Monza

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1024 538 Diciannovesimo rapporto sulle condizioni di detenzione

di Carlotta Cherchi e Valeria Verdolini

Monza, tra violenza strutturale e gestione della vita quotidiana: note sparse a partire dal processo

Quella persona viene scaricata, come fosse una cosa è quello che noi diciamo è una cosificazione

I fatti : Le immagini della violenza quotidiana

Il 12 agosto 2021 viene trasmesso in esclusiva su RAI 1 un estratto di un video ripreso dalle telecamere di sorveglianza di un istituto penitenziario. La voce del cronista colloca le immagini nel tempo e nello spazio: si tratta del pestaggio di un detenuto avvenuto nel carcere di Monza, che ha portato al rinvio a giudizio di due agenti, due ispettori e della vicecomandante alla fine del mese di luglio 2021 per fatti avvenuti due anni prima. La voce del cronista annuncia che si svolge nel reparto di infermeria. Il video non ha audio. C’è un detenuto in mutande, su una barella, accompagnato da 4 agenti, tre lo circondano attorno alla barella, ai lati delle braccia e dietro la testa. Il reparto è vuoto, tutti i blindi sono chiusi. Gli agenti indossano guanti di lattice. Lo immobilizzano tenendolo per le braccia. Due si posizionano sul lato destro della barella. Uno torce il braccio destro del detenuto. L’altro schiaccia il petto. Un terzo agente guarda, in piedi. Il quarto agente, sulla sinistra, inizia a colpirlo con degli schiaffi in faccia ripetuti. Il filmato stacca e riprende dall’altra parte del corridoio. Il detenuto, sempre riverso sulla barella, viene portato nell’ultima cella in fondo al corridoio. Ora gli agenti sono cinque. Il garante nazionale, intervistato durante il servizio, commenta così: “Quella persona viene scaricata, come fosse una cosa è quello che noi diciamo è una cosificazione. C’è stato anche un tentativo di coprire ciò che era avvenuto”. E prosegue: “ci sono settori che all’interno del corpo di polizia penitenziaria hanno questo tipo di cultura che va estirpata proprio per il bene del corpo della polizia penitenziaria”.

In questo caso il video prodotto non aiuta a comprendere i fattori individuali, ma restituisce una consapevolezza della presenza della telecamera (la maggior parte delle azioni avviene infatti nel “cono d’ombra” della registrazione). Possiamo intuire la rapidità dei gesti ma anche la convinzione che quegli stessi gesti non siano visibili né tracciabili, a differenza delle immagini di Santa Maria Capua Vetere, in cui – seppur supposte – le telecamere non vengono considerate. In quest’ultimo caso l’azione avviene in differenti spazi del penitenziario, con un’organizzazione collettiva che non si sottrae alla visione dei livelli apicali. Nella vicenda monzese, invece, il centro dell’azione avviene fuori dall’occhio di chi guarda, il corpo è sottratto alla vista, così come i gesti. Anche in questo caso, però, ritorna la dimensione collettiva dell’azione. Indipendentemente dalle motivazioni sottese, con le immagini ritorna anche la possibilità di far emergere un episodio di violenza in un contesto di custodia in cui, come rivela la prassi anche del processo monzese, predominano meccanismi a volte opachi di occultamento e inquinamento degli elementi di prova.

