In Italia, quando si parla di sovraffollamento carcerario, la prima cosa a cui si pensa è spesso l’edilizia penitenziaria, sempre vista, quindi, in ottica emergenziale. In un momento storico in cui i dati del sovraffollamento risultano particolarmente alti e in crescita, pare che l’aumentare il numero dei posti negli istituti detentivi, in termini di capienza, rappresenti, sempre e comunque, sia la prima che l’ultima spiaggia.
Se il famigerato sovraffollamento degli istituti detentivi viene registrato a partire dal numero-soglia della capienza regolamentare, è legittimo chiedersi quali siano i parametri utilizzati per calcolare tale quantità.
Il numero di persone che possono essere detenute in maniera regolamentare negli istituti penitenziari in Italia è di 51.283, numero che fa riferimento ai posti disponibili calcolati sulla falsa riga del D.M. 5 luglio 1975 del Ministero della Salute.
In base ai dati pubblicati dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale il numero di persone che possono essere detenute in maniera regolamentare negli istituti penitenziari in Italia è di 51.283, numero che fa riferimento ai posti disponibili calcolati sulla falsa riga del D.M. 5 luglio 1975 del Ministero della Salute. Tale Decreto stabilisce che ogni detenuto dovrebbe disporre di almeno 9 mq in cella singola o 7 mq in celle collettive, con un’altezza minima di 3 metri e almeno 20 m³ di volume d’aria a testa. Le celle dovrebbero essere dotate di finestre apribili per garantire luce naturale e ventilazione, oltre a servizi igienici separati, schermati e interni alla stanza.
Al momento, tuttavia, sempre alla luce dei dati pubblicati dal Garante, sarebbero 46.808 i posti che possono effettivamente essere occupati, al netto delle celle chiuse per lavori e delle sezioni inagibili per problemi infrastrutturali (che sottrarrebbe all’incirca circa 4500 posti) o per carenza di personale penitenziario. Raffrontando il numero dei detenuti presenti attualmente e i posti regolarmente disponibili , si ottiene il tasso corrente di sovraffollamento degli istituti penitenziari in Italia, stimato attorno al 133,22%.
Il sistema penitenziario italiano, infatti, soffre da anni di una cronica carenza di agenti di polizia penitenziaria, educatori, psicologi, mediatori culturali e personale sanitario.
In Italia, il problema del sovraffollamento carcerario è stato a lungo affrontato partendo da un assunto semplicistico: considerandolo, cioè, come un fenomeno esclusivamente infrastrutturale, riconducibile alla mera insufficienza di posti letto. Questa visione rischia, però, di celare il problema strutturale rappresentato dall’insufficienza di personale. Il sistema penitenziario italiano, infatti, soffre da anni di una cronica carenza di agenti di polizia penitenziaria, educatori, psicologi, mediatori culturali e personale sanitario. Questa mancanza compromette gravemente la gestione ordinaria degli istituti, rendendo impossibile garantire standard dignitosi di vita interna e di trattamento.
Aprire nuove sezioni o nuovi istituti, senza parallelamente investire nel reclutamento e nella formazione di personale qualificato, finisce inevitabilmente per aggravare ulteriormente il problema. Tuttavia, questa visione ha e ha avuto una certa fortuna – poco importando, di fatto, se, a partire dal 2000, ogni intervento straordinario di edilizia penitenziaria volto ad aumentare il numero di posti in carcere si è rivelato inutile – tornando le carceri a saturarsi, puntualmente, nel giro di poco tempo. I costi elevatissimi di questi interventi, a fronte di benefici temporanei e marginali, dimostrano come puntare esclusivamente sull’aumento dei posti letto sia una strategia fallimentare, incapace di incidere sulle cause strutturali del problema.
