XVII rapporto sulle condizioni di detenzione

La “manica stretta”; ipotesi di regolazione della somministrazione di psicofarmaci in carcere

La “manica stretta”; ipotesi di regolazione della somministrazione di psicofarmaci in carcere

La “manica stretta”; ipotesi di regolazione della somministrazione di psicofarmaci in carcere

1024 538 XVII rapporto sulle condizioni di detenzione

Chiara Princivalli e Alvise Sbraccia

La “manica stretta”: ipotesi di regolamentazione della somministrazione di psicofarmaci in carcere

Introduzione

Il penitenziario è un vero e proprio contesto culturale a sé, caratterizzato da un insieme di idee e pratiche che vengono messe in atto quotidianamente dagli attori sociali coinvolti. In questo contributo verrà presa in considerazione una pratica che incide in modo particolare nella quotidianità detentiva, oltre che sulla salute delle persone detenute, ovvero la distribuzione di psicofarmaci.
Dopo aver fornito alcuni spunti sui significati e le pratiche connesse ai farmaci psicoattivi in carcere, si analizzerà la situazione specifica dell’Emilia-Romagna dove in tutti gli istituti, in virtù di un indirizzo di policy condiviso dalle Ausl di riferimento, da anni viene messo in atto un piano di riduzione delle somministrazioni.
Si tenterà di far emergere quali siano gli aspetti critici di questa strategia, che interagisce con una dimensione di ambivalenza consolidata. Infatti, l’assunzione di benzodiazepine e affini risponde a istanze di contenimento dell’ansia e gestione dell’insonnia assai diffuse socialmente e inconfutabilmente acuite dallo stato di detenzione. Al di là della circostanza per la quale si contano nell’ordine dei milioni le confezioni di ansiolitici e benzodiazepine annualmente consumate in Italia 1)https://www.aifa.gov.it/-/trend-consumo-psicofarmaci-in-italia-2015-2017, si pone un tema specifico di legittimità clinica che afferisce al campo delle conseguenze psicologiche dei processi di prigionizzazione (G. Sykes, 1958). Sul versante clinico-terapeutico le ambivalenze si registrano con riferimento agli effetti di stabilizzazione delle tossicomanie e di vera e propria costituzione carceraria di dipendenze da farmaci. Un medico da noi intervistato in proposito qualche anno fa (A. Sbraccia, 2018) riferiva di una stringente “responsabilità epidemiologica” rispetto alla popolazione di riferimento, ovvero della problematica “restituzione alla società, a fine pena, di centinaia di soggetti in difficoltà nella gestione di forme di dipendenza problematiche”, in parte rilevante indotte dalla permanenza in carcere.
Su un terreno più direttamente sociologico, l’uso massiccio di ansiolitici può essere riferito all’obiettivo di “accorciare le giornate dormendo il più possibile”. Tale espressione, derivata da alcune interviste a detenuti, rimanda a una tecnica di fuga da una temporalità monotona e stressante, tematica assai ricorrente nelle descrizioni del vissuto carcerario. Una tecnica clinicamente indifendibile, ma sicuramente riconoscibile e riconosciuta nelle cornici cognitive della cultura del penitenziario, intesa come terreno condiviso da detenuti e operatori (A. Sbraccia, F. Vianello, 2016).
Altrettanto riconosciuti sono i livelli di interferenza gestionale sulle prassi di somministrazione degli psicofarmaci, con particolare riferimento all’istanza poliziale (di sicurezza) di contenimento chimico della conflittualità interna. Anche in questo campo le ambivalenze non mancano: da un lato, è infatti del tutto evidente che il governo di una sezione “sedata” possa risultare più agevole; dall’altro è ricorrente la casistica di conflitti e atti di autolesionismo che si verificano (anche) a seguito di assunzioni improprie di questi medicinali (magari accumulati o ingeriti con alcolici autoprodotti in cella e altre sostanze psicoattive). In questo senso sarebbe grave errore dimenticare che una parte significativa della popolazione detenuta manifesta un bisogno di alterazione, talvolta radicato in vissuti di tossicodipendenza conclamata. Non da ultime vanno quindi considerate le tensioni che possono essere alimentate da una strategia di riduzione complessiva della somministrazione.
Data la complessità del fenomeno indagato e lo spazio a disposizione, il presente lavoro non ha pretese di esaustività, offre piuttosto una anticipazione sintetica di informazioni raccolte nelle visite dell’Osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione e attraverso interviste mirate a operatori che si occupano di sanità penitenziaria negli istituti emiliano-romagnoli 2)Sono stati intervistati quattro medici, tre dei quali lavorano in istituti penitenziari emiliani, uno in un istituto della Romagna. A causa delle restrizioni imposte dall’emergenza sanitaria legata alla diffusione del Covid-19, i colloqui sono stati effettuati a distanza, secondo modalità che andassero incontro alle esigenze dei singoli interlocutori. Un colloquio con due operatrici sanitarie dello stesso istituto è stato svolto via Skype, un medico è stato intervistato telefonicamente, e il quarto operatore ha risposto alle domande via mail. Tutte le interviste sono state svolte nel mese di gennaio 2021., messe a confronto con alcuni spunti interpretativi offerti dalla letteratura sui prison studies.

