le qualità delle attività presenti nel carcere e l’intensità delle relazioni fra dentro e fuori avrebbero potuto distruggere il carcere e contemporaneamente trasformare la città rendendola più giusta e inclusiva
La definizione degli spazi degli edifici carcerari è un importante veicolo di senso visto che l’obiettivo della detenzione non è il mero contenimento ma la risocializzazione del detenuto. Il carcere dovrebbe quindi essere innanzitutto un edificio di comunità e i suoi spazi dovrebbero farsi portatori di questa istanza e dei valori di inclusione e partecipazione. Per soggetti costretti a vivere il loro tempo in una struttura chiusa la maggiore o minore modulazione degli spazi significa minore o maggiore possibilità di azione, di movimento.
Gli spazi di un edificio carcerario condizionano positivamente o negativamente il periodo di detenzione, che dovrebbe essere progetto di vita, punto di partenza per una proiezione verso la società libera. La riforma del sistema penitenziario del 1975 aveva tracciato il solco per una articolazione complessa degli ambienti interni e per una nuova dinamica di rapporti con l’esterno. La progettazione di spazi collettivi all’interno delle carceri avrebbe dovuto rompere l’universo totalitario della cella e il regime di vita indifferenziato tipico delle istituzioni di controllo, in cui la struttura del tempo e dello spazio non ha articolazioni né interne e né esterne. L’esperienza della detenzione stravolge totalmente i concetti di tempo e spazio rispetto alla realtà esterna. Lo spazio subisce una compressione: il detenuto è costretto a vivere in spazi chiusi tutta la sua giornata; al contrario il tempo tende a dilatarsi a causa della ripetizione di gesti sempre uguali. Rompere la dimensione totale della temporalità e della spazialità della cella significava anche rompere l’isolamento verso l’esterno. L’apertura avrebbe dovuto realizzarsi non solo favorendo e creando canali di comunicazione continua del singolo detenuto con il mondo esterno, ma lavorando sui contatti collettivi fra la comunità reclusa, le città in cui le strutture penitenziarie erano inserite e la società tutta. Come ricordava Giovanni Michelucci, le qualità delle attività presenti nel carcere e l’intensità delle relazioni fra dentro e fuori avrebbero potuto distruggere il carcere e contemporaneamente trasformare la città rendendola più giusta e inclusiva.1)
Ma nella realtà delle cose, e nonostante siano passati quasi cinquant’anni dalla riforma, è proprio l’analisi spaziale che ci restituisce la difficoltà di realizzazione dei principi di umanizzazione e risocializzazione che la pena dovrebbe/vorrebbe perseguire.
L’inadeguatezza degli spazi carcerari è riconducibile ad un paradosso di fondo. Gli studi dedicati all’analisi del patrimonio edilizio penitenziario, attualmente funzionante nel territorio italiano, hanno identificato sei diversi gruppi tipologici: gli edifici a corte, quelli a disposizione radiale, quelli a palo telegrafico, quelli in cui è presente una differenziazione dei corpi edilizi e quelli a disposizione compatta. Ciascuna tipologia appartiene ad una diversa epoca storica, si va dalle tipologie che risalgono alla progettazione dei primi penitenziari ottocenteschi fino alle realizzazioni più recenti prodotte negli ultimi decenni del Novecento. Non si tratta però di una mera classificazione cronologica poiché le architetture carcerarie sono estremamente peculiari. Infatti, ogni tipologia è frutto di una specifica filosofia della pena che determina tout court la organizzazione degli spazi. Tenendo conto di questa differenziazione, l’analisi spaziale delle strutture detentive attualmente in funzione nel nostro paese restituisce contemporaneamente la filosofia della pena che ha prodotto quegli spazi, ma soprattutto la persistenza nel tempo di una progettualità obsoleta. Ed è questa progettualità obsoleta a rappresentare uno dei maggiori vincoli rispetto agli obiettivi della detenzione che nel tempo si sono profondamente modificati. In sostanza il fine risocializzante della pena si scontra con l’obsolescenza di forme spaziali sulle quali di volta in volta si prova ad intervenire cercando adattamenti spesso impossibili. Inoltre, l’eterogeneità delle tipologie fa sì che alcune si adattino meglio a possibili modulazioni e questo di nuovo si ripercuote sulla esperienza della detenzione che di conseguenza può essere ulteriormente afflittiva. Ad aggravare questo quadro vi è poi il degrado che deriva dal pessimo stato di conservazione delle strutture e dalla mancanza di manutenzione. Per cui alla obsolescenza spesso si somma la fatiscenza rendendo la deprivazione spaziale una pena che si aggiunge alla pena. Questa breve introduzione di carattere generale sullo statuto spaziale delle carceri italiane fa da cornice ad ulteriori considerazioni sullo spazio carcerario che sono emerse dalle visite in due in due istituti toscani, quello di Arezzo e quello di Grosseto.
per le altre due Sezioni visitate, abbiamo osservato che al momento c’era una sola sala comune polivalente per una sezione, la cosiddetta Sezione Chimera, mentre l’altra ne è del tutto sprovvista.
