Carcere e salute mentale

Carcere e salute mentale

1024 538 Diciannovesimo rapporto sulle condizioni di detenzione

di Michele Miravalle

Carcere e salute mentale

“Sta’ diventando un carcere di matti”. A dircelo, appena varcata la soglia della ATSM (Articolazione per la tutela della salute mentale) è un ispettore di polizia penitenziaria con tanti anni di servizio alle spalle. Con parole diverse, ma dallo stesso significato, ce lo hanno ripetuto in tanti in questi mesi, nelle molte visite fatte da Antigone nelle carceri del Paese. Poco cambia se si tratti di un grande carcere metropolitano o di una piccola struttura in provincia. In Sicilia o in Trentino. La percezione diffusa tra gli operatori è che le patologie psichiche tra la popolazione detenuta siano in continuo ed esponenziale aumento e che gli strumenti e le risorse a disposizione per trattarla siano sempre più scarse e inadeguate.
Qualcuno, strumentalmente, imputa tale aumento alla chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari avvenuta per legge nel 2014 e nei fatti dal 2017 e il passaggio alle Residenze per l’Esecuzione delle misure di sicurezza.
In mancanza di ricerche epidemiologiche serie e su larga scala, è molto difficile affermare con certezza che vi sia una correlazione significativa tra la chiusura dell’Opg e il disagio psichico in carcere.
Antigone, come sempre, non può accontentarsi di verità di comodo e di soluzioni semplici a problemi complessi. E così, con lo sguardo critico che la contraddistingue, ha chiesto ai suoi Osservatori di provare a guardare e capire quali sono davvero i contorni del disagio psichico in carcere.
Alcuni fatti, incontrovertibili, vanno richiamati. Il principale, con la chiusura degli Opg (a partire dalle l. 9/2012 e, poi, definitivamente, con la l. 81/2014) per le persone con disagio psichico che già si trovano in carcere (i “rei-folli”, come li definisce, ancora, il gergo penalistico) devono essere trovati gli strumenti di cura esclusivamente all’interno del sistema penitenziario. Si è dunque, finalmente, superato il meccanismo dell’ “istituzione di scarico” ben noto agli studiosi delle istituzioni totali. Se non fosse arrivato quel divieto normativo per il sistema penitenziario di “scaricare” sulle nuove Rems la persona detenuta con patologia psichica (nelle forme dell’ “osservazione psichiatrica”, della infermità psichica sopravvenuta o nelle ipotesi previste dagli artt. 111 e 112 del Regolamento penitenziario) il carcere avrebbe continuato a (sovra)affollare le Rems, come prima faceva degli Opg, usando l’etichetta di malattia mentale, come “scusa” per delegare ad altri la gestione di quell’individuo “problematico”. L’unico modo di rompere questo meccanismo, era distinguere la risposta sanzionatoria, precludendo, per legge, la possibilità di ricorrere al ricovero in Rems e riaffermando una tanto netta quanto criticabile divisione tra pene per gli imputabili e misure di sicurezza per i non imputabili.

Oggi dunque, per la persona detenuta con disagio psichico dichiarata capace di intendere e volere esistono due principali soluzioni. Una è fuori dal carcere, qualora la patologia psichica lo renda “incompatibile” con l’ambiente carcerario. E’ questa una strada percorribile, da quando nel 2019 è intervenuta la Corte Costituzionale (sent. n. 99/2019). Investita della questione dalla Corte di Cassazione (Cassazione Penale, Sez. I, Ordinanza n. 13382, 22 marzo 2018) sulla compatibilità costituzionale della differenza tra grave patologia fisica e psichica. Fino ad allora la legge distingueva tra grave infermità fisica e psichica, precludendo ai malati psichici di usufruire delle possibilità date ai malati fisici e, principalmente, del rinvio della pena ex art. 147 c.p. e della detenzione domiciliare ex art. 47, terzo comma, 1-ter (la c.d detenzione domiciliare “in deroga” o “umanitaria”).

L’altra strada – che è anche la più frequente – è che la patologia psichica venga “trattata” dentro al carcere. In quel carcere, psicopatogeno e “fabbrica di handicap” (Gallo e Ruggiero, 1989; Ronco, 2018; Sterchele, 2021), che si deve trovare al proprio interno luoghi e strumenti adatti a curare e controllare, allo stesso tempo, il reo-folle.
Un’ulteriore possibilità, auspicata da molti, ma mai accolta dal legislatore, sarebbe quella di prevedere una misura “alternativa” specificamente pensata per le persone detenute con una patologia psichiatrica diagnosticata nella detenzione domiciliare, sulla scorta dell’affidamento “terapeutico” immaginato per le persone tossicodipendenti.