Allo stesso tempo il corpo diventa spesso l’unico strumento a disposizione delle persone detenute per rivendicare la propria volontà, manifestare il proprio malessere e il proprio dissenso, attraverso traduzioni somatiche del disagio.

Corpi al centro

Le tecnologie del potere messe in atto dal dispositivo carcerario, insieme alle idee e alle pratiche tipiche della cultura penitenziaria, hanno la facoltà di agire sull’individuo trasformando i suoi modi di esistere, di percepire sé stesso e di interagire con la realtà. L’esistenza della persona detenuta viene ricodificata attraverso processi negoziativi tra le istanze istituzionali, declinate in forme di controllo totalizzanti che indeboliscono fino a negare l’autodeterminazione individuale, e quelle portate avanti dalla persona reclusa, che continua a produrre significati, se non altro esercitando pratiche oppositive e di resistenza (T. Ugelvik, 2014).
Nei contesti carcerari, il corpo riveste un ruolo cruciale nella definizione del rapporto tra individuo e istituzione (D. Gonin, 1994): la costrizione in spazi ristretti, l’onnipresenza della sorveglianza, l’impossibilità di muoversi autonomamente, le condizioni insalubri delle strutture, la qualità del cibo, l’espropriazione della sessualità, solo per fare degli esempi, sono tutti elementi che concorrono alla rimodulazione del proprio essere-nel-mondo, attraverso l’incorporazione delle logiche penitenziarie.

Allo stesso tempo il corpo diventa spesso l’unico strumento a disposizione delle persone detenute per rivendicare la propria volontà, manifestare il proprio malessere e il proprio dissenso, attraverso traduzioni somatiche del disagio (I. Quaranta, 2006) che assumono configurazioni multiformi: malattie, autolesionismo, scioperi della fame, abuso o rifiuto di terapie farmacologiche.
Il corpo, la salute, la malattia, sono notoriamente terreni di scontro e scenari di negoziazione, nei quali lo sbilanciamento delle forze, per quanto riguarda il contesto carcerario, risulta evidente anche quando dalla parte istituzionale (sia amministrativa che sanitaria) ci sia predisposizione all’ascolto e al confronto aperto (D. Ronco, 2018).
Il disequilibrio che si riscontra nei rapporti di potere all’interno dell’istituzione appare ancora più lampante quando si osserva la composizione della popolazione penitenziaria: in prevalenza negli istituti italiani sono presenti persone che provengono da contesti di forte marginalità e sono dunque più vulnerabili da un punto di vista bio-psico-sociale (L. Decembrotto, 2020). La detenzione costituisce l’esito dei processi selettivi che caratterizzano il funzionamento dell’apparato giuridico e penale, e che contribuiscono a produrre e riprodurre un ordine sociale fondato sull’ingiustizia e sulla disuguaglianza. Il carcere accentua gli stati di malessere e degrada ulteriormente lo status di chi vi transita, infliggendo sui corpi l’ennesima manifestazione di una violenza di tipo strutturale (cfr R. Matthews, 2009; D. Fassin, 2018).