Antefatti: il carcere di Monza, 10 anni di note da una struttura complessa

Cosa accade se allarghiamo lo sguardo e proviamo a ricostruire il contesto attorno alla videocamere di registrazione? La casa circondariale e di reclusione San Quirico di Monza (MB) è una casa circondariale di medie dimensioni, con caratteristiche peculiari che la rendono unica nello scenario lombardo. L’istituto, infatti, ha da sempre un alto tasso di sovraffollamento (superiore al 150%) che, salvo pochissimi momenti di deflusso, negli ultimi 17 anni ha portato alla presenza costante della brandina pieghevole. Inoltre, l’istituto si distingue per una popolazione caratterizzata da alti tassi di tossicodipendenza (oltre il 50%), una presenza straniera costante e significativa (oltre il 50%) e una significativa incidenza del disagio psichico.
Come riporta il CPT nel report della sua ultima visita presso l’istituto (2022) “nel carcere di Monza, circa il 50% della popolazione carceraria aveva una doppia diagnosi di disturbo mentale e da uso di sostanze e il 5% dei detenuti (da 30 a 40) soffriva di una forma grave di psicosi e disturbi dell’umore”. Questo dato si spiega per la storica collocazione presso l’istituto di 5 celle ROP e un contiguo e connesso reparto di infermeria (il lato D). Il carcere di Monza possiede l’unica unità ATSM (5 celle) in Lombardia dedicata alle persone collocate ai sensi dell’articolo 112 del “Regolamento penitenziario per l’osservazione psichiatrica” (solo diagnostica). In teoria, i detenuti gravemente malati di mente, già diagnosticati, dovrebbero essere inviati negli ospedali di comunità per essere curati. Tuttavia, in molte occasioni, persone a cui erano già stati diagnosticati disturbi mentali sono state inviate da altre carceri della regione per essere curate nei locali dell’ ATSM di Monza. Da gennaio 2019 a dicembre 2021, 114 persone sono state ospitate nell’ATSM, 18 delle quali sono state inviate negli ospedali psichiatrici civili per essere curate (ricoveri urgenti) in quanto gravemente malate. Nello stesso periodo il carcere di Monza ha trasferito 117 pazienti in SPDC per il trattamento (di cui 47 hanno ricevuto un TSO in ambito psichiatrico civile) e 12 pazienti sono stati inviati in REMS.
E ancora, il CPT evidenzia l’alta frequenza dell’isolamento come punizione disciplinare (è stato emesso più frequentemente, anche se non eccessivamente: ad esempio, 15 volte nel 2022 (1° trimestre) e 80 volte nel 2021 e nel ribadire l’illegittimità di qualsiasi forma di maltrattamento, compreso l’uso eccessivo della forza e l’abuso verbale, riporta la denuncia di un detenuto del carcere di Monza che “quando aveva rifiutato l’ordine di recarsi nella sua cella, un agente penitenziario lo aveva spinto violentemente da dietro facendogli sbattere la testa contro la porta della cella. La cartella clinica riportava che aveva subito un trauma cranico nella sua cella, che aveva una profonda lacerazione nella regione frontale superiore e che gli erano stati applicati dei punti di sutura. Il detenuto ha dichiarato di non aver sporto denuncia perché pensava che ciò avrebbe comportato difficoltà con gli agenti penitenziari”.
A compensazione, o forse proprio per la conformazione, l’istituto ha un organico di polizia penitenziaria consistente, con una media di 2 detenuti per ogni agente, ma nelle parole e nei racconti degli altri agenti “con moltissimi ispettori”.

La storia dell’istituto è puntellata da eventi dolorosi: 23 suicidi in 20 anni, con alcuni picchi (3 solo nel 2021) e in generale un numero significativo di eventi critici. La vocazione sanitaria dell’istituto rimane stabile nel tempo

La storia dell’istituto è puntellata da eventi dolorosi: 23 suicidi in 20 anni, con alcuni picchi (3 solo nel 2021) e in generale un numero significativo di eventi critici. La vocazione sanitaria dell’istituto rimane stabile nel tempo. Già nel corso delle visite del 2013 (precedenti alla chiusura degli OPG) l’organizzazione della struttura e la composizione sociale erano molto simili alle attuali. In quell’anno, inoltre, erano giunte una serie di segnalazioni sul trattamento piuttosto aggressivo e intimidatorio riservato a certi detenuti e una richiesta della famiglia di un ragazzo di ventidue anni (F. S.), entrato in carcere il 1 maggio 2013 e deceduto il 9 giugno dello stesso anno, dopo aver perso 16 chilogrammi. Il referto medico aveva parlato di un arresto cardiocircolatorio. L’autopsia aveva escluso l’intossicazione da farmaci e droghe o per cause violente. Anche allora i dati sugli eventi critici erano particolarmente allarmanti: 98 atti di autolesionismo nel 2012 al netto di una popolazione detenuta di c.ca 670 unità, 40 aggressioni tra detenuti, 87 digiuni o rifiuto del vitto, 40 invii urgenti in ospedale, 3 manifestazioni di protesta.

Nel corso del 2021 si sono registrati inoltre 93 violazioni di norme penali, 137 invii urgenti in un luogo esterno di cura, 216 manifestazioni di protesta, 43 danneggiamenti di beni, 27 incendi, 192 inosservanze degli obblighi da parte dei detenuti. Un numero ancora più alto nel 2022, dove nei primi 4 mesi si sono registrati 360 eventi critici, numero comprensivo anche degli episodi reiterati dallo stesso soggetto. Gli eventi sono spesso conseguenti al diniego di richieste di terapie e farmaci. Rispetto al 2021, si sono registrati due casi di suicidi, nonché due decessi per inalazione di gas per scopo stupefacente, mentre nel 2022 si sono verificati tre suicidi.