E così, secondo i dati del Garante nazionale delle Persone private della libertà nel 2022 sono 247 persone, 232 uomini e 15 donne, le persone ospitate nelle 32 Atsm italiane, collocate in 17 istituti penitenziari. Un numero in lieve calo rispetto al 2021, quando nelle Atsm erano detenute 261 uomini e 31 donne.
Le più grandi sono a Barcellona Pozzo di Gotto (50 persone) e Reggio Emilia (43 persone), certamente non a caso quei due istituti erano Opg, oggi diventati case circondariali.

Così, in carcere si sono organizzate, per via amministrativa e regolamentare, senza precisa copertura normativa, le Articolazioni per la tutela della salute mentale (c.d. Atsm), sezioni a prevalente gestione sanitaria, concentrate in pochi istituti, almeno uno per regione, con un compito quasi impossibile: curare il disagio psichico, soprattutto nelle forme più acute, in un luogo di espiazione di pena. Un ossimoro, che ha prodotto sistematiche violazioni dei diritti individuali e gravi problemi gestionali, più volte sottolineati dalla rete dei Garanti delle persone private della libertà, dalle associazione per la tutela dei diritti umani e dal Comitato Europeo per la Prevenzione della Torture durante le visite ispettive svolte nel nostro Paese.
Quelle Articolazioni rispondono però ad un “bisogno” profondo e radicato della cultura psichiatrica e penitenziaria, soprattutto in epoca di risorse scarse. “Dove lo metto?” è la domanda che cela infatti l’urgenza e la continua necessità di trovare una collocazione fisica dove la persona “non rechi danno a sè e agli altri”, un luogo sicuro. Una domanda che mette in secondo e terzo piano, i bisogni della persona, la sua storia clinica e personale, i suoi vissuti, la rete di famigliari e rapporti sociali che quella persona ha fuori dal carcere.
E così, secondo i dati del Garante nazionale delle Persone private della libertà nel 2022 sono 247 persone, 232 uomini e 15 donne, le persone ospitate nelle 32 Atsm italiane, collocate in 17 istituti penitenziari. Un numero in lieve calo rispetto al 2021, quando nelle Atsm erano detenute 261 uomini e 31 donne.
Le più grandi sono a Barcellona Pozzo di Gotto (50 persone) e Reggio Emilia (43 persone), certamente non a caso quei due istituti erano Opg, oggi diventati case circondariali.

Si tratta di numeri molto rilevanti, che non trovano minimamente corrispettivo nella popolazione libera e che indicano che la strada verso “carceri psichiatrizzate” sembra ormai senza ritorno.

Non solo Articolazioni. Il disagio psichico diffuso

Ingenuamente ci si potrebbe chiedere perché se questi sono i numeri dei pazienti psichiatrici acuti in carcere (meno di 300 persone su oltre 55 mila detenuti), il tema della salute mentale in carcere è così sentito e diffuso. I numeri non giustificherebbero quelle preoccupazioni, più o meno velate, espresse dagli operatori nel corso delle visite. La risposta è che in realtà le Atsm affrontano solo una piccola parte del problema, ma non fotografano affatto il disagio mentale diffuso nelle “altre” sezioni detentive, né l’evidente tendenza alla psichiatrizzazione degli spazi detentivi.
Dalla nostra diretta rilevazione nel corso del 2022 emerge che le diagnosi psichiatriche gravi ogni 100 detenuti erano 9,2 (quasi il 10%).
Accanto ai numeri delle persone con una diagnosi medicalmente definita, vi sono il 20% (percentuale doppia ai detenuti con diagnosi) dei detenuti assumeva stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi ed addirittura il 40,3% sedativi o ipnotici. A fronte di questo le ore di servizio degli psichiatri erano in media 8,75 ogni 100 detenuti, quelle degli psicologi 18,5 ogni 100 detenuti.
Scorporando i numeri per genere, si scopre che il disagio psichico sia maggiore tra le donne detenute piuttosto che tra gli uomini. Le donne con diagnosi psichiatriche gravi rappresentavano, negli istituti visitati, il 12,4% delle presenti, contro il 9,2% della rilevazione complessiva; le donne che facevano regolarmente uso di psicofarmaci rappresentavano invece il 63,8% delle presenti, contro il 41,6% complessivo.
Si tratta di numeri molto rilevanti, che non trovano minimamente corrispettivo nella popolazione libera e che indicano che la strada verso “carceri psichiatrizzate” sembra ormai senza ritorno.
C’è insomma un universo, ben più consistente, di persone con patologie psichiche anche gravi che vivono in sezioni diverse dalle Atsm, spesso in sezioni “comuni” delle carceri italiane.
Si tratta di un dato non per forza negativo, anzi, che può temperare lo “stigma” che accompagna la persona con patologia psichica, purchè sia garantito il diritto alla cura e all’assistenza anche in quei luoghi.

