Lo sguardo di Antigone sulla tortura. L’analisi di un anno di contenzioso.

di Simona Filippi

Lo sguardo di Antigone sulla tortura. L’analisi di un anno di contenzioso.

Viterbo, Torino, Reggio Emilia e Firenze: la geografia dei processi per tortura nel 2024

Dal processo celebrato a Viterbo per la morte di Sharaf Hassan a quello di Torino a carico del Direttore per omessa denuncia sino ai processi celebrati a Reggio Emilia e a Firenze per tortura a danno di un detenuto.
Nel corso dell’ultimo anno, si sono parzialmente definiti quattro processi che Antigone ha seguito sin dalle prime fasi: sentenza emessa dal GUP del Tribunale di Viterbo in data 27.03.2024 (è attualmente pendente appello), sentenza emessa dalla Corte di Appello di Torino in data 14.11.2024 (è attualmente pendente il procedimento innanzi alla Suprema Corte di Cassazione), sentenza emessa dal GUP del Tribunale di Reggio Emilia in data 17.02.2025 (è stato depositato appello da parte della Procura) e, infine, sentenza emessa dalla Corte di Appello di Firenze in data 03.04.2025 (sono stati presi giorni 90 per il deposito delle motivazioni).

In breve sul processo celebrato a Viterbo a carico dell’allora Direttore per il reato di rifiuto o omissione di atti di ufficio a danno di Sharaf Hassan

Viterbo

In breve sul processo celebrato a Viterbo a carico dell’allora Direttore per il reato di rifiuto o omissione di atti di ufficio a danno di Sharaf Hassan
Il processo – attualmente in fase di appello – si è definito in primo grado nelle forme del rito abbreviato, con la condanna dell’allora Direttore per omissione di atti di ufficio ovvero per non aver provveduto al trasferimento del giovane egiziano presso un Istituto minorile in quanto lo stesso stava appunto scontando una pena per un reato commesso da minorenne e con sentenza di assoluzione per il concorso in omicidio colposo. 1

Il procedimento nasceva dall’avocazione delle indagini effettuata dalla Procura Generale presso la Corte di Appello di Roma che, terminate le indagini, aveva chiesto il rinvio a giudizio a carico del Direttore, di alcuni agenti di polizia penitenziaria e due medici per il reato di omicidio colposo per aver determinato il suicidio di Sharaf Hassan avvenuto il 23 luglio 2018 e per il reato di omissione di atti di ufficio.
Nel motivare la condanna per il mancato trasferimento del giovane, il Giudice, dopo aver dettagliatamente ricostruito la disciplina normativa in tema di trasferimenti, sostiene con fermezza la responsabilità del Direttore il quale, avuta conoscenza dell’ordine di trasferimento che era stato emesso dalla Procura competente, non aveva dato esecuzione all’ordine.
Dal processo è emerso un quadro sconcertante ossia che il Direttore, nonostante la lunga esperienza professionale, non soltanto non era intervenuto nel caso specifico di Sharaf ma non avesse conoscenza alcuna della materia specifica del trasferimento dei giovani adulti tanto che presso la Casa circondariale di Viterbo non erano nemmeno note le circolari in materia nè le indicazioni operative del DAP.
Sulla base di tali valutazioni, il Giudice è giunto dunque a pronunciare sentenza di condanna per il reato di cui all’art. 328 c.p.: “Ora, l’ordine di carcerazione per cui si procede era sicuramente tale da poter essere definito un atto di particolare importanza, essendo attinente alla privazione della libertà personale e relativo a materia – esecuzione delle pene nei confronti di c.d. giovnai adulti – che il medesimo imputato, nonostante la sua lunga esperienza e preparazione, ha affermato di non aver mai approfondito prima del settembre 2018 […]. non solo. Si assume, proprio dalla parte degli imputati, che presso la Casa Circondariale di Viterbo non fossero note nemmeno le circolari emanate in materia – acquisite nel corso delle indagini – nè le indicazioni operative del DAP.” (Sentenza 74/2024 Tribunale di Viterbo pag. 60)

In breve sul processo celebrato davanti alla Corte di Appello di Torino a carico dell’allora Direttore per il reato di omessa denuncia di alcune segnalazioni giunte da detenuti di violenze subite da agenti di polizia penitenziaria

