XVII rapporto sulle condizioni di detenzione

Il mostro in prima pagina. Il fragile diritto alla riservatezza nel procedimento penale

Il mostro in prima pagina. Il fragile diritto alla riservatezza nel procedimento penale

Il mostro in prima pagina. Il fragile diritto alla riservatezza nel procedimento penale

1024 538 XVII rapporto sulle condizioni di detenzione

Claudio Paterniti Martello

Il mostro in prima pagina. Il fragile diritto alla riservatezza nel procedimento penale

A farne le spese non sono solo le garanzie per le persone coinvolte nei procedimenti penali, ma anche la serenità di giudizio del Magistrato, la sua effettiva imparzialità e la necessaria riservatezza delle indagini.

Molto spesso giornali e TV diffondono nomi e immagini di persone coinvolte in processi e indagini senza preoccuparsi del loro diritto alla riservatezza, per quanto negli ultimi anni siano state introdotte diverse norme che proteggono la loro privacy. Perché la realtà fatica tanto ad adattarsi a queste norme? La questione è complessa, e ha a che fare con vari diritti, tutti costituzionalmente garantiti. Da un lato il diritto di cronaca e informazione (art. 21 della Costituzione) e il diritto di conoscere le modalità con cui è gestita la giustizia (art. 101 Cost.), anche al fine di modificarne le regole; dall’altro il diritto all’identità, all’immagine, alla privacy (artt. 2 e 3 Cost.) e il diritto alla presunzione di innocenza (art. 27 Cost.). Quasi sempre a prevalere è il primo paniere di diritti e a farne le spese non sono solo le garanzie per le persone coinvolte nei procedimenti penali, ma anche la serenità di giudizio del Magistrato, la sua effettiva imparzialità e la necessaria riservatezza delle indagini.
L’interesse della stampa non riguarda tutte le fasi di un procedimento penale. Per lo più si concentra sulle indagini preliminari, il momento degli arresti e degli avvisi di garanzia. Coinvolge quindi solo la fase iniziale di procedimenti spesso lunghi e complessi, ma i suoi risultati sono percepiti come l’esito di un accertamento dei fatti che invece avviene nel corso del processo. Inoltre molte conferenze stampa nelle Procure o negli uffici di Polizia avvengono con le immagini delle persone arrestate sullo sfondo.
Una ricerca condotta pochi anni fa dell’Unione delle Camere Penali su un campione di più di 7000 articoli di stampa mostrava come in oltre il 60% dei casi prevalesse un approccio colpevolista alle vicende giudiziarie, o che recepiva in maniera acritica le ipotesi dell’accusa.
La Corte di Cassazione già nel 1984 (sentenza 5259) ha individuato tre criteri che è necessario rispettare per esercitare in maniera legittima il diritto di cronaca: la verità dell’informazione, la moderazione della forma espositiva e la sua pertinenza, cioè il suo interesse pubblico. Altri limiti sono stati stabiliti nel tempo dai numerosi codici deontologici che regolano l’attività dei giornalisti (i quali sono riassunti nel Testo Unico dei doveri del giornalista del 2016). Norme e sentenze sono dunque di stampo garantista, ma la prassi no. Tra i motivi di questo scarto c’è probabilmente l’inadeguatezza di alcune sanzioni (le sanzioni comminate dell’Ordine dei Giornalisti e dal CSM sono molto rare) ma anche un problema culturale e deontologico che riguarda tanto i giornalisti quanto i magistrati e gli altri operatori della giustizia.
Di recente il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) si è preoccupato di porre limiti chiari alla comunicazione di Giudici e Pubblici Ministeri, che in alcuni casi contribuisce a porre le basi per i cosiddetti processi mediatici. Lo ha fatto emanando delle linee guida che, tra le altre cose, prevedono l’individuazione di Magistrati responsabili per le comunicazioni con i media, oltre alla creazione di uffici stampa di Tribunali e Procure – uffici che però, a causa della mancanza di mezzi, spesso non vedono la luce.

Il meccanismo attuale fa sì che i giornalisti si trovino spesso in una relazione di dipendenza dalle autorità giudiziarie, che sono la loro fonte privilegiata