Le REMS e le “liste d’attesa” ridimensionate

Se dal punto di vista normativi carceri e Rems sono diventati universi indipendenti, è chiaro che per avere un quadro complessivo del disagio psichico tra le persone private della libertà occorre allargare lo sguardo anche alle misure di sicurezza “psichiatriche”, luoghi che ospitano le persone dichiarate incapaci (o semi incapaci) di intendere e volere al momento della commissione del reato, ma ritenute socialmente pericolose.
Ebbene sì, è trascorso un altro anno, e categorie quali la “non imputabilità per vizio di mente” e la “pericolosità sociale” sono sopravvissute, radicate nell’impianto del codice penale, fin dai tempi della sua approvazione, nel 1930.
Nonostante alcune proposte di riforma, tra cui quella avanzata dal Comitato StopOpg nel nome della responsabilizzazione del paziente psichiatrico autore di reato, il legislatore sembra non avere in agenda modifiche al codice penale sul punto.

Tabella confronto presenze 2021-2022
RegionePresenti in Rems al 31.12.21Presenti al 31.12.22
ABRUZZO2022
BASILICATA00
CALABRIA916
CAMPANIA4239
EMILIA ROMAGNA2225
F.V.GIULIA06
LAZIO7484
LIGURIA1815
LOMBARDIA145133
MARCHE2527
MOLISE00
P.A. BOLZANO00
P.A. TRENTO1010
PIEMONTE3939
PUGLIA3137
SARDEGNA1617
SICILIA5455
TOSCANA2828
UMBRIA00
VALLE D’AOSTA00
VENETO3939
572592

I numeri dei ricoverati continuano a rimanere inferiori ai 600, corrispondenti alla capienza massima dei posti disponibili in Rems (i ricoverati in Opg, prima della chiusura, avevano sempre oscillato sopra quota 1.000). 131 (il 22%) sono stranieri e 71 donne (il 12%).

La Lombardia è la regione che di gran lunga ricovera più persone nell’unica Rems, a Castiglione delle Stiviere. Dunque quasi una persona internata su quattro “risiede” nell’unica Rems lombarda. Per i critici, è questa una grave stortura del sistema ed un “tradimento” dello spirito della riforma. Non è questa la sede per un’attenta disamina sui punti critici e di forza del c.d. “modello Castiglione”, né sulle ragioni politiche, amministrative e sanitarie che hanno portato Castiglione delle Stiviere ad essere, nel bene e nel male, un “modello”.

Altro dato significativo riguarda le posizioni giuridiche delle persone ricoverate in Rems. La suddivisione che qui interessa è tra ricoveri provvisori (art. 206 c.p.) e definitivi (art. 222 c.p.). Nel primo gruppo rientrano coloro che sono ancora sottoposti a procedimento penale, i c.d. definitivi sono invece coloro che sono già stati prosciolti perché non imputabili, ma sottoposti a misura di sicurezza perché socialmente pericolosi.

I pazienti con posizioni “provvisorie” sono ormai stabilmente sopra il 40% del totale dei ricoverati.

Le liste d’attesa

Una delle questioni più dibattute intorno alla questione Rems riguarda le “liste d’attesa”, cioè di quelle persone che pur destinatarie di un ordine di ricovero in Rems non vi accedono, per mancanza di posti disponibili. E’ forse tra le più intricate questione aperte dalla riforma, sia sul piano giuridico che politico. È forse questo il terreno di maggiore attrito tra cultura giuridica e cultura sanitaria. “In attesa di posto in Rems” era Valerio Guerrieri, morto suicida nel febbraio 2017 nella sua cella del carcere di Regina Coeli a Roma, nonostante il giudice avesse ordinato la misura di sicurezza. L’idea che un ordine legittimamente posto dall’autorità non venga eseguito, o meglio non possa essere eseguito per mancanza di posti, è una novità assoluta nel campo dell’esecuzione penale. Nel contesto italiano, nessun istituto penitenziario si rifiuterebbe di ospitare una persona destinataria di un ordine di carcerazione perché è stata raggiunta la capienza massima. Nel microcosmo Rems queste “impossibilità” rappresentate dalla direzione sanitaria all’autorità giudiziaria sono invece prassi quotidiana, fin dai primi giorni di apertura delle nuove Residenze, motivo per il quale nessuna Rems ospita – né ha mai ospitato – un numero superiore di persone rispetto ai posti disponibili. Insomma, il sistema delle misure di sicurezza non conosce sovraffollamento, fenomeno invece endemico del contesto penitenziario italiano.