Torino

In breve sul processo celebrato davanti alla Corte di Appello di Torino a carico dell’allora Direttore per il reato di omessa denuncia di alcune segnalazioni giunte da detenuti di violenze subite da agenti di polizia penitenziaria
In riforma della sentenza di primo grado, il giudizio di Appello si è concluso con l’assoluzione dell’allora Direttore del carcere per il reato di omessa denuncia delle segnalazioni di violenze che gli erano giunte.
Attualmente il processo è pendente innanzi alla Suprema Corte di Cassazione su ricorso presentato dalla competente Procura.
In breve: il procedimento ha ad oggetto alcune ipotesi di tortura commesse da parte di agenti a danno di detenuti – attualmente pendente innanzi al Tribunale in composizione collegiale – e due ipotesi di omessa denuncia a carico del Direttore e del Comandante.
Questi ultimi hanno deciso di procedere con le forme del rito abbreviato che si era appunto definito con l’assoluzione del Comandante e la condanna del Direttore.
Secondo i Giudici della Corte di Appello di Torino le comunicazioni pervenute all’allora Direttore della Casa circondariale “Lorusso Cotugno” nel periodo contestato – gennaio 2018/settembre 2019 – avevano ad oggetto “generici comportamenti incongrui” “a danno di non meglio precisati ristretti” e comunque hanno ritenuto non raggiunta la prova della conoscenza da parte del Direttore di “specifici episodi di reato commessi a danno di un detenuto, sufficientemente individuato”.
Soltanto a fronte di un fatto di reato “sufficientemente dettagliato”, prosegue la Corte, “il direttore doveva o denunciare il fatto” “oppure attivare i propri poteri di accertamento dell’episodio”. (Vedasi sentenza 5377/2024 CDA Torino, pagg.22-23).
I Giudici si sono dunque totalmente discostati dalle valutazioni cui era invece giunta il Giudice di primo grado secondo la quale quantomeno già dal 2018 il Direttore era a conoscenza di “una situazione critica e grave” in particolare con riferimento al padiglione C e le segnalazioni pervenute dalla Garante comunale ed anche da altri soggetti erano via via sempre più gravi per cui “sarebbe stato doveroso oltre che opportuno permettere ad un organo esterno, a ciò deputato, di verificare con oggettività e terzietà, ciò che stava succedendo nel carcere.” (Sentenza Tribunale di Torino n.1522/2023 pag.68)
Dunque, in suddetto contesto generale, concludeva il Giudice di primo grado, anche a fronte di segnalazioni “generiche” il Direttore avrebbe dovuto attivare i poteri di approfondimento.
In altri casi segnalati, i Giudici hanno ritenuto non configurabile la responsabilità del Direttore in quanto il detenuto stesso aveva presentato denuncia non tenendo conto nella motivazione delle ritorsioni che il detenuto e i testimoni avevano dovuto subire da parte degli agenti a seguito della presentazione della denuncia.

 

In breve sul processo celebrato davanti al Tribunale di Reggio Emilia a carico di alcuni agenti di polizia penitenziaria per il reato di tortura a danno di un detenuto

Reggio Emilia

In breve sul processo celebrato davanti al Tribunale di Reggio Emilia a carico di alcuni agenti di polizia penitenziaria per il reato di tortura a danno di un detenuto
Il processo si è concluso con la condanna di otto agenti per il reato di abuso di autorità ex art. 608 c.p. – derubricato in questi termini il reato di tortura – ed il reato di falso.
Il pubblico ministero ha presentato appello.
Si ricorda brevemente che i fatti sono stati ripresi dalle immagini video delle telecamere presenti nel corridoio del carcere.
Dalle immagini è possibile vedere un gruppo di agenti che trascina un detenuto incappucciato contro il quale il gruppo agisce violenza sino a farlo cadere per terra, tenerlo immobilizzato, denudarlo e poi continuare nelle violenze e condurlo, privo di pantaloni e mutande, nella cella della sezione di isolamento dove il detenuto si taglia e viene lì lasciato senza intervento alcuno per circa 40 minuti.
Il Giudice definisce “rudimentale e maldestro” il comportamento tenuto dagli agenti e non dotato “di quella pregnanza che si vuole loro conferire nel senso di fare ritenere l’azione degli agenti orientata ad un agire meramente punitivo (“raid punitivo”) e svincolato da qualsivoglia necessità di agire in sicurezza e per la sicurezza.” (Sentenza 91/2025 Tribunale di Reggio Emilia pag. 39)
L’incappucciamento del detenuto non costituisce, secondo il Giudice, una ipotesi di trattamento inumano e degradante in quanto, in astratto, potrebbe sì assumere “la idoneità causale a determinare una minaccia di coesione mentale” ma bisogna poi vedere in concreto.
L’effetto degradante e di stordimento che oggettivamente produce la federa e che potrebbe incidere momentaneamente, sulla stabilità mentale del soggetto nel momento in cui subisce l’azione, non implica in maniera automatica la produzione della predetta minaccia concreta alla coesione mentale, poiché resta strettamente legata alla comprensione dei motivi del gesto, alla conoscibilità degli stessi motivi, alla volontà di collaborare per uscire dalla condizione di “minaccia“.
Così come il denudamento del detenuto viene considerato dal Giudice una circostanza tutto sommato “giustificabile” alla luce della necessità di dover sottoporre il detenuto a perquisizione: “Si ritiene di non poter contestare nemmeno il denudamento in sè delle parti intime, giacché, per quanto sia il più possibile da evitare (come indica il prontuario), appare essere stato strettamente correlato alla necessità di bonificare la persona non collaborante prima dell’ingresso allo Spiraglio.” (Sentenza 91/2025 Tribunale di Reggio Emilia pag. 50)
Infine anche le percosse inflitte alla vittima – sia mentre camminava che mentre si trovava bloccato a terra – vengono inquadrate dal Giudice quale “indice” del reato di abuso: “Le percosse inflitte in queste circostanze hanno una valenza “disciplinare” nei confronti del detenuto e per questo non possono essere ricondotte all’uso della forza fisica (che non è violenza) ex art. 41 ord. penit.“. (Sentenza 91/2025 Tribunale di Reggio Emilia pag. 49)