Lo spazio sospeso: Arezzo
La casa circondariale di Arezzo è una struttura costruita nel 1935 e si trova nel centro della città. Abbiamo ritenuto significativo raccontare la visita in questa struttura perché qui la questione dello spazio è legata ad una contrazione e una indisponibilità dovuta ad un processo di ristrutturazione. L’ultima visita all’istituto era stata realizzata nel 2018 quando già in corso erano i lavori di rifacimento. Ma a distanza di anni le cose sono rimaste essenzialmente le stesse. Le aspettative che riponevamo rispetto agli effetti positivi delle opere di ristrutturazione in termini di vivibilità degli spazi e di qualità della esperienza detentiva non sono state purtroppo soddisfatte, anche perché i lavori sono stati ulteriormente rallentati a causa della pandemia. La più grande criticità di questo istituto si racchiude quindi in una parola: spazio. Perché non ce n’è, o meglio è sottratto dalle chiusure legate ai lavori di ristrutturazione. Questa carenza finisce con incidere pesantemente sulla quotidianità della vita detentiva in ogni suo aspetto.
I lavori di ristrutturazione, tra l’altro, sono iniziati nel 2010 e prevedono un intervento che coinvolge l’intero istituto. Ma la riqualificazione va a rilento e attualmente risulta chiusa una intera Sezione. Nello specifico, la chiusura coinvolge la Sezione principale dell’istituto, il che ovviamente ha determinato un cambiamento notevole nella capienza effettiva della popolazione detenuta: nonostante nella pratica l’istituto al momento possa ospitare solamente 34 detenuti, la capienza regolamentare è rimasta ufficialmente quella ante ristrutturazione, vale a dire 100 detenuti.
La questione però è piuttosto chiara: Arezzo è uno di quegli istituti che concorre a “deformare” le statistiche nazionali sull’affollamento, poiché ad un primo e non attento sguardo, il dato di circa 30 detenuti presenti, su una capienza di 100, potrebbe risultare un dato favorevole rispetto agli standard richiesti per la qualità della vita detentiva. Diversamente, se consideriamo che dal 2010 ormai la capienza regolamentare è effettivamente di 34 (con un grande turn over della popolazione detenuta all’interno dell’istituto) la situazione di Arezzo circa il tasso di sovraffollamento assume decisamente un’altra connotazione. Infatti, parlando di stime sul sovraffollamento, il fatto che negli anni non sia mai stato revisionato il termine per la capienza regolamentare – ma, anzi, sia stato affiancato dal concetto di “capienza tollerabile”, ambigua e vaga espressione coniata nell’intento di celare le irregolarità dovute al non rispetto della metratura 2)–, non ci conforta visto che stante la situazione della struttura il tasso di affollamento è quasi sempre (dal 2010) sul filo del rasoio. Ma al di là della capienza drammatica è la situazione più generale degli spazi all’interno della struttura.
E questo lo abbiamo potuto osservare direttamente nel corso della visita, durante la quale la situazione dell’istituto ci ha messo di fronte all’afflizione che comporta la carenza di spazio, osservata in ogni ambito. La sottrazione di spazio dovuta alla ristrutturazione è stata infatti aggravata dalla emergenza sanitaria nazionale dovuta al Covid 19. Per fronteggiare l’emergenza ed evitare la diffusione del virus la Sezione di semilibertà è stata trasformata nella sezione Covid per i positivi e i nuovi giunti.
Per quanto riguarda i semiliberi, è stata ricavata una piccola sezione in un’altra parte dell’istituto (al momento della visita vi erano 3 semiliberi di cui uno in licenza). Ovviamente l’auspicio dello staff penitenziario è quello di poter ristabilire con velocità le Sezioni, riportando anche quella dei semiliberi, ma allo stato attuale ulteriormente siamo in una fase di restringimento di uno spazio già contratto. Tra l’altro questa vicenda apre a considerazioni più generali rispetto alle difficoltà di gestire le situazioni di emergenza sanitaria dovute alla mancanza di differenziazione degli spazi che affligge in generale tutte le strutture penitenziarie italiane. E in questo senso sarebbe auspicabile che si aprisse un dibattito sulla inadeguatezza delle strutture carcerarie in termini di modulazione degli spazi interni in caso di situazioni emergenziali.
