Patrizio Gonnella

Siamo al diciannovesimo rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione in Italia. Il primo risaliva al cambio di millennio e fu la straordinaria visione di un grande magistrato, Sandro Margara, che si trovava a capo del Dap a quel tempo, a consentirci di svolgere il nostro lavoro di osservazione delle carceri.

«Stanchezza penitenziaria» la definiva Salvatore Mannuzzu, indimenticato scrittore che introdusse il nostro primo rapporto, allora era cartaceo e si titolava ‘Il carcere trasparente’, nel lontano 2000. Così Mannuzzu stigmatizzava una retorica che non si trasformava mai in riforma e trasformazione sociale. Il carcere è un grande pachiderma difficile da spostare in avanti. Per riuscirci è necessaria tanta pazienza. I movimenti sono lenti ma non sempre impercettibili. Noi abbiamo provato in questi ventitré anni a raccontare il carcere così come lo abbiamo osservato. In modo sobrio. Il tutto con l’obiettivo di spostarlo verso l’asse costituzionale. L’osservazione può influenzare l’oggetto osservato? Non è facile dirlo e forse non dobbiamo dirlo noi. La nostra ambizione è quella di costruire un movimento di pensiero e azione che aiuti i tanti vinti dalla stanchezza penitenziaria. E fra questi a volte ci sono gli stessi operatori penitenziari. Magistrati, direttori, poliziotti, educatori, assistenti sociali, psicologi, medici, infermieri, mediatori culturali, volontari, insegnanti che sono chiusi dentro una routine che stanca, che scandalizza, che si ripete in modo grigio. A loro vorrei dedicare questo rapporto di Antigone. A tutte quelle persone eccezionali che ‘instancabilmente’, anche nei periodi più difficili dell’era repubblicana, hanno continuato a dirigersi verso un’idea di pena che non sia mera sofferenza o pura afflizione. Nello specifico, vorrei dedicarlo a chi come Marco ha lottato per la dignità delle persone detenute. Forza Marco. Senza di te non ci sarebbe stato il più grande processo per tortura in Europa.

Il carcere non è solo questione normativa. Non può essere compreso se non utilizzando anche categorie estranee alla legge e alle politiche criminali. Il carcere è una enorme questione sociale e antropologica. I numeri che noi raccontiamo non sono freddi numeri. A loro corrispondono nomi, storie, biografie, successi, delusioni, fallimenti, morti, figli, genitori, amori, tragedie. Se non capiamo che a ogni numero corrisponde una persona non sarà mai possibile spostare l’asse della pena fuori dai confini di una idea di carcerazione intesa come vendetta.

Anche i direttori, poliziotti, educatori, assistenti sociali, psicologi, medici, infermieri, mediatori culturali, volontari, insegnanti non possono essere sintetizzati in numeri. Scriveva un amico che ci ha lasciato qualche anno fa, Nils Christie, che ogni detenuto dovrebbe essere affiancato da un operatore che gli stia vicino, che stia al suo fianco. Non per guardarlo a vista come nella più antica tradizione calcistica ma per accompagnarlo verso la libertà. Dunque il prossimo passaggio lento potrebbe avvenire grazie a quei giovani nuovi direttori che entreranno in autunno in carcere dopo un anno di formazione. Loro non sono ancora ‘stanchi’. Il Dap, che ringraziamo per darci l’opportunità democratica dell’osservazione, speriamo li custodisca nella loro condizione di assenza di cinismo. Il carcere dei prossimi decenni è nelle loro mani preziose.

Il rispetto dei diritti delle persone detenute richiede la cooperazione di tutti gli attori pubblici, media compresi. L’articolo 27, terzo comma, della Costituzione, nella sua formulazione nitida, non si rivolge solo a magistrati e staff carcerario. Si rivolge anche ai media i quali non debbono mai trasformarsi nei distruttori del senso costituzionale della pena. Non è facile spiegare a chi guarda la tv o legge un articolo, agli spettatori, alla massa degli utenti televisivi o web, il “dover essere” normativo costituzionale penitenziario. Non è facile ma va fatto. È questa un’epoca, però, dove più che la ‘stanchezza’ di Mannuzzu subiamo la semplificazione, il populismo penale mascherato nelle forme più varie e subdole. Ci auguriamo che quel che resta del 2023 sia un anno, giornalisticamente parlando, più rispettoso di quella ricca antropologia carceraria che invece è spesso trattata con l’ascia televisiva o social.

La pena non deve mai consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Per tutti e per tutte. Senza eccezioni. Il sistema penale è fortemente selettivo. La questione carceraria è anche un’enorme questione di classi subalterne e di esclusione sociale. Noi proviamo a raccontarlo con numeri, parole, grafici, storie, approfondimenti. Non dobbiamo e non possiamo ‘usare’ il carcere per risolvere i conti che non ci piacciono all’esterno. Ogni vita è una vita. Ogni persona è uno. Piaccia o non piaccia questa è la filosofia di Antigone.