Alta sicurezza e 41bis

Alta sicurezza e 41bis

1024 538 XVII rapporto sulle condizioni di detenzione

 

Mafie e terrorismo: numeri stabili al 41bis, ma forte calo dei “nuovi ingressi” nel regime di carcere duro e i detenuti per terrorismo islamico radicale

Uno degli ultimi atti del Governo Conte bis e dell’attività di Alfonso Bonafede da ministro della Giustizia è stata la Relazione sull’andamento sull’andamento della giustizia per l’anno 2020 rivolta al parlamento.
Una relazione che è stata solo depositata e mai discussa in Aula, causa crisi di Governo.
In quella relazione, nei capitoli dedicati alle carceri, si ritrovano i (pochi) numeri e dati sulle persone in regime di Alta Sicurezza e di “carcere duro” ex art. 41 bis ordinamento penitenziario.
Come spieghiamo approfonditamente in altro capitolo di questo Rapporto (Il carcere duro. Un “doppio binario” ostativo alla rieducazione) quelli dei circuiti di Alta Sicurezza e 41 bis sono tra gli aspetti allo stesso tempo più peculiari e più problematici del sistema penitenziario italiano.
Il tema è quello di come “gestire” all’interno degli istituti penitenziari le persone detenute considerate più “pericolose”, bilanciando il principio costituzionale della rieducazione della pena alle esigenze di “difesa sociale”.
Proprio su questo bilanciamento, nel 2019, era infuriata la polemica politica e mediatica sulla “scarcerazioni dei boss”, che avevano portato alla sostituzione dei vertici dell’Amministrazione penitenziaria.
Durante la prima ondata della pandemia, 494 in Alta Sicurezza (nessuno nell’Alta Sicurezza 2) e 4 detenuti al 41 bis avevano beneficiato dei provvedimenti normativi che estendevano la possibilità di ottenere misure alternative al carcere, in presenza di gravi rischi per la salute dovuti ad un eventuale contagio.
Si era sollevata una strumentale (e poco informata) indignazione pubblica sull’opportunità di quelle scarcerazioni e il rapporto tra garanzie costituzionali e pericolosità delle persone detenute era tornato al centro del dibattito.

Tra le categorie di detenuti pericolosi, l’ordinamento italiano annovera anzitutto coloro che appartengono alla criminalità organizzata e ad organizzazioni terroristiche nazionali o internazionali. Rieducare il condannato a prescindere dal reato commesso,, garantire diritti fondamentali, ma anche recidere ogni forma di contatto o comando la persona possa ancora svolgere dal carcere nei confronti dell’organizzazione di appartenenza “fuori”.
Il “carcere duro” consiste in un catalogo di limitazioni volte a ridurre la frequenza dei contatti con l’esterno degli esponenti di vertice delle organizzazioni criminali, per evitare che, dal carcere, continuino a comandare. Si tratta dunque di uno strumento preventivo (ed infatti è applicato indistintamente a persone condannate o in attesa di giudizio), che mira a “isolare” la persona dal resto dell’organizzazione criminale, ma vista la rigidità del suo contenuto è evidente che assuma anche un significato repressivo-punitivo ulteriore rispetto allo status di privazione della libertà. Un regime detentivo che si definisce “duro”, non può non evocare l’idea di un sistema intransigente che mira a “far crollare” (anche sul piano psicofisico) chi vi viene sottoposto, puntando, sempre in forma latente, alla “redenzione”, cioè alla collaborazione con la giustizia, principale “criterio di accertamento della rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata” (cfr. sent. Corte Cost., n. 273/2001).
L’assegnazione dei detenuti 41-bis all’interno dei reparti avviene tenendo in considerazione l’area geografica di operatività dell’organizzazione di appartenenza, le esigenze sanitarie nonché eventuali divieti d’incontro o incompatibilità segnalati dall’Autorità giudiziaria.

I detenuti al 41 bis sono obbligatoriamente in cella singola, senza eccezioni. Sono due al giorno le ore di socialità in gruppi composti da massimo quattro persone, fatta eccezione per i boss di primissimo piano delle organizzazioni criminali che vengono detenuti in c.d. “aree riservate” e svolgono la socialità con una sola altra persona.
La legge stabilisce che i detenuti al 41-bis possano effettuare un colloquio al mese dietro a vetro divisorio (tranne che per i minori di 12 anni) della durata di un’ora (sei i colloqui mensili per i detenuti “comuni”, senza barriere divisorie) e videosorvegliati da un agente di polizia penitenziaria (e, su ordine dell’Autorità giudiziarie, anche eventualmente “ascoltato” dallo stesso agente). Nel caso in cui i detenuti non effettuino il colloquio visivo mensile, possono essere autorizzati, dopo i primi sei mesi di applicazione del regime, a svolgere un colloquio telefonico con i familiari, che devono recarsi presso l’istituto penitenziario più vicino al luogo di residenza al fine di consentire l’esatta identificazione degli interlocutori. La partecipazione alle udienze è esclusivamente “da remoto” in videoconferenza.
Chi decide chi deve stare al 41 bis? La decisione avviene con decreto motivato del ministero della Giustizia – anche su impulso del Ministero dell’Interno – di norma su proposta del pubblico ministero incaricato delle indagini e sentita la Direzione nazionale Antimafia e le forze di polizia.
Devono sussistere due presupposti: l’uno “oggettivo”, cioè la commissione di uno dei delitti “di mafia” previsto dall’art. 4 bis c. 1 ord. pen., l’altro “soggettivo”, occorre infatti dimostrare la presenza di “elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica ed eversiva”. L’applicazione del regime dura 4 anni e può essere prorogata se ne sussistono ancora i presupposti (in particolare quello “soggettivo” della la capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva di appartenenza).
Contro decreto ministeriale di applicazione o di proroga si può proporre reclamo al Tribunale di Sorveglianza di Roma.