Medicalizzare un malessere che non ha radici nel sistema nervoso dell’individuo, ma in una precisa configurazione e gestione del sistema, significa ridurre al piano biologico complesse dinamiche di oppressione che oltrepassano le mura del penitenziario.

Malessere importato, malessere indotto

In carcere confluiscono persone fragili dal punto di vista della salute mentale. Si riscontra un’alta percentuale di persone affette da disturbi psichici, spesso associati a tossicodipendenza, che negli ultimi decenni ha visto un aumento di quadri diagnostici caratterizzati da politossicità (cfr M. Wheatley, 2008).
L’ipotesi che in seguito alla chiusura prima dei manicomi e poi degli Opg il carcere li abbia in qualche modo sostituiti, diventando contenitore di “detenuti psichiatrici” non è da considerarsi errata, tuttavia risulta parziale, perché deresponsabilizza l’istituzione, tralasciando l’impatto dell’esperienza detentiva nella salute mentale, e non solo, delle persone recluse (M. Miravalle, 2015). Se si parla di sofferenza in carcere, non si può trascurare il ruolo di primo piano rappresentato dall’istituzione sia su un livello pratico, gestionale, materiale, sia su un piano più astratto, ideologico e politico, che riguarda i presupposti della sua nascita e della sua strutturazione. Per questo motivo la forte incidenza di disturbi mentali, di malessere psicologico, e di consumo di sostanze in carcere, non è unicamente riconducibile alla larga diffusione di individui portatori di disturbi già insorti o diagnosticati prima della carcerazione.
Tra coloro che all’interno degli istituti penitenziari fanno uso di medicinali psicoattivi non si annoverano solamente persone con comprovate patologie mentali, che per la loro gestione richiedono somministrazioni farmacologiche, o dipendenze da sostanze, alle quali prescrivere terapie a scalare o di mantenimento per curare la malattia o gestire i sintomi dell’astinenza. Sicuramente stati di malessere emersi precedentemente, all’interno del carcere possono peggiorare, tuttavia l’insorgere di disturbi più o meno gravi e la loro gestione attraverso i farmaci riguarda anche soggetti che in libertà non avevano problemi di questo genere, e li hanno sviluppati nel corso della detenzione (cfr G. Mosconi, 1995; J. Sim, 2002).
Medicalizzare un malessere che non ha radici nel sistema nervoso dell’individuo, ma in una precisa configurazione e gestione del sistema, significa ridurre al piano biologico complesse dinamiche di oppressione che oltrepassano le mura del penitenziario, ma al loro interno si manifestano con maggiore violenza (L. Sterchele, 2020). Nell’evidenza delle carenze strutturali e “trattamentali” che connotano molti istituti penitenziari italiani, è lecito chiedersi quali alternative valide esistano per contenere una sofferenza così estesa e radicata nelle vite degli individui privati della libertà. De-medicalizzare il disagio individuale e sociale in carcere, riducendo o eliminando le somministrazioni psicofarmacologiche e sperimentando, nei limiti intrinseci agli istituti, diverse forme di supporto, può sembrare un’ulteriore pratica afflittiva (cfr A. Saponaro, 2018), nella misura in cui le condizioni di vita (dentro e fuori dal carcere) che hanno favorito lo sviluppo di stati di sofferenza rimangono immutate. La promozione della salute e di stili di vita sani riescono ad arginare solo in parte la tendenza a cercare sollievo nell’assunzione di sostanze stupefacenti lecite o illecite, quando l’ambiente circostante è degradante e gli strumenti di riscatto sono ridotti ai minimi termini.