In breve sul processo celebrato davanti alla Corte di Appello di Firenze a carico di alcuni agenti di polizia penitenziaria per il reato di tortura a danno di un detenuto

Firenze

In breve sul processo celebrato davanti alla Corte di Appello di Firenze a carico di alcuni agenti di polizia penitenziaria per il reato di tortura a danno di un detenuto
La Corte di Appello di Firenze ha confermato la sentenza che era stata emessa dal Tribunale di Siena in composizione collegiale per il reato di tortura posto in essere da un gruppo di agenti a danno di un detenuto l’11 ottobre 2018 presso la sezione di isolamento della Casa di reclusione di San Gimignano.
Brevemente il fatto: un gruppo di agenti, con il pretesto di dover trasferire il detenuto da una cella ad un’altra della sezione di isolamento, lo coglievano di sorpresa, prendendolo per le braccia mentre usciva dalla cella munito degli accessori per fare la doccia e lo sospingevano brutalmente verso il corridoio, facendogli anche perdere le ciabatte; un agente gli sferrava un pugno sulla testa; lo gettavano a terra, circondandolo (in modo tale da creare una sorta di parziale schermo rispetto alle telecamere) e colpendolo con i piedi in varie parti del corpo; lo minacciavano ed ingiuravano, mentre il detenuto gemeva e gridava per la violenza che stava ricevendo, dicendogli “Figlio di puttana!” “Perché non te ne torni al tuo paese!”; “Non ti muovere o ti strangolo!” “Ti ammazzo!” e al tempo stesso urlando contro tutti i detenuti presenti nel reparto: “infami, pezzi di merda, vi facciamo vedere chi comanda a San Gimignano”; lo rialzavano da terra e continuando a spintonarlo per farlo camminare per poi, di nuovo, gettarlo a terra; due agenti lo immobilizzavano mentre si trovava a terra, tenendolo rispettivamente per il braccio e per collo, ponendolo con la faccia a terra; un agente gli montava addosso con il suo peso e ponendogli un ginocchio sulla schiena all’altezza del rene sinistro; lo rialzavano, togliendogli i pantaloni e iniziando a trascinarlo, mentre un agente lo afferrava nuovamente per la gola e un altro gli torceva un braccio dietro la schiena, per poi trascinarlo nella nuova cella; un agente continuava a picchiarlo con schiaffi e pugni all’interno della cella di destinazione assieme ad altri 5 poliziotti; lo lasciavano nella cella di destinazione semi-svestito e senza fornirgli coperte e il materasso della branda, almeno fino al giorno seguente. (Tratto dal capo di imputazione).
La sentenza emessa dal Tribunale di Siena costituisce, ad oggi, la più completa e approfondita pronuncia di merito in tema di tortura. Particolarmente interessanti sono le parti in cui viene ricostruita la pratica corretta dell’isolamento e dove vengono definiti i parametri del reato di tortura e i limiti entro i quali si può parlare di uso legittimo della forza: “L’uso della coazione fisica da parte delle autorità pubbliche in tanto può allora dirsi legittimo, nel nostro ordinamento, in quanto per un verso si riveli un mezzo necessario, proporzionato e adeguato rispetto agli specifici scopi prefissati dalla legge in vista del suo impiego e, per altro verso, ricorra una delle ipotesi tassativamente previste dalla legge come abilitanti l’uso della forza medesima. Di contro, ove siano valicati e così violati i confini imposti da tali requisiti, ogni atto di coercizione fisica configura, se praticato da appartenenti a corpi istituzionali dello Stato, non più «uso legittimo della coazione fisica», bensì «esercizio di illecita violenza» commesso mediante «uso abusivo della forza pubblica» ovvero «abuso di autorità». Ed è proprio l’abuso di autorità a costituire, peraltro, uno dei più evidenti segni e sintomi dell’avvenuta commissione, ad opera di agenti delle istituzioni pubbliche, di atti di tortura ovvero di trattamenti inumani o degradanti.” (Sentenza Tribunale di Siena del 9 marzo 2023)