Al 31 dicembre 2020 risultano presenti 759 persone sottoposti al regime speciale di cui all’art. 41 bis O. P. di cui 746 uomini e 13 donne.

Al 31 dicembre 2020 risultano presenti 759 persone sottoposti al regime speciale di cui all’art. 41 bis O. P. di cui 746 uomini e 13 donne. Alla stessa data del 2019 erano 754 le persone al 41 bis (l’incremento è stato dunque di 5 persone), nel 2018, 733 (+26). Si tratta di una crescita costante, ma ridotta. Nel biennio (2018-2020) la crescita percentuale è infatti inferiore al 4%. Va tuttavia notato come è un dato in controtendenza rispetto al totale della popolazione detenuta che, nello stesso periodo, diminuisce, invece di aumentare.
Nel corso del 2020 sono stati 25 i provvedimenti di prima applicazione, 16 i decreti di riapplicazione del regime speciale e 294 i provvedimenti di proroga.
Si tratta di numeri sensibilmente diversi rispetto al 2019, quando erano state 161 i “nuovi” decreti di applicazione (-15%, 136 in meno) e 552 le proroghe.
Occorrerebbero maggiori dettagli e approfondimenti, ma, a prima vista, questi dati fotografo un sostanziale “rallentamento” delle attività di indagine e dei conseguenti provvedimenti di restrizione della libertà causati dalla pandemia.
304 persone al 41bis ha condanne (definitive o non definitive) all’ergastolo, si tratta del 40% del totale di chi è al “carcere duro”.

Fonte Ministero della Giustizia

Fonte Ministero della Giustizia

Tra quelli di Alta Sicurezza, il circuito che più richiama l’attenzione è l’As 2, dove sono reclusi i detenuti accusati o condannati di terrorismo.  Per il terzo anno consecutivo, i numeri sono in calo: al 31 dicembre 2020 erano infatti 79 persone (12 donne, 67 uomini) in As 2, meno 5 rispetto all’anno precedente (quando erano 84, 75 uomini e 9 donne).

Se nel caso del 41 bis si può parlare, correttamente, di “boss”, intesi come figure apicali di organizzazioni mafiose o terroristiche, poiché la collocazione in quel regime consegue a specifica valutazione della magistratura e delle forze di polizia sull’effettiva e attuale appartenenza all’organizzazione criminale.
Più problematica è la situazione delle persone in Alta sicurezza (definizione che non ritroviamo in una legge, bensì nella nota circolare dell’Amministrazione penitenziaria 3619/6069 del 21 aprile 2009, che “suddivide” le persone detenute per livelli di pericolosità, dando vita al sistema dei c.d. “circuiti detentivi”).
Per essere considerati infatti detenuti ad “alta pericolosità” rileva il solo reato commesso per cui si è condannati o accusati. Se è uno dei reati previsti nel (sempre più lungo) elenco di cui all’art 4 bis dell’Ordinamento penitenziario, allora si entra automaticamente in questo circuito. C’è in effetti una remota possibilità che la collocazione avvenga per decisione dell’Amministrazione penitenziaria, ma si tratta di casi residuali. I circuiti di Alta sicurezza, regolati dalla già citata circolare dell’Amministrazione penitenziaria del 2009, sono suddivisi in tre livelli (Alta sicurezza 1, 2 e 3). L’inserimento nel circuito di Alta sicurezza non implica, una differenza nel regime penitenziario (come nel caso del 41 bis) in relazione ai diritti e ai doveri dei detenuti ed alla possibilità di accedere alle opportunità trattamentali.
Anche nel 2020 il gruppo largamente più cospicuo è l’Alta sicurezza 3 che comprende circa 9.000 detenuti, suddivisi in 55 istituti penitenziari dislocati sull’intera penisola.

Tra quelli di Alta Sicurezza, il circuito che più richiama l’attenzione è l’As 2, dove sono reclusi i detenuti accusati o condannati di terrorismo.  Per il terzo anno consecutivo, i numeri sono in calo: al 31 dicembre 2020 erano infatti 79 persone (12 donne, 67 uomini) in As 2, meno 5 rispetto all’anno precedente (quando erano 84, 75 uomini e 9 donne). Il calo è dovuto principalmente ai detenuti accusati o condannati per terrorismo di matrice islamica radicale, che sono passati 52 del 2019 ai 46 del 2020. 

Fonte: Ministero della Giustizia