Somministrazione differenziata

In Italia i dati sugli psicofarmaci in carcere rilevano percentuali di consumo molto elevate, si tratta della categoria di medicinali più utilizzata (Ronco, 2018). Tuttavia, il contesto italiano è sempre stato caratterizzato dalla presenza a macchia di leopardo di operatori sanitari in posizioni di controtendenza. Lo scenario evidenzia quindi la concomitanza di medici piuttosto restii a prescrivere terapie psicofarmacologiche, che rimangono in una posizione di rigidità deontologica secondo la quale accontentare le numerose e frequenti richieste di sostanze psicoattive sarebbe anti-professionale, e medici che, comprendendo quanto la quotidianità in carcere possa essere intollerabile e considerando la mancanza di figure professionali con le quali intraprendere percorsi psicoterapeutici, sono più inclini ad assecondare le richieste dei pazienti. Tale distinzione è diffusamente tradotta nel gergo penitenziario nell’opposizione metaforica tra medici “di manica stretta” e “di manica larga”: queste definizioni di sintesi veicolano informazioni precise sulle strategie di somministrazione, che contribuiscono a delineare le aspettative dei detenuti interessati e ad orientare i rapporti che intrattengono col personale sanitario negli istituti. Non vi sono dubbi, ad esempio, sul fatto che “radio carcere” abbia già diffuso la notizia di un orientamento tendenzialmente restrittivo per quanto attiene ai penitenziari emiliano-romagnoli. Anche in merito al trattamento delle tossicodipendenze si nota lo stesso tipo di divergenza negli atteggiamenti e nelle pratiche di cura adottate (cfr A. Bertolazzi, M.L. Zanier, 2018; A. Sbraccia, 2018), ad esempio per alcuni il carcere è il luogo perfetto per prescrivere una terapia metadonica a scalare, altri puntano al mantenimento di un certo dosaggio per tutto il periodo di detenzione, consci del fatto che in un ambiente privo di stimoli e carente nell’offerta di supporto individuale, il processo di disintossicazione forzata non sarebbe proficuo e parrebbe rientrare in un’ottica punitiva, più che essere una pratica di cura rivolta al benessere del paziente.
Le divergenze tra le pratiche di cura spesso si riflettono nella più o meno marcata conflittualità con l’amministrazione penitenziaria (cfr D. Ronco, 2018; L. Sterchele, 2020). Essa solitamente non scoraggia l’utilizzo del cosiddetto “manganello farmacologico”, che appare come strumento efficace al mantenimento dell’ordine nelle sezioni, sebbene talvolta costituisca di per sé un motivo del verificarsi di eventi critici.
Nonostante questo, il flusso di farmaci non si costituisce secondo un processo unidirezionale, ma è il prodotto di continue negoziazioni tra gli attori sociali coinvolti: medici penitenziari, persone detenute e operatori dell’amministrazione penitenziaria, che nella gestione della sanità continuano a svolgere un ruolo non di poco conto, rivestendo la posizione di intermediari (interessati) tra le istanze portate avanti dai detenuti e quelle del comparto sanitario.

Una specificità emiliano-romagnola?

Nell’ultimo decennio in Emilia-Romagna la posizione “a manica stretta”, dapprima piuttosto marginale e controcorrente, ha assunto un peso sempre maggiore, diventando un indirizzo di policy tendenzialmente condiviso tra gli operatori sanitari che si occupano dei pazienti detenuti. Negli anni successivi alla riforma della sanità penitenziaria del 2008 (S. Gainotti, C. Petrini, 2018), le Ausl emiliano romagnole hanno infatti pianificato un programma di riduzione delle somministrazioni di psicofarmaci nelle carceri.
Dai dati raccolti emerge come in Emilia-Romagna l’orientamento che guida la gestione degli psicofarmaci sia condiviso praticamente dalla totalità dei professionisti. Questa compattezza del comparto sanitario risulta funzionale ad un’erogazione omogenea del servizio in tutta la regione, garantendo pratiche di cura continuative e coerenti nel caso di trasferimenti da un istituto ad un altro, facilitate dall’impiego della cartella clinica informatizzata in tutti e dieci i penitenziari regionali. Secondo il parere dei medici intervistati esiste un’omogeneità di fondo che nella pratica quotidiana si configura come un processo in continuo divenire, dato l’alto turnover del personale che deve man mano venire “addestrato” alle logiche del penitenziario e agli indirizzi clinico-terapeutici che con queste logiche devono convivere:

Ci vuole una gran pazienza, e la pazienza ci vuole anche nell’addestrare noi stessi, per formare un gruppo coeso, in cui abbiano tutti gli stessi interessi e mantengano tutti la stessa posizione, questo è fondamentale. Perché se solo uno di noi cede una volta, si lascia andare, perché è stanco, perché non ha voglia di discutere, o perché è notte e ha sonno, e cede alle richieste immotivate, tutto quello che abbiamo fatto viene annullato. […] Chi cede lo fa per stanchezza, non si tratta di un voler andare contro corrente. Noi come staff ci riuniamo regolarmente, e parliamo sempre di tutti i problemi che abbiamo. Tutte le volte che abbiamo un paziente che non accetta lo scalaggio ne parliamo e cerchiamo di trovare la strada per poterlo indurre ad ascoltarci. Coinvolgiamo anche altri professionisti, lo psichiatra, lo psicologo, il direttore, coinvolgiamo tutti, finché non proviamo a convincerlo. Non tutti, eh, per carità, ci sono anche quelli che sono irremovibili, però l’irremovibile non fa testo, c’è sempre l’eccezione. (Responsabile Medicina Penitenziaria 1, gennaio 2021)

Un’altra delle grosse differenze tra prima della riforma e dopo è che adesso l’equipe interna fa squadra, quindi ci sono le riunioni, ci sono i briefing giornalieri, le riunioni settimanali, c’è una grossa appartenenza e condivisione tra i sanitari. Prima invece era più “ognuno lavora per sé”, non c’erano le riunioni per decidere come muoversi, come fare, come programmare. C’è ancora in qualche istituto qualche medico vecchio che si porta dietro questi vecchi retaggi, però in genere adesso si cerca di fare molta equipe come fanno i sanitari sul territorio (Responsabile Medicina Penitenziaria 2, gennaio 2021)

Era comunque chiaro a tutti che era fondamentale intervenire su questo abuso di farmaci, su queste prescrizioni non sempre neanche corrette. Sapevamo di andare incontro a delle difficoltà, ma siamo stati sorpresi, ce lo diciamo tuttora, dal fatto che le difficoltà siano state molto inferiori rispetto ai benefici per i detenuti… ma anche difficoltà per noi più di tanto non ce ne sono state, ce ne aspettavamo molte di più (Referente Equipe Dipendenze Patologiche, gennaio 2021)

Nei brani appena citati emerge una dialettica tra tenuta e cedimento. Se le prassi organizzative (condivisione degli indirizzi e coerenza applicativa) sembrano efficaci e correlate a un ridimensionamento delle aspettative di difficoltà, il cedimento appare come un pericolo costante. In altre parole, le pressioni ambientali, che eccedono la dimensione clinica, devono essere tenute sotto controllo, con un dispendio di energie probabilmente dipendente dagli stili gestionali specifici di ciascun istituto. Il piano di riduzione, negli anni, ha comunque prodotto dei risultati che vengono considerati soddisfacenti dagli operatori sanitari, anche nei termini di una riduzione di comportamenti autolesivi. Tali effetti positivi dovrebbero consolidarsi attraverso un programma di monitoraggio integrato e spendibile in chiave comparativa (scientifica). Un progetto conoscitivo ormai definito nei contenuti e nei metodi di rilevazione, ma di fatto non ancora implementato per via dell’emergenza pandemica in corso. La strategia di “manica stretta” ha comunque già preso forma in un processo lungo e non privo di difficoltà, date dalle resistenze opposte da parte dei pazienti, nonché dal personale di sorveglianza e dall’amministrazione penitenziaria, che temevano azioni di rivolta e un generale peggioramento della governabilità delle sezioni:

Abbiamo pianificato una riduzione graduale, gli abbiamo detto: “preparatevi che in questo mese ve li scaliamo, perché dal mese prossimo non ci sono più”. E quindi c’è stato anche con loro un continuo ricordare, tutti i giorni: “Guarda che tra x giorni non c’è più” […] Da parte dei detenuti è stato accettato senza grosse conflittualità, abbiamo fatto più fatica all’inizio ad applicare questa cosa perché c’erano resistenze da parte degli agenti che temevano chissà quali grosse rivoluzioni, rivolte, su queste cose. (Responsabile Medicina Penitenziaria 2, gennaio 2021)

Difficoltà più consistenti sono state riscontrate nella riduzione e successiva eliminazione di terapie psicofarmacologiche “anomale”, che risultano molto appetibili anche fuori dal carcere nella sostituzione delle droghe illegali, e che in alcuni penitenziari italiani continuano ad essere somministrate: si fa spesso riferimento al Rivotril, un antiepilettico, e all’Akineton, un farmaco utilizzato per la gestione del Parkinson.
Non si è trattato dell’eliminazione totale delle sostanze psicoattive dai prontuari farmaceutici interni, piuttosto di una rimodulazione delle stesse, nella prescrizione di dosaggi più razionali, nella ricerca di alternative ai farmaci off-label, e in più accurate valutazioni cliniche. Si è passati da una situazione di uso e abuso indiscriminato ad una gestione più ragionata e controllata del flusso di medicinali, che non nega a prescindere la valenza del farmaco, ma ne monitora l’assunzione e la limita nel tempo. Tutto questo seguendo un’ottica “pedagogica” di trasformazione radicale dell’approccio a questo tipo di farmaci che agiscono sul sistema nervoso centrale.
Lo “scalaggio”, come tutte le pratiche terapeutiche messe in atto dopo la riforma del 2008, è stato accompagnato dal tentativo di una presa in carico globale dell’utente, possibilmente lontana dalla “medicina d’urgenza” del pre-riforma, volta alla responsabilizzazione dell’individuo e attenta alla relazione terapeutica e umana tra medico e paziente, nonché alla chiarezza nella trasmissione delle informazioni relative al processo in atto. Si è provveduto all’implementazione di incontri di sostegno, sia individuali che di gruppo, con la consapevolezza, da parte dei sanitari, delle criticità insite a processi di disintossicazione condotti in ambienti carcerari privi di stimoli e valide alternative:

Ogni istituto ha delle strategie proprie. Io ci ho riflettuto su questo, visto che il lavoro, che sarebbe la cosa più facile, non sempre è possibile per tutti, noi abbiamo provato a inserire i pazienti in gruppi di studio, di informazione, di educazione, e ne abbiamo messi in opera moltissimi in questi ultimi anni: cineforum, parlare di malattie, di salute, di igiene, di argomenti vari[…] È l’unica cosa che noi possiamo dare in cambio ai detenuti: chiamarli, impegnarli, spiegare loro delle cose, è l’unica strada che noi abbiamo da percorrere. (Responsabile Medicina Penitenziaria 1, gennaio 2021)

La lealtà, la chiarezza, premiano molto con loro, perché se sei chiaro, leale e rispettoso, loro capiscono. Infondo sono persone adulte con capacità cognitive. Considera che in un ambiente in cui sono sminuiti nella loro individualità, trovarsi di fronte a un sanitario che un po’ li responsabilizza, ragiona con lui in un modo paritetico come adulto, in qualche modo te li tiri dietro, perché a quel punto diventano pazienti come gli altri, nella relazione. (Responsabile Medicina Penitenziaria 2, gennaio 2021)

