 il governo svedese ha commissionato un’indagine per avanzare la possibilità di affittare strutture penitenziarie all’estero, con l’obiettivo di trasferire persone detenute o condannate in Svezia in carceri straniere.
Il 14 ottobre 2022, in Svezia, il Partito dei Moderati, dei Democratici Cristiani, dei Liberali e il partito di estrema destra dei Democratici Svedesi presentavano l’Accordo di Tidö (Tidöavtalet). Tale accordo definiva le linee guida politiche su temi cruciali come la criminalità, l’immigrazione, la sicurezza pubblica e la riforma penitenziaria e vedeva coinvolti il ministro della Giustizia Gunnar Strömmer e il capo della commissione del governo Mattias Wahlstedt. Tra le principali misure introdotte, veniva proposto un rafforzamento delle politiche di sicurezza, con un’attenzione particolare al fenomeno della criminalità associata alle gang ponendo le basi per una valutazione dell’outsourcing come soluzione al sovraffollamento delle carceri svedesi. A dicembre 2023 il governo svedese ha commissionato un’indagine per avanzare la possibilità di affittare strutture penitenziarie all’estero, con l’obiettivo di trasferire persone detenute o condannate in Svezia in carceri straniere. Questa è stata presentata dal Ministro della Giustizia svedese a fine gennaio, prevedendo nel futuro prossimo l’inizio delle negoziazioni di accordi con altri Paesi dell’UE e dello Spazio economico europeo (SEE). Al momento, l’Estonia ha segnalato la propria disponibilità ad affittare strutture attualmente vuote. Tale indagine di governo si compone di circa 400 pagine contenenti sia proposte legislative relative a modifiche delle leggi svedesi esistenti, sia un’analisi delle convenzioni internazionali sui diritti umani, nonché dettagli sul processo di attuazione e sugli impatti giuridici e pratici della proposta. Al suo interno si fa riferimento a principi quali l’uguaglianza delle condizioni di detenzione indipendentemente dal luogo in cui sia scontata la pena, l’individuazione di paesi che siano comparabili e geograficamente vicini alla Svezia, il non limitarsi a detenuti non svedesi e di come la legge svedese debba essere applicata anche all’estero insieme al mantenimento del proprio personale. Tuttavia tali indicazioni suscitano perplessità in quanto il documento rimane molto vago su diversi aspetti legislativi.
In teoria, il personale incaricato di gestire i detenuti nelle carceri estere dovrebbe essere in prevalenza svedese, con la possibilità di ricorrere a personale straniero solo in casi specifici. Tuttavia, i criteri di selezione non sono sufficientemente definiti e sollevano dubbi sulla qualità e affidabilità della gestione. Inoltre, la giurisdizione svedese dovrebbe continuare a essere applicata, ma è difficile garantire che i diritti dei detenuti vengano effettivamente rispettati in un contesto giuridico estero. La Svezia si impegna a garantire i diritti umani sanciti dagli accordi internazionali, ma resta il rischio che il controllo e la supervisione delle strutture penitenziarie estere non possano essere efficaci come nel contesto nazionale, soprattutto se non esistono meccanismi indipendenti di monitoraggio. Le proposte legislative suggeriscono che alcuni gruppi di detenuti, come i minorenni, quelli condannati per reati connessi al terrorismo o chi è sottoposto a cure di tipo psichiatrico, non possano essere trasferiti in carceri all’estero. Ma anche sui criteri relativi alle persone detenute da trasferire ci sono molte zone d’ombra. Un altro aspetto problematico è rappresentato dalla custodia degli effetti personali delle persone trasferite, che verrebbero conservati dal sistema penitenziario in Svezia e, in linea di principio, restituite alla persona a fine pena. Infine, l’indagine commissionata dal governo svedese traccia confini pericolosi in tema di diritto dell’immigrazione, attraverso la possibilità da parte della Svezia di eseguire un ordine di espulsione o respingimento verso paesi terzi, direttamente dal carcere delocalizzato, a condizione che il paese ricevente accetti tale disposizione. Secondo la prospettiva della ONG Civil Rights Defenders, tutto questo potrebbe colpire maggiormente i cittadini non svedesi. Si prevede che le misure proposte entrino in vigore il 1° gennaio 2026.
Nel dicembre 2021 il Regno di Danimarca e la Repubblica del Kosovo avevano siglato un accordo che prevedeva, a partire dal 2023 e per 5 anni rinnovabili, il trasferimento di 300 detenuti precedentemente condannati e reclusi in Danimarca al carcere kosovaro di Gjilan.