Questa modalità di gestione delle criticità è alla base anche della nomina, arrivata a fine settembre 2024, dell’ennesimo Commissario straordinario del Governo per l’edilizia penitenziaria, Marco Doglio. L’incarico, previsto dal cosiddetto decreto “Carcere sicuro” (Decreto-legge 4 luglio 2024, n. 92), prevede che il Commissario, entro la scadenza del suo mandato (prevista per il 31 dicembre 2025) debba provvedere alla messa in atto di quelle opere necessarie per arginare la situazione di sovraffollamento degli istituti penitenziari. Situazione alimentata e aggravata dalle politiche panpenaliste del Governo; lo stesso esecutivo che, ora, cerca di mettervi una toppa.
A confermare la problematicità insita nell’edilizia penitenziaria è intervenuta anche l’ultima pronuncia della Corte dei conti, che ha evidenziato come la costruzione di nuove carceri e la ristrutturazione di quelle esistenti assorbano ingenti risorse finanziarie senza riuscire a migliorare in modo tangibile le condizioni di vita dei detenuti, a causa del continuo aumento del loro numero. La Corte ha espresso giudizi fortemente critici in ordine alla programmazione degli interventi, sottolineando l’eccessiva mutevolezza delle scelte programmatiche e la conseguente precarietà delle relative assegnazioni di fondi.
Al momento, dei 250 milioni di euro totali messi a disposizione del Commissario straordinario Doglio, ben 32 sono stati stanziati per creare 384 posti letto, divisi in 16 blocchi detentivi di calcestruzzo.
Al momento, dei 250 milioni di euro totali messi a disposizione del Commissario straordinario Doglio, ben 32 sono stati stanziati per creare 384 posti letto, divisi in 16 blocchi detentivi di calcestruzzo da destinare a nove istituti penitenziari distribuiti su tutta la penisola. In relazione a quanto si legge nel bando di gara a procedura ristretta (chiuso il 10 aprile scorso) ciascuno dei moduli abitativi prefabbricati ospiterà quattro detenuti in camere di una superficie complessiva di circa 30 mq. Tenendo conto degli spazi occupati da bagno, letti a castello, tavolo fisso e arredi di sicurezza, lo spazio abitabile netto residuo risulta essere di circa 20,5 mq complessivi, ossia poco più di 5 mq a persona. Sebbene tale superficie sia conforme agli standard minimi previsti dalla Corte EDU (> 3 mq) e superi la soglia tecnica indicata dal Comitato per la prevenzione della tortura (> 4 mq), resta comunque al di sotto degli standard, che indicavamo sopra, con cui in Italia si calcola la capenza regoalmentare degli istituti. Sarebbero insomma, spazi non regolamentari già al momento della loro progettazione.
La scelta di collocare i nuovi moduli prefabbricati all’interno di aree libere di istituti già esistenti comporta, inoltre, un inevitabile sacrificio di spazi destinati ad attività lavorative, sportive, culturali e ricreative, già oggi gravemente insufficienti. A cui si aggiunge un ulteriore strato di complessità: se la qualità costruttiva e la vivibilità degli istituti penitenziari tradizionali risultano già oggi gravemente carenti, è prevedibile che le condizioni nei prefabbricati, strutture per loro natura temporanee e a basso costo, saranno anche peggiori – sia per chi questi spazi li dovrà vivere, quanto per chi dovrà lavorarci.
A ciò si lega un altro aspetto fondamentale: il sovraffollamento è alimentato in larga parte dalla recidiva, che rappresenta il fallimento sistemico del carcere come strumento di risocializzazione. La mancanza di personale adeguato – sia numericamente che professionalmente – impedisce di sviluppare percorsi trattamentali efficaci, favorendo il ritorno in carcere di chi, una volta liberato, non ha avuto reali opportunità di reinserimento. Investire sulle carceri esistenti, migliorando la qualità dell’intervento trattamentale attraverso un adeguato rafforzamento degli organici, potrebbe ridurre significativamente i tassi di recidiva, e dunque contrastare il sovraffollamento.