Il processo. Cronologia e storia di un processo delicato.

E’ nel contesto sopra tracciato che si inscrive il violento pestaggio subito da un detenuto il 3 agosto del 2019 nel percorso dell’infermeria. A partire dall’acquisizione delle immagini del circuito di videosorveglianza, dall’esposto presentato dall’Associazione Antigone e dalle dichiarazioni della persona offesa che, solo una volta trasferita in altro istituto, riusciva a sporgere querela ripercorrendo nel dettaglio le violenze subite, la Procura di Monza veniva informata di quanto accaduto. Dopo un anno di complessa attività investigativa, nell’ottobre del 2020, si chiudevano le indagini e i Pubblici Ministeri ipotizzavano il coinvolgimento di due agenti, due ispettori e della vicecomandante nei reati di lesioni aggravate, falso, calunnia, violenza privata, abuso d’ufficio e omessa denuncia di reato.
Era infatti emerso che il detenuto, oltre ad essere stato vittima di una violenta aggressione, era stato costretto a firmare una dichiarazione in cui affermava di essersi fatto male da solo ed era stato sottoposto dapprima ad un procedimento disciplinare, al cui esito gli veniva applicata la sanzione dell’isolamento nella sua massima estensione, e subito dopo ad un procedimento penale per resistenza a pubblico ufficiale e lesioni. Tutto ciò sulla base dei rapporti redatti dagli stessi agenti indagati che, senza mai fare riferimento all’uso (illegittimo) della forza, restituivano una dinamica dei fatti del tutto incompatibile con quanto invece successivamente emerso dalla visione delle immagini del circuito di videosorveglianza, .
Contestualmente, i Pubblici Ministeri formulavano richiesta di archiviazione per il reato di falso inizialmente ipotizzato nei confronti del medico, ritenendo che mancasse la prova del dolo di falsificazione dei certificati medici da lui redatti, che ancora una volta riportavano esclusivamente gesti autolesivi, nonché per il reato di tortura originariamente contestato nei confronti degli agenti, ritenendo che si fosse trattato di “un episodio occasionale” inidoneo a configurare i presupposti applicativi previsti dalla norma.

La legittimazione alla costituzione di Antigone veniva inoltre riconosciuta “con riferimento a tutte le imputazioni, e non solo a quella di lesioni, in quanto le condotte di falso, calunnia, violenza privata, abuso d’ufficio e omessa denuncia ipotizzate, nella prospettiva accusatoria, sono state tutte strumentali a occultare il reato di cui all’art. 582 c.p. contestato agli imputati e dunque i danni lamentati sono causalmente riconducibili anche a tali condotte”

Nell’aprile del 2021, si celebrava l’udienza preliminare con la costituzione di parte civile, oltre che della persona offesa, dell’Associazione Antigone “poiché è indubbio i che, i fatti per cui si procede, se provati all’esito del giudizio, sarebbero tali da frustrare l’attività e le iniziative svolte da Antigone nel campo della tutela dei diritti dei detenuti”. Tutela che, nel caso specifico, si era tradotta nel ricevere la segnalazione dei familiari della vittima e nel presentare un esposto all’autorità giudiziaria. La legittimazione alla costituzione di Antigone veniva inoltre riconosciuta “con riferimento a tutte le imputazioni, e non solo a quella di lesioni, in quanto le condotte di falso, calunnia, violenza privata, abuso d’ufficio e omessa denuncia ipotizzate, nella prospettiva accusatoria, sono state tutte strumentali a occultare il reato di cui all’art. 582 c.p. contestato agli imputati e dunque i danni lamentati sono causalmente riconducibili anche a tali condotte”.