La recente proposta svedese di outsourcing penitenziario non è, purtroppo, una novità in Europa. Nel dicembre 2021 il Regno di Danimarca e la Repubblica del Kosovo avevano siglato un accordo che prevedeva, a partire dal 2023 e per 5 anni rinnovabili, il trasferimento di 300 detenuti precedentemente condannati e reclusi in Danimarca al carcere kosovaro di Gjilan. L’operazione avrebbe comportato il pagamento di una somma di 15 milioni di euro l’anno dopo un versamento iniziale di 5 milioni per l’adattamento dei locali. Nonostante il progetto non sia mai stato portato a termine, la World Organisation Against Torture (OMCT) – insieme ad Antigone, lo European Prison Observatory e l’International Rehabilitation Council for Torture Victims (IRCT) – aveva sottolineato i rischi di un progetto del genere, in quanto sollevava grandi preoccupazioni in materia di diritti umani. In particolare, tra gli elementi di criticità posti dall’accordo Danimarca-Kosovo si evidenziavano la natura discriminatoria e non volontaria dei trasferimenti, la violazione del principio di risocializzazione (a più di 2000 chilometri di distanza, in un paese col quale presumibilmente non hanno alcun legame diretto, le persone detenute non avrebbero contatti con il tessuto sociale di provenienza) e la mancanza di meccanismi di protezione adeguati nel caso di abusi da parte del personale kosovaro: considerando che quest’ultimo sarebbe rimasto soggetto alla legge del Kosovo, le autorità nazionali danesi non sarebbero in grado di indagare eventuali violenze commesse, comprese le accuse di tortura, le quali rimarrebbero impunite. Inoltre, il Kosovo non ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la Tortura e il suo Protocollo Opzionale (OPCAT) e pertanto non è sottoposto a controlli regolari da parte di organismi internazionali come il Comitato contro la Tortura; non fa parte del Consiglio d’Europa, né è soggetto alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
La pratica dell’outsourcing penitenziario era già stata sperimentata in altri paesi europei, quali il Belgio e la Norvegia.
In tempi meno recenti, la pratica dell’outsourcing penitenziario era già stata sperimentata in altri paesi europei, quali il Belgio (che nel 2010 ha siglato un accordo con i Paesi Bassi per “far fronte” in via temporanea al sovraffollamento tramite l’invio di detenuti in un carcere olandese) e la Norvegia (altro accordo temporaneo in risposta al sovraffollamento, siglato nel 2015, per la messa a disposizione di un carcere olandese per persone condannate in Norvegia). Situazioni diverse da quella che coinvolge la Danimarca e il Kosovo, se si considera la maggiore omogeneità tra gli ordinamenti dei paesi coinvolti, ma comunque dei gravi “apripista” alle successive proposte di delocalizzazione.
Il carcere è, per sua natura, un contesto opaco e intrinsecamente conflittuale in cui sono in gioco diritti fondamentali della persona. Non a caso in tutti i paesi è oggetto di interventi di monitoraggio, nazionali e sovranazionali, istituzionali ed indipendenti. E, nonostante questo, è un luogo in cui gli incidenti, anche gravi, e le violazioni della stessa legge che lo regola, sono all’ordine del giorno. È facile intuire quindi come questo rischio aumenti con la delocalizzazione penitenziaria, implicando un allontanamento fisico e istituzionale del carcere dai luoghi in cui si esercitano i necessari interventi di controllo e monitoraggio. Se già sul proprio territorio uno Stato fatica a garantire legalità, trasparenza e rispetto della dignità delle persone private della libertà, è del tutto prevedibile che l’esternalizzazione di questa funzione – attraverso l’outsourcing penitenziario – non possa che amplificare tali criticità.
Si assiste a una preoccupante sovrapposizione delle politiche penali a quelle migratorie, nei termini di una crescente criminalizzazione delle persone migranti.
La delocalizzazione penitenziaria è un modello che rispecchia una crescente ed evidente cultura espulsiva in Europa, da anni impegnata in una rigida esternalizzazione delle frontiere che sempre più ricorre alla deportazione di soggettività indesiderate e/o ritenute “pericolose” come mezzo propagandistico in risposta ad una indotta percezione di insicurezza sociale. Inoltre, si assiste a una preoccupante sovrapposizione delle politiche penali a quelle migratorie, nei termini di una crescente criminalizzazione delle persone migranti.
Emblematica è, in questo senso, la funzione dei centri albanesi di Shengjin e Gjader, frutto dell’accordo firmato il 6 novembre 2023 tra la presidente Meloni e il presidente albanese Edi Rama. Tali strutture erano state volute dal governo italiano per il trasferimento di persone migranti “soccorse” dalle autorità italiane in mare, per la loro successiva identificazione, per l’esame della loro domanda di asilo ed, eventualmente, per il loro rimpatrio. Davanti al fallimento di tale progetto, a causa dei ripetuti interventi della magistratura che non ha convalidato i trattenimenti in Albania dei migranti deportati in applicazione del diritto comunitario e in attesa di una pronuncia della Corte di giustizia europea sulla definizione di “paese sicuro”, il governo ha inizialmente proposto una conversione dei centri albanesi in strutture penitenziarie, costituendo un piano di delocalizzazione problematico e lesivo dei diritti delle persone detenute.