Abbiamo messo in campo, in quel periodo, qualche attività in più, qualche colloquio in più, nel senso che abbiamo fornito loro l’appoggio che serviva non solo a capire, ottenendo delle informazioni chiare, cosa accadeva, spiegando loro che a lungo termine quella modifica avrebbe portato un beneficio. Ma facendo anche qualche colloquio in più, non solo di verifica sullo stato di salute, ma anche di supporto, qualcosa che li aiutasse a capire meglio e quindi ad accettare e collaborare al meglio a questa novità. (Referente Equipe Dipendenze Patologiche, gennaio 2021)

Nei brani di intervista appena riportati, la messa in atto di pratiche dialogiche nel delicatissimo passaggio della riduzione delle somministrazioni e della razionalizzazione di dosaggi e consumi rimanda implicitamente alla dimensione del patto terapeutico tra sanitario e paziente. Una dimensione in apparenza scontata, in quanto tali meccanismi di alleanza sono propri di qualsivoglia modello accreditato di riduzione del danno da assunzione di sostanze che producono dipendenza o di costituzione di un futuro di astinenza da simili consumi. I toni, percepibili anche nelle trascrizioni, indicano invece che di scontato ci sia ben poco, in un ambiente istituzionale nel quale le pratiche in questione devono fronteggiare assetti relazionali controproducenti in quanto deresponsabilizzanti e infantilizzanti. La valorizzazione del rapporto terapeutico deve infatti confliggere non solo con talune strategie di mantenimento dell’ordine interno, ma anche con la sistematica riproduzione di individualità “sminuite”.

Rimane un certo margine di indeterminatezza, perché non è scontato che un soggetto che secondo il parere medico dovrebbe mantenere monitorato il proprio stato di salute, anche in relazione ad eventuali dipendenze patologiche, una volta fuori dal carcere sia in condizioni economiche, sociali e psicologiche per farlo.

Osservazioni conclusive

Si trovano a farla [la riduzione del consumo di farmaci] in un momento di deprivazione di tante altre cose, come dicevi tu prima, quindi magari fuori non ci avrebbero neanche pensato, sarebbero andati avanti a fare come facevano prima con le droghe, i farmaci… Si cerca di lavorare, per esempio quando si arriva al fine pena, alla riduzione dei farmaci per insonnia o per la gestione delle ansie, più legate al contesto detentivo, e poi si cerca anche di fare un passaggio sui servizi territoriali. Per cui alle persone di cui ci rendiamo conto che aderiscono al quantitativo di farmaci che noi gli diamo perché non possono fare altrimenti, ma se potessero ne prenderebbero il triplo, cerchiamo di fare un passaggio ai servizi territoriali e di lavorare con il detenuto affinché si renda conto di quanto è importante, e aderisca a proseguire questo progetto con un programma terapeutico anche all’esterno del carcere. Sicurezze da questo punto di vista non ne abbiamo, ovviamente è una scelta personale, ma cerchiamo di fornire opportunità reali di contatto con servizi esterni ma anche di riflessione, finché si è in carcere, su questa problematica. (Referente Equipe Dipendenze Patologiche, gennaio 2021)