Al termine dell’udienza il Giudice, rigettando le tesi delle difese degli imputati secondo cui si sarebbe trattato di una lecita azione di contenimento ricostruita dalla Procura in maniera “inverosimile”, disponeva il rinvio a giudizio di tutti gli imputati, cristallizzando così le imputazioni formulate in fase di indagini.
Il 15 novembre dell’anno 2022 si è tenuta la prima udienza dibattimentale davanti al Tribunale di Monza in presenza, oltre che di tutte le parti processuali, di un numeroso gruppo di agenti in servizio presso l’istituto penitenziario. Nel corso delle udienze successive sinora celebrate sono stati sentiti alcuni testimoni dell’accusa, i quali hanno sinora ripercorso le fasi di emersione della vicenda, nonché le attività al tempo svolte per l’acquisizione delle prove e in particolare dei filmati del circuito di videosorveglianza.
Nel corso dei prossimi mesi si procederà con l’istruttoria della pubblica accusa, a cui seguiranno quelle delle difese delle parti civili e degli imputati.

Il CPT (report 2020) ha individuato alcuni pattern ripetuti nelle segnalazioni e denunce da parte dei detenuti, che trovano un’assonanza anche in questa vicenda e nella storia di questa struttura. In particolare il Comitato di prevenzione della tortura rileva: l’uso eccessivo della forza in reazione al comportamento recalcitrante di un detenuto; l’estrazione di detenuti dalle celle a seguito di un evento critico e l’inflizione di maltrattamenti deliberati da parte di un gruppo di agenti di custodia normalmente in luoghi non coperti da cctv

Oltre il processo: uno sguardo su vulnerabilità e violenza nel penitenziario

Sebbene il processo sia in qualche modo ancora tutto da scrivere, gli elementi finora emersi permettono di poter già avanzare qualche riflessione non tanto sulle responsabilità e sugli esiti, ma sulle forme e sui modi del conflitto nel penitenziario. Il CPT (report 2020) ha individuato alcuni pattern ripetuti nelle segnalazioni e denunce da parte dei detenuti, che trovano un’assonanza anche in questa vicenda e nella storia di questa struttura. In particolare il Comitato di prevenzione della tortura rileva: l’uso eccessivo della forza in reazione al comportamento recalcitrante di un detenuto; l’estrazione di detenuti dalle celle a seguito di un evento critico e l’inflizione di maltrattamenti deliberati da parte di un gruppo di agenti di custodia normalmente in luoghi non coperti da cctv (es. scale e uffici della polizia penitenziaria); l’inflizione di lesioni gravi ai detenuti a causa dell’applicazione non professionale dei mezzi di contenimento da parte del personale penitenziario.

Una serie di fattori presenti nell’istituto oggetto di processo, ma anche ricorrenti nelle molte case circondariali d’Italia. Come già accennato in Sbraccia, Ronco, Verdolini (2022), il carcere costituisce uno spazio di sovrarappresentazione dei soggetti vulnerabili, sia per le condizioni materiali in cui versano, sia per la vulnerabilità che essi ricoprono in termini di potere, e questo fattore, unito alle variabili proprie del modo con cui si pensa e si amministra la coercizione in custodia, sebbene non siano fattori determinanti, sono spesso fattori predisponenti. Il potere nel penitenziario si manifesta in modalità ambigue e porta con sé una componente disciplinare che nelle pratiche sempre più sovente produce e riproduce forme più o meno sfumate di abuso. Basti pensare, a titolo esemplificativo, che in vicende come quella qui descritta, il primo elemento di complessità sta proprio nell’emersione degli eventi e nella possibilità da parte delle persone che hanno subito tali abusi di poterli denunciare senza incorrere in ulteriori ripercussioni e di poter portare prove a supporto delle loro versioni dei fatti, così come la possibilità di essere creduti. Un elemento da non trascurare è lo squilibrio relazionale dettato da ragioni di sicurezza: tutti gli agenti conoscono i detenuti per cognome, mentre gli agenti sono individuabili per ruolo ma non per cognome, rendendo molto difficile l’accertamento dei fatti e la denuncia circostanziata di eventi di abuso. Inoltre, molti dei possibili denuncianti dovrebbero esercitare adire l’autorità giudiziaria permanendo in custodia dello Stato, spesso nello stesso istituto.
Ma allo stesso modo, c’è sovente un percepito di vulnerabilità, di esposizione, che riguarda la custodia e che la investe in modo speculare. Chauvenet, Rostaing e Orlic (2015) riportano le riflessioni di alcuni agenti nella loro indagine in Francia, che affermano che la rappresaglia sia al contempo un modo per prevenire le violenze future e per punire quelle precedenti. E ancora, Kauffman (1988), invece, legge il grado di violenza che può verificarsi nelle lezioni impartite ai detenuti dallo staff come una misura non dell’onnipotenza dei supervisori, ma della loro vulnerabilità, oltre che della limitatezza di strumenti alternativi possibili da mettere in campo (vuoi per fattori culturali, vuoi per fattori strutturali, vuoi per le trasformazioni avvenute nelle interazioni penitenziarie).
Sebbene compresenti, tali vulnerabilità si mantengono asimmetriche, perché esistono in uno spazio abitato da custodi e custoditi, che ha nella coercizione e nella privazione della libertà il suo fondamento.
Per questo è utile evocare in questa sede anche il concetto di violenza strutturale, così come definito da P. Bourgois e G. Karandinos (2019), i quali affermano che in medicina, il termine “violenza” indica le azioni individuali che causano traumi o lesioni; implicito nella nozione di “violenza strutturale” è un parallelo tra tale violenza immediatamente visibile, diretta, interpersonale e le modalità con cui le strutture sociali, politiche, istituzionali ed economiche causano danni, producendo una disuguale esposizione al rischio e disparità nell’accesso alle risorse.
Questa concezione della violenza non si riferisce ad atti isolati di singoli individui, ma alle conseguenze sistemiche e durature della disuguaglianza, attraverso le forme e le pratiche che Farmer (1999; 2004) ha definito in modo suggestivo come “Patologie del potere”. Secondo l’autore, la violenza opera lungo un continuum che include dimensioni strutturali, simboliche, quotidiane e intime. Proprio per questo la violenza non può mai essere intesa solo in termini di fisicità – forza, aggressione o l’inflizione del dolore. La violenza comprende anche gli assalti alla personalità, alla dignità, al senso del valore della vittima. Forme e modalità che si manifestano spesso in maniera unidirezionale nello spazio del carcere.