Abbandonata questa ipotesi, lo scorso 28 marzo il Consiglio dei ministri ha approvato il cosiddetto “decreto Albania” (Decreto-Legge 28 marzo 2025, n. 37 – Disposizioni urgenti per il contrasto dell’immigrazione irregolare), tra le cui misure è previsto l’utilizzo dei centri albanesi come Centri permanenti per il rimpatrio (CPR) con l’obiettivo di delocalizzare parte delle procedure di rimpatrio trasferendo, in modo coatto, persone già trattenute nei CPR italiani. A tali fini, si sarebbe stabilito il CPR di Brindisi Restinco come luogo in cui concentrare le persone rastrellate in altri CPR italiani, per poi procedere da lì con il trasferimento via nave verso l’Albania. Tramite appalto assegnato dalla Prefettura di Roma, la gestione delle strutture albanesi è sotto la responsabilità del personale della Cooperativa Medihospes, già indagata per irregolarità nella gestione di diversi centri di accoglienza.
L’11 aprile, 41 persone precedentemente trattenute in diversi CPR italiani sono state portate con la nave militare Libra nel porto di Shengjin, per essere poi rinchiuse nel centro di Gjader in condizioni preoccupanti. Nelle settimane successive, 16 delle persone trattenute hanno lasciato il centro con motivazioni disparate e poco chiare. In concomitanza, a seguito di una protesta messa in atto nel centro di Gjader, alcune delle persone coinvolte sono state trasferite nel “mini-carcere” che sin dalla firma del protocollo Italia-Albania era stato previsto per la detenzione di chi commette reati nel CPR albanese. Sul sito del Ministero della Giustizia, aggiornato al 30 aprile, risultano attivi 12 posti per quella che risulta essere la Casa Circondariale di Roma “Gjader-Albania”, un luogo di detenzione extraterritoriale che suscita gravi interrogativi sotto il profilo della tutela dei diritti della persona.
Non solo, quindi, un CPR italiano in territorio albanese, ma anche una struttura penitenziaria destinata alla repressione delle rivolte delle persone migranti trattenute.
Non solo, quindi, un CPR italiano in territorio albanese, ma anche una struttura penitenziaria destinata alla repressione delle rivolte delle persone migranti trattenute, sotto il controllo della polizia penitenziaria italiana: una misura spaventosa considerando il “reato di rivolta” in istituti penitenziari e in strutture di trattenimento per migranti introdotto dal decreto-legge “Sicurezza”, entrato in vigore lo scorso 11 aprile. Il riferimento ad «atti di violenza o minaccia o di resistenza» agli ordini compiuti da tre o più persone riunite con questo intento e a «condotte di resistenza passiva» rappresenta un grave provvedimento, soprattutto se si considerano le condizioni inumane e degradanti a cui sono sottoposte le persone migranti deportate nei centri albanesi. Come sottolineato dalle deputate Rachele Scarpa e Cecilia Strada in un rapporto da loro sottoposto al CPT a seguito di numerose visite ispettive, i centri albanesi sono un luogo patogeno e pericoloso, tanto che solo tra l’11 aprile e il 2 maggio si sarebbero registrati già 35 eventi critici.
L’esternalizzazione delle frontiere, le procedure di rimpatrio e la delocalizzazione penitenziaria rischiano di diventare una tendenza generalizzata, promossa e legittimata dalle destre della cosiddetta “Fortezza Europa”.
Il susseguirsi caotico di proposte di legge, le frequenti modifiche normative e il ricorso sistematico alla decretazione d’urgenza contribuiscono a creare un quadro sempre più complesso, ostacolando la comprensione e il dibattito pubblico attorno alle crescenti politiche panpenalistiche. In Italia, come in altri Paesi europei, sembra infatti che stia prendendo piede sempre più questa strategia di flooding legislativo. L’esternalizzazione delle frontiere, le procedure di rimpatrio e la delocalizzazione penitenziaria rischiano di diventare una tendenza generalizzata, promossa e legittimata dalle destre europee. Tutto ciò si inserisce perfettamente nella logica della cosiddetta “Fortezza Europa”, in cui la sicurezza viene brandita come giustificazione per pratiche disumanizzanti di respingimento e contenimento, in violazione dei diritti fondamentali.