Sul tema è tuttavia difficile avere una posizione minimamente oggettiva, basata su dati realistici e verificati. Le “liste d’attesa” sono infatti gestite a livello regionale, senza criteri di priorità condivisi e senza una banale condivisione dei numeri. Anche nella Relazione inviata alla Corte Costituzionale nell’ambito dell’istruttoria prodromica alla sentenza n. 22/2022 i dati comunicati dal Ministero della Salute e quelli provenienti dal Ministero della Giustizia differivano. Proprio quella sentenza, pur richiedendo urgenti interventi normativi, “salvava” il sistema delle liste d’attesa.

Senza una raccolta dati centralizzata e credibile, ogni presa di posizione sulla questione delle liste d’attesa non potrà che essere ideologica e frutto della percezione individuale. Al netto di questa osservazione, l’allungarsi delle liste d’attesa pone due questioni: sull’ “accuratezza” con cui vengono ordinati i ricoveri in Rems e su dove collocare le persone “in attesa”. Se infatti si analizzano le posizioni giuridiche delle persone in lista d’attesa, si nota come la maggior parte siano “provvisori” e dunque in attesa della conclusione del giudizio a loro carico. Una delle ipotesi che andrebbe approfondita è se esiste, tra la magistratura di cognizione, una minor consapevolezza dell’efficacia delle misure “alternative” alla Rems, capaci comunque di rispondere alle esigenze di sicurezza.

Va notato che l’80% delle persone in lista d’attesa nel corso dell’anno ha trovato una collocazione, in Rems oppure è entrata in strutture residenziali comunitarie.

Secondo i dati parziali, ma rigorosi, raccolti dal sistema Smop a cui aderiscono la maggior parte ma non tutte le regioni italiani, le persone in lista d’attesa a fine 2022 erano 404. Va notato che l’80% delle persone in lista d’attesa nel corso dell’anno ha trovato una collocazione, in Rems oppure è entrata in strutture residenziali comunitarie.

Si segnale che, proprio sulle liste d’attesa, è stato siglato l’ Accordo della Conferenza Unificata Stato-Regioni n. 188/CU del 30 novembre 2022 che stabilisce criteri per l’ammissione alle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza e unificati a livello nazionale, eliminando quelle scelte discrezionali che variavano da Regione a Regione e che, in alcuni casi, vedevano il criterio cronologico come elemento principale per l’assegnazione.

La Conferenza Unificata ha stabilito che i criteri di tenuta delle liste di attesa devono tenere conto della data di applicazione della misura di sicurezza detentiva in Rems, delle caratteristiche sanitarie del paziente e del livello attuale di inappropriatezza della collocazione del paziente cui è applicata una misura di sicurezza detentiva immediatamente eseguibile (con particolare riferimento allo stato di detenzione in Istituto penitenziario o al ricovero in SPDC), ma anche dell’adeguatezza, al momento di ogni revisione della lista di attesa, delle soluzioni assistenziali, non solo residenziali, alternative alla Rems per i pazienti assegnati.

Dove sono le alternative? Il nodo delle comunità terapeutiche “fuori”

Se si intende svolgere un ragionamento compiuto e non strumentale intorno al tema della salute mentale e questione criminale, occorre allargare lo sguardo anche alle misure di sicurezza “non detentive”, cioè a quell’arcipelago di residenze, comunità terapeutiche, gruppi-appartamenti, soluzioni semi-residenziali che hanno storicamente costituito l’architrave del modello non custodiale, così come declinato nel contesto italiano post riforma Basaglia e che ha ispirato anche la riforma del superamento degli Opg.
Esso si basa tradizionalmente su strutture residenziali di piccole dimensioni, che possano accogliere persone con medio-bassa pericolosità sociale, capillarmente diffuse sul territorio e in grado di garantire un percorso terapeutico e riabilitativo al paziente. In queste strutture le esigenze di cura dovrebbero prevalere su quelle di sicurezza, grazie anche alla presenza esclusiva di personale sociosanitario e a strutture che, anche architettonicamente, assomiglino il meno possibile a luoghi di internamento o detenzione.