Questi concetti restituiscono la dimensione sociale e culturale della violenza, ciò che dà alla violenza il suo potere e il suo significato, una dimensione difficilmente perseguibile negli spazi tassativi del sistema penale, che opera un accertamento dei fatti, ma non riesce a restituire -spesso- la complessità del contesto

Questi concetti restituiscono la dimensione sociale e culturale della violenza, ciò che dà alla violenza il suo potere e il suo significato, una dimensione difficilmente perseguibile negli spazi tassativi del sistema penale, che opera un accertamento dei fatti, ma non riesce a restituire -spesso- la complessità del contesto. Riconoscere il fenomeno della violenza quotidiana e documentare l’intreccio tra violenza intima e violenza strutturale, significa riconoscere la struttura di potere propria del penitenziario, a prescindere dall’esito dei processi. Al punto in cui siamo ora, in attesa di conoscere gli esiti, è centrale mantenere l’attenzione sulle forme di vulnerabilità e sulle forme di esercizio del potere, visibili e invisibili.
Come ha affermato Franco Corleone (2000), “il detenuto è un soggetto debole per i propri diritti”, e proprio per questo, l’esigibilità e l’inviolabilità degli stessi non può essere demandata esclusivamente al singolo, ma è dipendente dalla struttura e dalle forme di tutela del sistema statale. Proprio per questo sediamo al banco delle parti civili per restituire uno spazio di voce e di diritto a queste vulnerabilità.

Bibliografia

Chauvenet A., Rostaing C., Orlic F. (2008), La violence carcérale en question, Presses Universitaires de France, Paris.

Corleone F. (2000), I detenuti: un soggetto debole per i propri diritti, in COGLIANO Annibale a cura di, Diritti in carcere, Il difensore civico nella tutela dei detenuti, Quaderni di Antigone, Roma, pp. 153-155.

Farmer P. (1999), Infections and Inequalities: The Modern Plagues, University of California Press, Berkeley.

Farmer P. (2004), An Anthropology of Structural Violence, in “Current Anthropology”, 45, 3, pp. 305-25.

Karandinos G,, Bourgois P. (2019), Structural Violence: A 44-Year-Old Uninsured Man with Untreated Diabetes, Back Pain and a Felony Record, in “New England Journal of Medicine”, 380, 3, pp. 205-9.

Kauffman K. (1988), Prison Officers and Their World, Harvard University Press, Cambridge (ma).

Ronco, D.; Sbraccia, A.; Verdolini, V. (2022) Violenze e rivolte nei penitenziari della pandemia, in Studi sulla questione criminale, 1/22, pp. 99-123.