Gli spazi comuni interni alla casa circondariale di Arezzo si contano sulle dita di una mano: infatti per le altre due Sezioni visitate, abbiamo osservato che al momento c’era una sola sala comune polivalente per una sezione, la cosiddetta Sezione Chimera, mentre l’altra ne è del tutto sprovvista. Siamo entrati nella unica sala comune disponibile e abbiamo trovato una vecchia lavagna, un televisore e una scarna collezione di libri. Non ci siamo stupiti di vedere che i detenuti, al momento della nostra visita, si trovassero tutti nel corridoio della sezione, come se fosse preferibile (e più fruibile) lo spazio del corridoio. Questo la dice lunga sulla condizione di privazione che caratterizza anche quegli spazi pensati per la socialità.
Non abbiamo visto una palestra: abbiamo visto un telo di plastica che divide la sezione chiusa per ristrutturazione da tutto il resto e abbiamo visto che gli attrezzi (fino al 2010 conservati in uno spazio apposito) sono stati “temporaneamente” (si fa per dire) posizionati in questa zona.
Non esistono al momento spazi esclusivi per le lavorazioni, il che ovviamente limita l’offerta formativa dell’istituto, ma anche, e soprattutto, le possibilità di accesso alle attività lavorative: nonostante il numero esiguo di detenuti (rispetto alla capienza ufficiale) non c’è possibilità al momento di garantire a tutti i detenuti contemporaneamente accesso al lavoro. Le attività lavorative si svolgono prevalentemente con rotazioni da un massimo di 2 mesi a un minimo di 15 giorni.
Mancando tutto, tutto quello che c’è è polivalente. All’interno dell’aula scuola vi è una biblioteca che, come per la sala comune della sezione Chimera, viene utilizzata come aula studio e sala lettura. Il tempo della detenzione si sa è un tempo di attesa, un tempo sospeso. L’attuale situazione del carcere di Arezzo amplifica questo senso di sospensione rendendo il tempo ancora più vuoto.
nel carcere non c’è spazio e il carcere non si è fatto spazio nella società
Lo spazio non spazio: Grosseto
L’altra esperienza che vogliamo raccontare è quella della visita nella casa circondariale di Grosseto. Si tratta di una struttura edificata fra il 1855 e il 1858 poco prima quindi dell’Unità d’Italia. Il palazzo ha una pianta rettangolare, ha tre piani nel corpo centrale e due nelle ali laterali, nel retro è dotato di un cortile circondato da mura. Come le altre strutture edificate nello stesso periodo anche il carcere di Grosseto ha una collocazione nel tessuto storico della città. Di solito questo tipo di collocazione ha il pregio di permettere maggiori contatti con i familiari visto che le strutture con un posizionamento centrale sono più facilmente raggiungibili. Nello stesso tempo facilitati sono i contatti con l’esterno e con la città, per cui l’obsolescenza della progettazione può essere in parte compensata da una maggiore permeabilità delle strutture. L’istituto di Grosseto fa eccezione: è una vera e propria isola in mezzo alla città. Questo è ciò che si può pensare non appena si arriva dinnanzi alla struttura. Ed è un pensiero che permane anche una volta terminata la visita, assumendo tuttavia decisamente un’altra connotazione.
Di sicuro ciò che colpisce in prima battuta è proprio lo spazio fisico che occupa, quale palazzo storico incastonato in mezzo alle abitazioni in pieno centro cittadino. Al nostro arrivo davanti all’istituto, non ci siamo accorti ad un primo sguardo di quanto le caratteristiche stesse della struttura e la sua monumentalità la rendevano estranea al tessuto circostante.
Ciò che ci è stato riportato durante il colloquio con l’educatrice e la polizia penitenziaria rappresenta l’esatto opposto rispetto all’immagine del carcere al centro della città. Si tratta di un’isola senza ponti con il resto del contesto urbano. Quasi (o forse senza quasi) dimenticata. Ci hanno riferito di una situazione di pressoché totale invisibilità dell’istituto in relazione al Comune, alla Provincia, alle associazioni del territorio e ai cittadini. Come se l’istituto di Grosseto fosse uno spazio che non esiste. Per questo non è stato così sorprendente il fatto che, al momento della nostra visita, non fosse attivo alcun corso di formazione o alcun lavoro di pubblica utilità. L’approccio securitario che permea la società grossetana e le sue amministrazione impedisce di fatto di aprire una finestra sull’istituto.
Questo concetto di spazio-non-spazio nel rapporto del carcere in relazione con il mondo esterno può inoltre essere applicato alla descrizione della situazione che abbiamo potuto osservare dentro le mura.