Si noti come tutte le proposte di riforma delle misure di sicurezza, sia quelle di stampo abolizionista che revisionista, concordano sul fatto che debbano esistere luoghi a carattere comunitario dove i folli-rei, in particolare quelli con una medio-bassa pericolosità sociale, debbano essere accolti.
Già sul fronte della psichiatria civile, il “modello Basaglia”, e dunque quell’approccio democratico alla salute mentale, di tendenza anti-psichiatrica, aveva proprio nell’esistenza delle c.d. strutture territoriali intermedie uno dei suoi capisaldi. La dismissione dei manicomi civili avrebbe dovuto essere accompagnata da una rete capillare di servizi e luoghi dove curare la malattia mentale prescindendo dalla segregazione e dalla separazione dal “mondo dei sani”, luoghi profondamente connessi con il territorio, dove promuovere una psichiatria di comunità1). Solo le fasi acute della patologia psichiatrica avrebbero necessitato di interventi più coercitivi, anche contro la volontà del paziente, ma sempre all’interno di strutture sanitarie pubbliche, quali sono, ancora oggi, gli SPDC (Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura) all’interno degli ospedali civili.

Luoghi con queste caratteristiche non sono dunque una novità conseguente alla dismissione degli Opg, anzi da tempo costellano il territorio italiano (sia in aree urbane che rurali), assumendo le denominazioni più varie (comunità terapeutiche, di recupero, di accoglienza, case famiglia, gruppi appartamento…) a seconda delle normative locali e trovano cittadinanza giuridica nel nostro ordinamento ex l. 328/2000, con cui si disciplina il sistema integrato di interventi e servizi sociali.
Essendo infatti quella della salute e dei servizi sociali ai sensi ex art. 117 Cost. una materia a potestà legislativa concorrente tra Stato e Regioni, ogni ente regionale ha regolamentato l’effettivo funzionamento dei servizi sociali territoriali ai sensi dell’art. 8 l. 328/2000.

Nel campo della salute mentale, la suddivisione tra tipologie di comunità avviene solitamente sulla base dell’“intensità terapeutica”, cioè sui livelli di assistenza che è necessario garantire. Ad ogni livello corrisponde una retta giornaliera che, nel caso di pazienti in misura di sicurezza, viene pagata dall’azienda sanitaria locale competente. Nella quasi totalità dei casi si tratta infatti di comunità gestiste da enti privati (cooperative, società con scopo di lucro, associazioni…) che superano un processo di “accreditamento” con i servizi sanitari.

Le comunità dunque non sono certo un’invenzione recente per l’ordinamento italiano, dove hanno avuto un ruolo fondamentale (e controverso) per quanto riguarda la cura e l’accoglienza della tossicodipendenza, dell’abbandono e della devianza minorile, della violenza famigliare, così come del disagio psichico.

Nel 2022 in Italia sono 5.587 le persone in libertà vigilata, cioè fuori dal circuito carcerario, ma con una qualche forma di controllo, per lo più ospitati in residenze di tipo “comunitario”. Numeri che suggeriscono l’urgenza di guardare di più e meglio a ciò che succede “intorno” a Rems e carceri

Limitando l’analisi alle misure di sicurezza non detentive nel 2022 in Italia sono 5.587 le persone in libertà vigilata, cioè fuori dal circuito carcerario, ma con una qualche forma di controllo, per lo più ospitati in residenze di tipo “comunitario”. Numeri che suggeriscono l’urgenza di guardare di più e meglio a ciò che succede “intorno” a Rems e carceri.

References

References
1 La bibliografia su ideali e pratiche antipsichiatriche è sterminata, in particolare sui rapporti tra psichiatria e territorio e sull’approccio “di comunità” alla psichiatria si segnalano il recente volume di “buone pratiche” e di attualizzazione del pensiero basagliano P. Pellegrini et al., Soggetto, Persona, Cittadino, Merano, 2019; G. Gallio e M.G. Cogliati Dezza, La città che cura, Merano, 2018 e P. Carozza, La psichiatria di comunità tra scienza e soggettività, Milano, 2010. In senso critico, per un’analisi dei limiti e dei fallimenti della de-istituzionalizzazione cfr. gli editoriali di Elvezio Pirfo (Psichiatria di comunità e psichiatria sociale in Italia: problemi attuali e futuri) e di Julian Leff (Nuove sfide per la psichiatria di comunità) pubblicati sul primo numero della rivista Psichiatria di comunità (2002).