Non solo tortura. Gli altri contenziosi di Antigone nel 2024

Nell’ultimo anno, abbiamo registrato un aumento di richieste di aiuto da parte dei familiari per i congiunti che si sono tolti la vita in carcere o che sono deceduti per motivi di salute così come sono proseguite le segnalazioni per casi di violenze: esposto su violenze avvenute presso la Casa di reclusione “Opera” di Milano a danno di alcuni detenuti depositato il 10.09.2025 e esposto su violenze avvenute presso la Casa Circondariale “Pagliarelli” di Palermo a danno di un detenuto depositato il 20.12.2024.
Per la prima volta da quando è operativo il contenzioso di Antigone, nel corso del 2024, sono state depositati un esposto per fatti di violenza avvenuti presso un Istituto penale minorile – fatti di violenza che sarebbero avvenuti presso l’Istituto penale minorile “Cesare Beccaria” di Milano – e un esposto per la condizioni di alcuni detenuti appartenenti ad un’articolazione “per la tutela salute mentale” destinata ad accogliere i detenuti affetti da patologie psichiatriche – esposto sul Reparto “Sestante” della Casa circondariale “Lorusso Cotugno” di Torino -.
Di questi nuovi esposti, uno è già giunto alla chiusura della indagini e alla conseguente richiesta di rinvio a giudizio.

Violenze a danno di un detenuto presso Casa Circondariale Santa Maria Maggiore di Venezia

Venezia

Violenze a danno di un detenuto presso Casa Circondariale Santa Maria Maggiore di Venezia
É giunto già a rinvio a giudizio il procedimento nato anche grazie ad un nostro esposto in cui denunciavamo violenze commesse da parte di alcuni agenti di polizia penitenziaria a danno di un detenuto.
In data 27.02.2024, una volontaria dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione dell’Associazione Antigone, segnalava di aver ricevuto notizia di un’azione di violenza commessa da alcuni agenti di polizia penitenziaria a danno di un giovane detenuto, 23 anni, presso la Casa Circondariale Santa Maria Maggiore di Venezia.
Il fatto sarebbe avvenuto qualche settimana prima dunque nel mese di febbraio 2024.
Il 20.02.2024, il detenuto era giunto presso l’ATSM della Casa circondariale di Verona Montorio, tradotto dalla Casa circondariale Santa Maria Maggiore di Venezia, già da tempo in attesa di trasferimento presso quell’istituto.
Il detenuto aveva lamentato alcuni dolori e, a seguito di visita medica, era stato trasferito d’urgenza presso il Pronto Soccorso.
Una volta giunto al Pronto Soccorso dell’Ospedale Borgo Roma di Verona, nella notte tra il 20 ed il 21 febbraio, il giovane veniva operato d’urgenza e poi trasferito nel reparto di terapia intensiva.
L’operazione chirurgica veniva eseguita a causa della rilevazione di una emorragia interna causata dalla rottura di un’arteria.
Il detenuto raccontava, anche alla presenza dei medici e del suo difensore, la drammatica vicenda che lo aveva visto coinvolto ossia di essere stato brutalmente picchiato da tre agenti della polizia penitenziaria all’interno di uno stanzino presso la C.C. Santa Maria Maggiore di Venezia.
A seguito del pestaggio, il giovane era stato ricondotto in cella e per l’intera notte aveva chiesto insistentemente una visita medica a causa dei forti dolori che provava.
Soltanto la mattina del giorno seguente, il detenuto veniva portato in carrozzina presso l’infermeria del carcere.
Qui, il personale medico consigliava alcuni giorni di riposo senza procedere con nessuna indagine specifica.
Il detenuto raccontava che i giorni seguenti al pestaggio i dolori più forti erano quelli legati alle ferite all’orecchio e all’occhio.
Il medico del Pronto soccorso dell’Ospedale Borgo Roma di Verona aveva riferito che il detenuto era arrivato in serio pericolo di vita e che se si fosse attesa la mattina successiva il giovane, con alta probabilità, sarebbe morto.
In data 8 maggio 2025, la Procura della Repubblica ha emesso richiesta di rinvio a giudizio per i reati di lesioni e falso a carico di cinque agenti di polizia penitenziaria.
L’udienza preliminare è fissata per il giorno 16 luglio 2025.

  1. Per completezza, si specifica che la parte assolutoria della sentenza è stata impugnata dalla Procura mentre la difesa dell’imputato ha depositato appello avverso la condanna. Si specifica altresì che due agenti di polizia penitenziaria accusati, assieme al Direttore, di omissione di atti di ufficio sono stati assolti. Il processo di primo grado per il reato di omicidio colposo si sta celebrando per una imputata che non ha scelto di procedere con il rito abbreviato ma con le forme del rito ordinario.