Infatti, anche se si tratta di una struttura di piccole dimensioni, il tasso di sovraffollamento di Grosseto è spropositato: al momento della visita, a fronte di una capienza regolamentare di 15 posti, vi erano 29 detenuti. Quasi il doppio di detenuti previsti per un tasso di sovraffollamento del 193%. Anche in questo caso lo spazio è il termine chiave per orientare la nostra analisi: l’istituto che, come abbiamo già accennato, è una struttura di fine Ottocento, presenta quelle limitazioni che discendono dalla obsolescenza della progettazione carceraria a cui abbiamo fatto riferimento. Con l’aggravante che essendo un edificio storico può essere manutenuto ma non si possono fare interventi profondi o creare spazi ex novo. Visitando le Sezioni ci siamo trovati di fronte a camere detentive che ospitavano 5 persone, con due letti a castello e uno singolo; tutto in un clima di oppressione fisico ben oltre il limite della dignità umana. In un contesto simile garantire i 3 metri quadrati calpestabili per ciascun detenuto risulta impossibile. Abbiamo visto camere troppo strette, scure, con schermature alle finestre, il cui spazio era prevalentemente occupato dai letti e ciò non permetteva neanche a noi i movimenti più elementari, figurarsi con 5 persone che quotidianamente vivono in un contesto simile.
Infatti, nei casi estremi di camere con 5 detenuti, non si riesce ad arrivare nemmeno al metro quadrato calpestabile per persona, senza dimenticare il problema dello spazio in senso verticale, poiché per i casi di strutture a castello, il letto superiore è distante dal soffitto solo di pochi palmi. Siamo entrati nelle camere detentive quasi camminando di lato.
E se gli spazi sono così limitati nelle Sezioni, non ci ha sconvolto molto la carenza, se non la totale assenza, di locali adibiti alla socialità.
All’esterno esiste un unico spazio aperto, che di fatto coincide con la zona passeggi di entrambe le Sezioni; lo abbiamo visto in una giornata soleggiata di ottobre. Un rettangolo di cemento contenente assolutamente il nulla. I raggi di sole riflettevano sull’asfalto esterno, ed il ricordo di aver chiuso gli occhi per il fastidio del sole. Ci siamo immaginati come potesse essere utilizzato questo spazio privo di qualsiasi riparo durante i mesi estivi… A questa domanda ha risposto l’educatrice: «in nessun modo». L’area esterna è del tutto impraticabile durante le giornate troppo fredde o piovose per lo stesso motivo.
Durante la nostra visita abbiamo chiesto se vi fossero spazi dedicati alle lavorazioni o destinate a specifiche attività: abbiamo visto poi con i nostri occhi che c’erano solo due piccole aule a disposizione per i detenuti che hanno una funzione polivalente e che a turno vengono usate per i corsi scolastici e per altre attività formative.
E poi, ovviamente, l’emergenza sanitaria del Coronavirus ha inevitabilmente ridotto lo spazio vivibile, il quale era già di per sé esiguo in una realtà come quella di Grosseto. Infatti, nel contesto di questo istituto, l’emergenza sanitaria ha impattato fortemente sugli spazi interni ed anche, di conseguenza, sulla qualità della vita detentiva: sono state chiuse la palestra e la cappella poiché si trovavano nell’area che è stata designata poi per la gestione di casi di positività e di isolamenti preventivi. La cappella è stata temporaneamente spostata all’interno di una delle due aule polivalenti. Per quanto riguarda gli attrezzi della palestra, sono stati spostati nello spazio esterno.
Le considerazioni che sono scaturite dalla visita ai due istituti toscani e quelle più generali che abbiamo riportato nella prima parte dello scritto ci conducono ad una amara constatazione: nel carcere non c’è spazio e il carcere non si è fatto spazio nella società. La cella riempie ancora il tempo della detenzione e la privazione spaziale connota il vissuto quotidiano dei detenuti. Nello stesso tempo l’apertura verso l’esterno è una chimera, anche in questo caso è stato sufficiente osservare gli spazi del carcere per evidenziare la carenza di progettualità rispetto all’incontro e allo scambio con l’esterno. Il giardino degli incontri realizzato da Giovanni Michelucci per il carcere di Sollicciano, pensato non per solo i colloqui dei detenuti ma come spazio di attività rivolte alla collettività è rimasto una magnifica eccezione nel panorama nazionale. In più come dimostra il caso di Grosseto quando manca la presa in carico da parte del territorio anche la collocazione più centrale non riesce a spezzare l’isolamento, anzi fa emergere ancora di più il senso di estraneità che si accompagna alla rimozione collettiva del dramma della detenzione.