Le falle nel sistema

Il sistema giudiziario fatica da tempo a garantire il segreto istruttorio nella fase iniziale del procedimento penale, cioè a garantire che gli atti non verranno diffusi illegalmente (e dunque che non verranno pubblicati sulla stampa). La Corte di Cassazione, con la sentenza 173/2000, ha affermato l’incapacità sistemica a garantire tale segreto per gli gli atti del fascicolo del Pubblico Ministero (PM) e del Giudice per le indagini preliminari (GIP). Si tratta di un reato, ma nella pratica i responsabili non vengono quasi mai individuati. Il sistema è assuefatto alla pratica della fuga illegale di notizie.
Questa però non è l’unica norma inapplicata. Il divieto di diffusione delle immagini che ritraggono persone in stato di arresto o nel corso della traduzione in carcere, ad esempio, per quanto previsto da diverse norme, non sempre viene rispettato dalle autorità giudiziarie e dalle Forze di Polizia. E ancora: dati sensibili come il nome, la nazionalità, l’età e la professione delle persone coinvolte, che dovrebbero essere citati solo quando l’interesse pubblico lo richiede, sono spesso diffusi in maniera ingiustificata nel corso delle conferenze stampa o assieme ai video pubblicati autonomamente dalle Forze di Polizia, senza che vi siano esigenze di giustizia o polizia. Le sanzioni disciplinari per queste violazioni sono praticamente inesistenti.
Un altro problema annoso è quello della pubblicazione sulla stampa di elementi penalmente irrilevanti, solitamente di intercettazioni telefoniche o ambientali che spesso riguardano anche persone estranee al procedimento, o interessate in modo del tutto marginale. A volte però una cosa può essere penalmente irrilevante ma di interesse pubblico. E’ l’interesse pubblico il criterio che presiede alla pubblicazione di un atto o del contenuto di un atto processuale, ed è valutato autonomamente dal giornalista. Che però dovrebbe sempre rispettare il limite della moderazione, e ciò non avviene. La disponibilità di elementi penalmente irrilevanti (e spesso senza interesse pubblico) in vari casi è conseguenza della cattiva prassi, in uso tra molti magistrati, di inserirli nei provvedimenti di custodia cautelare, che possono essere pubblicati, almeno nel contenuto. Questo proprio al fine di dare loro rilevanza mediatica.
Il meccanismo attuale fa sì che i giornalisti si trovino spesso in una relazione di dipendenza dalle autorità giudiziarie, che sono la loro fonte privilegiata. Le norme consentono l’accesso diretto agli atti non più coperti da segreto istruttorio — dunque senza passare da un magistrato — ma sono applicate in maniera arbitraria e parziale, e dunque ineffettiva. Nella prassi le informazioni passano da canali informali. La fuga di notizia è il modo in cui di norma i media vengono a conoscenza dei procedimenti penali. Il fatto che da quel magistrato dipenda la disponibilità di notizie fa sì che un suo provvedimento venga criticato con più difficoltà.

È piuttosto necessario apportare dei cambiamenti culturali, come avvenuto per le foto e i nomi dei minori

Una svolta necessaria

Molti atti non potrebbero essere pubblicati, ma lo sono lo stesso. Le sanzioni per violazione del divieto di pubblicazione sono molto tenui, ma un loro inasprimento o la creazione di nuovi reati non pare essere una soluzione desiderabile né tanto meno percorribile, in quanto ostacolerebbe la libertà di stampa, ponendosi in contrasto con una consolidata giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU). E’ piuttosto necessario apportare dei cambiamenti culturali, come avvenuto per le foto e i nomi dei minori che fino a qualche anno fa venivano pubblicati con regolarità, ma oggi per fortuna questo non accade più, e non per effetto dell’introduzione di un nuovo reato. Una svolta culturale avrebbe poi come ovvia conseguenza un maggiore rigore da parte dell’Ordine dei giornalisti. Da più parti è stata avanzata la proposta di rendere effettive le sanzioni reputazionali per i giornalisti che violano i limiti di liceità. Luigi Ferrarella, noto e stimato cronista giudiziario del Corriere della Sera, ha proposto la pubblicazione obbligatoria e in uno spazio in evidenza di condanne penali, sentenze di risarcimenti civili, sanzioni disciplinari e provvedimenti del Garante della privacy conseguenti a un trattamento illecito della notizia.
La svolta culturale dovrebbe riguardare anche gli operatori della giustizia, chiaramente. I quali hanno approcci e capacità comunicative differenti. Contrariamente agli uffici giudiziari, ad esempio, le Forze di Polizia dispongono di siti internet e canali social gestiti in maniera professionale ma con toni spesso autocelebrativi e poco rispettosi della presunzione di innocenza e del diritto alla riservatezza. La diffusione di dati sensibili è la norma, com’è la norma l’assenza di condizionali nel presentare le ipotesi accusatorie.
I processi mediatici paralleli ai processi veri e propri non riguardano solo le personalità note del mondo politico o imprenditoriale. A fare le spese di una sovraesposizione mediatica sono anche le persone sprovviste di mezzi, specie su scala locale. Sono state avanzate proposte di rimedi compensativi per chi è danneggiato dal processo mediatico, sul modello di quanto avviene per l’ingiusta detenzione o per la durata irragionevole del processo. Nella riflessione degli operatori giuridici è stata stata ipotizzata la presa in conto dell’attenuante per le persone condannate, a compensazione di una sorta di violazione del principio ne bis in idem (secondo cui non si può essere processati due volte per lo stesso fatto), che l’esistenza di un processo mediatico violerebbe in parte. Per i prosciolti si è ipotizzata una maggiore forza della sanzione reputazionale, con obbligo di pubblicazione delle sentenze e una compensazione monetaria. Tuttavia si tratta di proposte di difficile (e in alcuni casi non desiderabile) realizzazione, volte soprattutto a fare emergere il problema.
Un ragionamento sulla sovraesposizione mediatica delle persone coinvolte in procedimenti penali merita infine la presa in conto del diritto all’oblio per chi subisce un processo (che riguarda i procedimenti penali conclusi). Molte persone una volta scontata la pena detentiva faticano a trovare lavoro perché il processo e la condanna restano indicizzate sui motori di ricerca. In molti casi c’è un interesse pubblico a ciò. In altri la questione è più dubbia. La Corte di Cassazione ha individuato nel tempo trascorso dai fatti e nell’attualità dell’interesse pubblico alla diffusione della notizia i criteri in base ai quali stabilire se la persistenza della notizia ha ragion d’essere o se deve essere de-indicizzata.
In tutti i casi si tratta di problemi che meritano riflessioni collettive e la ricerca di soluzioni in gradneo di garantire i diritti delle persone indagate, imputate e in alcuni casi anche condannate più di quanto non accada oggi.

(Qui un report in cui si approfondiscono le questioni trattate in questo articolo)