Il caso Cospito

Il caso Cospito

1024 538 Diciannovesimo rapporto sulle condizioni di detenzione

di Ignazio Patrone

La sentenza della Corte costituzionale n. 94 del 2023 ed il “caso Cospito”

Da molti anni si era sopita la discussione sul regime detentivo speciale di cui all’art. 41-bis dell’Ordinamento penitenziario e sulla necessità di mantenere, alle condizioni oggi vigenti, una modalità di esecuzione della pena tale da esser comunemente definita, nel dibattito politico e sui media, come il “carcere duro”. Si era anche affievolito il dibattito sulla misura delle pene previste per molti reati, sanzioni come l’ergastolo spesso del tutto esorbitanti rispetto alla finalità di risocializzazione richiesta ed imposta dall’art. 27 della Costituzione e dettate da un Codice penale entrato in vigore novantatre anni or sono in pieno regime fascista.

Il lungo sciopero della fame intrapreso dall’anarchico Alfredo Cospito per protestare contro il regime speciale inflittogli con decreto della Ministra Cartabia del 4 maggio 2022 ha avuto il merito di riaprire quei dibattiti anche se, al momento, la risposta delle istituzioni e della stessa giurisprudenza non sempre è stata nel senso da molti auspicato.

Cospito è un condannato “irriducibile” che si trova da tempo in esecuzione di severe pene detentive inflittegli per aver commesso gravi reati quali l’attentato per finalità terroristiche o di eversione, il porto illegale di armi, il furto, l’istigazione a delinquere, il danneggiamento, le lesioni personali aggravate ed altri ancora.

Tra le condanne considerate dal decreto di applicazione del 41-bis vi è anche quella a venti anni di reclusione stabilita con la sentenza della Corte d’Assise di Torino del 24 aprile 2019, confermata dalla Corte d’Assise di Appello di Torino con sentenza del 24 novembre 2020, per avere Cospito piazzato due bombe davanti alla caserma dei carabinieri di Fossano, condotta peraltro rimasta senza vittime, oltre ad alcuni ordigni in cassonetti dell’immondizia a Torino: la Corte di Cassazione, con sentenza del 6 luglio 2022, n. 38184, in accoglimento del ricorso del Procuratore generale di Torino, ha però annullato la sentenza impugnata in conseguenza della riqualificazione di uno dei reati contestati (anziché la violazione dell’art. 422 cod. pen., strage comune, il reato di cui all’art. 285 cod. pen., devastazione, saccheggio e strage commessi al fine di attentare alla sicurezza della Stato), con rinvio alla Corte d’Assise d’Appello di Torino per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio.

La Corte torinese si era perciò trovata nella condizione di poter irrogare l’ergastolo, e solo l’ergastolo, come previsto dall’art. 285 cod. pen., senza poter graduare la pena

La Corte torinese si era perciò trovata nella condizione di poter irrogare l’ergastolo, e solo l’ergastolo, come previsto dall’art. 285 cod. pen., senza poter graduare la pena al Cospito in quanto plurirecidivo, e di non poter riconoscere allo stesso la circostanza attenuante di cui all’art. 311 cod. pen. prevista nei casi in cui il giudice ritenga il fatto di particolare tenuità. Ha quindi sollevato, con ordinanza del 19 dicembre 2022, questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251, la cd legge ex-Cirielli (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione) in riferimento agli artt. 3, primo comma, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione.

Con la riforma del 2005 si è voluto, con la contemporanea modifica del quarto comma dell’art. 69 e del quarto comma dell’art. 99 cod. pen., operare un vero e proprio ritorno al passato ed al testo originale del Codice del 1930, abbandonando il quadro delineato dalla riforma di cui al decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99, convertito con modificazioni dalla legge 7 giugno 1974, n. 220 (Provvedimenti urgenti sulla giustizia penale), il cui art. 6 aveva modificato il quarto comma dell’art. 69 cod. pen. prevedendo che “le disposizioni precedenti [sulla prevalenza ed il bilanciamento delle circostanze attenuanti e aggravanti] si applicano anche alle circostanze inerenti alla persona del colpevole ed a qualsiasi altra circostanza per la quale la legge stabilisca una pena di specie diversa o determini la misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato”.