Di fatto, sebbene l’art. 6 O.P., comma 1 – di cui si è occupata la riforma del 2018 – prescriva specifici requisiti di adeguatezza per i locali di pernottamento, quali ampiezza sufficiente, illuminazione con luce sia naturale che artificiale, aerazione, riscaldamento, pulizia e riservatezza degli spazi igienici – tuttavia le visite dell’Osservatorio di Antigone fatte nel corso del 2024 hanno portato alla luce il fatto che tali standard minimi di vivibilità non sono assicurati ovunque: nel 31,6% dei casi c’erano celle in cui non erano stati garantiti nemmeno i 3 mq calpestabili a persona; nel 45,3% degli istituti visitati abbiamo visto celle in cui non era disponibile acqua calda per tutto il giorno e in ogni periodo dell’anno; nel 55,8% dei casi celle in cui non era presente la doccia; mentre ben 59 istituti di pena, pari al 62,1% del totale, presentavano spazi detentivi non in uso per ristrutturazione e inagibilità.
L’articolo 15 della Legge 354/1975 afferma che, affinché la pena tenda alla rieducazione del condannato, l’organizzazione carceraria è chiamata a tutelare elementi fondamentali del trattamento, quali i rapporti frequenti con la famiglia, il lavoro, l’istruzione, la religione, nonché le attività culturali, ricreative e sportive. Questo implica, seppur indirettamente, che lo spazio abitativo non possa essere concepito unicamente come luogo di custodia, ma debba includere ambienti dedicati alla socialità e alla progettualità trattamentale.
Tuttavia, tale precetto pare ben lontano dal valere per tutti gli istituti di pena: secondo quanto è emerso dalle visite dell’Osservatorio di Antigone, nel 2024 erano ancora 40 gli istituti in Italia ad avere una biblioteca non accessibile come spazio comune, 20 a non avere uno spazio dedicato alle lavorazioni; in 12 istituti c’erano sezioni detentive senza spazi per la socialità, mentre nel 72% dei casi (67 istituti) non erano presenti spazi esclusivamente dedicati al culto per i detenuti non cattolici. Sempre secondo i dati forniti dall’Osservatorio, sarebbero 39 gli istituti ad avere spazi comuni interni o esterni non in uso per inagibilità o per ristrutturazione; più del 22% delle strutture visitate non era dotato di un’area verde per i colloqui estivi, mentre in 20 istituti i detenuti non avevano accesso settimanalmente alla palestra.
A fronte di questo quadro frammentato, emerge l’urgenza di ripensare l’uso degli spazi carcerari non solo in termini quantitativi, ma soprattutto qualitativi.
A fronte di questo quadro frammentato, emerge l’urgenza di ripensare l’uso degli spazi carcerari non solo in termini quantitativi, ma soprattutto qualitativi. Un primo segnale arriva dalla circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dell’11 aprile 2025, che introduce linee guida operative sull’affettività e gli incontri intimi, in attuazione della sentenza n. 10/2024 della Corte costituzionale. Con questa pronuncia, la Corte ha riconosciuto il diritto dei detenuti a incontri privi di controllo visivo con il partner, limitabili solo per comprovate ragioni di sicurezza o esigenze giudiziarie.
La circolare invita le direzioni penitenziarie a individuare spazi adeguati, anche temporanei, privi di controllo visivo diretto e dotati di servizi igienici, da destinare ai colloqui affettivi. Si tratta di una sfida tanto organizzativa quanto culturale, che richiede un deciso cambio di paradigma: non è aumentando i posti detentivi che si può rispondere all’esigenza di rendere la pena più umana, ma, piuttosto, ripensando gli spazi della detenzione – affinché siano realmente in grado di accogliere e tutelare i bisogni relazionali, affettivi e spirituali della persona detenuta. Solo attraverso un uso più consapevole delle strutture disponibili, agendo sulle strutture (anche sociali) – e non solo sulle infrastrutture -, sarà possibile avvicinare il carcere alla sua finalità costituzionale di rieducazione.