Da quest’ultimo frammento di intervista emergono due elementi cruciali: da un lato le criticità di un processo di riduzione eterodiretto e condotto in un contesto di deprivazione, dall’altro i problemi relativi al fine pena, e quindi al reinserimento in ambienti che a seconda dei casi possono predisporre o meno l’individuo all’utilizzo improprio di sostanze psicoattive e a comportamenti considerati problematici in quanto devianti, ma anche in virtù delle loro ricadute cliniche. Anche la possibilità di accedere ai servizi sanitari esterni per proseguire i percorsi terapeutici intrapresi all’interno del carcere è una strada che in alcuni casi non risulta praticabile, si pensi, ad esempio, ai cittadini stranieri privi di permesso di soggiorno, e quindi in difficoltà nelle procedure di accesso “regolare” ai servizi. Tuttavia, si cerca di incoraggiare la continuità clinico-assistenziale tra l’interno e l’esterno degli istituti penitenziari, fornendo i contatti necessari ai pazienti e aprendo canali di comunicazione con le strutture sanitarie presenti sul territorio, talvolta anche con gli ambulatori dedicati alla cura delle persone migranti in condizioni di irregolarità giuridica. Rimane un certo margine di indeterminatezza, perché non è scontato che un soggetto che secondo il parere medico dovrebbe mantenere monitorato il proprio stato di salute, anche in relazione ad eventuali dipendenze patologiche, una volta fuori dal carcere sia in condizioni economiche, sociali e psicologiche per farlo. Comunque, appare senz’altro significativo che questo tentativo di costituzione o rinforzo dei ponti comunicativi tra servizi interni ed esterni al carcere origini da una pratica sperimentale clinicamente virtuosa, la stabilizzazione della quale passa per l’interiorizzazione di una linea di policy riduzionista per nulla scontata in ambito penitenziario. Infatti, nelle interviste realizzate è stata sottolineata a più riprese l’importanza di formare un gruppo coeso tra gli operatori sanitari, tanto a livello locale quanto regionale, e di mantenerlo tale anche a fronte dei frequenti turnover, che altrimenti rischierebbero di parcellizzare il servizio e rendere inefficace la pratica.
I medici intervistati hanno riferito come, in occasione del trasferimento nei rispettivi istituti di persone provenienti da carceri situate in altre regioni, si trovino spesso di fronte pazienti con dosaggi altissimi non solo di benzodiazepine, ma anche di quei medicinali che in Emilia-Romagna da tempo sono stati totalmente eliminati dalle scorte farmaceutiche interne, in quanto difficilmente gestibili e graditi nelle forme di assunzione da abuso. Questa osservazione non implica che al di fuori del contesto regionale preso qui in esame non vi siano pratiche significative di riduzione della somministrazione penitenziaria di psicofarmaci. Il problema si pone piuttosto in ottica sistemica, ovvero nella difficoltà di definire il problema dell’abuso istituzionale di questi farmaci come ampiamente diffuso nel mondo carcerario italiano e di costituire o rinforzare – di conseguenza – orientamenti terapeutici condivisi e socializzati.
Non bisogna dimenticare che nella storia dell’Osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione sono state prodotte decine di relazioni che riportavano del clima opprimente e disperato percepito nelle sezioni “sedate”. Sulla scorta di quanto riportato in questo contributo, non siamo in condizione di concludere che il modello emiliano-romagnolo sia efficace ed estendibile. Piuttosto appare ambivalente e di realizzazione non semplice. Ciò che sicuramente valorizza è un livello di riflessività critica sulle prassi sanitarie interne ad opera del personale sanitario, con un potenziale di coinvolgimento significativo sui detenuti e gli altri componenti dello staff. L’estensione di questo approccio, al di là dei diversi possibili modelli e delle possibili ricadute operative, sarebbe di per sé ragione di avanzamento verso un carcere meno cupo.

Riferimenti bibliografici

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References

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2 Sono stati intervistati quattro medici, tre dei quali lavorano in istituti penitenziari emiliani, uno in un istituto della Romagna. A causa delle restrizioni imposte dall’emergenza sanitaria legata alla diffusione del Covid-19, i colloqui sono stati effettuati a distanza, secondo modalità che andassero incontro alle esigenze dei singoli interlocutori. Un colloquio con due operatrici sanitarie dello stesso istituto è stato svolto via Skype, un medico è stato intervistato telefonicamente, e il quarto operatore ha risposto alle domande via mail. Tutte le interviste sono state svolte nel mese di gennaio 2021.