Con la legge del 2005 si è così creato un vero e proprio circuito penale più severo – sulla base di una circostanza del tutto svincolata dalla gravità del reato ma legata esclusivamente ai precedenti del colpevole – appunto la recidiva aggravata

Con la legge del 2005 si è così creato un vero e proprio circuito penale più severo – sulla base di una circostanza del tutto svincolata dalla gravità del reato ma legata esclusivamente ai precedenti del colpevole – appunto la recidiva aggravata. Un meccanismo che inevitabilmente va ad incidere in senso negativo sul percorso rieducativo e trattamentale del condannato e, non di rado, sullo stesso affollamento delle carceri, potendosi fondatamente ritenere che vi sia una correlazione tra durata complessiva delle pene inflitte e più lunghe permanenze negli istituti.

Abbiamo altresì rimarcato come l’art. 285 doc. pen., si muove secondo un’impostazione, che è quella complessiva del Codice del 1930, che mette lo Stato al di sopra dei cittadini e dei loro diritti

Associazione Antigone ha depositato, in data 13 febbraio 2023, una propria opinione scritta ai sensi dell’art. 6 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale (cd amicus curiae), opinione che è stata ammessa. Nella nostra opinione abbiamo tra l’altro sostenuto come la sentenza della Corte di cassazione che ha ritenuto che il reato commesso dovesse essere meglio qualificato quale violazione dell’art. 285 cod. pen., la cd “strage politica”, fosse estremamente severa dal momento che essa ha valutato il reato dal punto di vista del movente dell’autore (certamente violento e riprovevole) ma non sulla effettiva lesione del bene protetto dalla norma incriminatrice, essendo dubbio che un attentato, certamente grave ma rimasto senza vittime, ad una caserma dell’Arma o a cassonetti della spazzatura possa costituire un serio attentato alla sicurezza stessa dello Stato.

Abbiamo altresì rimarcato come l’art. 285 doc. pen., una disposizione che non aveva precedenti nel Codice Zanardelli, si muove secondo un’impostazione, che è quella complessiva del Codice del 1930, che mette lo Stato al di sopra dei cittadini e dei loro diritti: come afferma il Guardasigilli Rocco nella sua Relazione al Re, “… lo Stato è concepito come un organismo, ad un tempo, economico e sociale, politico e giuridico, etico e religioso”: ed ancora “a tali preminenti fini e interessi che sono i fini e interessi statuali debbono, dunque, venire subordinati, nel caso di eventuali conflitti, tutti gli altri interessi individuali o collettivi, propri dei singoli, delle categorie e delle classi che hanno, a differenza di quelli, carattere transeunte e non già immanente, come gli interessi concernenti la vita dello Stato” [Relazione al Re, Considerazioni generali, par. 1].

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 94 del 2023, ha pienamente accolto la questione sollevata dalla Corte torinese, pronunciando una decisione che, nella motivazione, delinea i confini della discrezionalità legislativa nello stabilire la misura delle pene e stabilisce il quadro costituzionalmente legittimo del potere del giudice di bilanciare in ogni caso le circostanze del reato senza il vincolo di una pena fissa ed immutabile. Dopo aver ampiamente richiamato i propri precedenti in materia, la Corte, anziché limitarsi ad applicarli nel caso in esame, ha inteso approfondire gli argomenti a favore dell’accoglimento.

Il divieto di prevalenza delle attenuanti in caso di recidiva reiterata, era già stato dichiarato costituzionalmente illegittimo più volte con pronunce tutte relative a distinti reati e a specifiche circostanze attenuanti

Anzitutto ha affermato che il divieto di prevalenza delle attenuanti in caso di recidiva reiterata, era già stato dichiarato costituzionalmente illegittimo più volte con pronunce tutte relative a distinti reati e a specifiche circostanze attenuanti “ma tutte riconducibili a principi comuni”: anzitutto la marcata “ampiezza della divaricazione tra la pena base prevista per il reato non circostanziato e quella risultante dall’applicazione dell’attenuante; divaricazione che, per essere compatibile con i principi di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), di offensività della condotta penale (art. 25, secondo comma, Cost.) e di proporzionalità della pena tendente alla rieducazione del condannato (art. 27, terzo comma, Cost.), richiede necessariamente che il giudice possa operare l’ordinario giudizio di bilanciamento delle circostanze (art. 69 cod. pen.), senza che sia preclusa la valutazione di prevalenza dell’attenuante sulla recidiva reiterata.

La deroga al giudizio di bilanciamento determina, in questi casi, “una «alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti nella strutturazione della responsabilità penale» (sentenza n. 251 del 2012), perché finisce per comportare l’applicazione di pene identiche per violazioni di rilievo penale marcatamente diverso”.

Quindi la Corte ha rimarcato l’importanza del giudizio di bilanciamento fra tutte le circostanze del reato nel caso in cui – come avviene per il reato di cui all’art. 285 cod. pen. – la pena risulti di “eccezionale asprezza”, assegnando al bilanciamento una funzione riequilibratrice “del marcato divario tra una pena particolarmente elevata per il reato base a fronte di quella che altrimenti risulterebbe dall’applicazione dell’attenuante; funzione che, per il rispetto dei principi costituzionali di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), di offensività della condotta sanzionata penalmente (art. 25, secondo comma, Cost.) e di proporzionalità della pena tendente alla rieducazione del condannato (art. 27, terzo comma, Cost.), non può essere compromessa dal divieto di prevalenza sulla recidiva reiterata recato dalla disposizione censurata”: una motivazione, questa, che travalica la questione sottoposta alla decisione della Corte ma assume il rilievo di un principio generale suscettibile di altre future applicazioni.

La sentenza ha poi affrontato il tema dell’ergastolo – unica pena prevista dall’art. 285 cod. pen. – compatibile con l’art. 27 della Costituzione, ribadendo che “ … in via di principio, previsioni sanzionatorie rigide non sono in linea con il «volto costituzionale» del sistema penale, potendo esse essere giustificate solo «a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, quest’ultima appaia ragionevolmente“proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato» (sentenze n. 222 del 2018 e n. 50 del 1980).”

Infine la Corte chiude la motivazione con una affermazione avente portata certamente generale e soprattutto espansiva: afferma infatti che “L’accertata violazione, da parte della disposizione censurata, di tutti i parametri costituzionali evocati dal giudice rimettente, vale non solo per il reato di cui all’art. 285 cod. pen., punito appunto con la pena edittale fissa dell’ergastolo, e in riferimento all’attenuante di cui all’art. 311 cod. pen., che il giudice rimettente ritiene di poter applicare, ma vale altresì con riguardo ad ogni altra attenuante, comprese le attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis cod. pen., e per tutti gli altri reati puniti allo stesso modo, ossia con la pena edittale fissa dell’ergastolo (quali quelli sopra richiamati al punto 3), quando parimenti operi il divieto di prevalenza delle attenuanti”.

Laddove la proporzione tra sanzione e offesa difetti manifestamente, non ne potrà che discendere una compromissione ab initio del processo rieducativo

Ci pare in definitiva di poter affermare come la Corte si sia mossa nel solco di quell’altra sua decisione, la n. 68 del 2012, nella quale si è affermato che “laddove la proporzione tra sanzione e offesa difetti manifestamente, perché alla carica offensiva insita nella condotta descritta dalla fattispecie normativa il legislatore abbia fatto corrispondere conseguenze punitive di entità spropositata, non ne potrà che discendere una compromissione ab initio del processo rieducativo, processo al quale il reo tenderà a non prestare adesione, già solo per la percezione di subire una condanna profondamente ingiusta (sentenze n. 251 e n. 68 del 2012), del tutto svincolata dalla gravità della propria condotta e dal disvalore da essa espressa. In tale contesto, una particolare asprezza della risposta sanzionatoria determina perciò una violazione congiunta degli artt. 3 e 27 Cost., essendo lesi sia il principio di proporzionalità della pena rispetto alla gravità del fatto commesso, sia quello della finalità rieducativa della pena (sentenza n. 68 del 2012, che richiama le sentenze n. 341 del 1994 e n. 343 del 1993)”.

L’auspicio è che il legislatore si muova finalmente nel senso ormai più volte indicato dal Giudice delle leggi, mettendo mano, a settantacinque anni dalla entrata in vigore del Codice penale, a quella revisione dei reati aventi carattere più marcatamente politico ed alla definitiva abrogazione della legge cd ex Cirielli, ormai più e più volte dichiarata costituzionalmente illegittima.