I diritti LGBT+ in carcere

I diritti LGBT+ in carcere

1024 576 XVIII rapporto sulle condizioni di detenzione

Alessandra Rossi

I diritti LGBT+ : Il carcere alla prova del principio di non discriminazione verso la differenza sessuale e di genere

I diritti fondamentali delle persone private della libertà personale sono stati tema centrale nel progetto di riforma dell’Ordinamento penitenziario disegnato dalla Commissione Giostra del 20151). Figlio della stagione degli Stati Generali dell’esecuzione penale, resa urgente da problematiche come il sovraffollamento delle strutture e l’impostazione carcerocentrica, tale progetto ha esteso il suo interesse anche alla condizione delle persone lgbt+ ristrette.

Quando si parla di persone omosessuali e transgender in carcere, l’immaginario collettivo richiama al centro il tema della sicurezza

Quando si parla di persone omosessuali e transgender in carcere, l’immaginario collettivo richiama al centro il tema della sicurezza: uscire dal tracciato sicuro dell’eterosessualità, dall’espressione convenzionale del proprio genere è un rischio concreto. Significa essere esposti alla prevaricazione e alla violenza virile ma anche a discriminazioni istituzionali. Questione di lunga data, con conseguenze profonde, che hanno a che fare con la dignità della persona e con i limiti ad essa imposti dalla condizione carceraria.

Il faro dell’attività riformatrice della Commissione è stato l’articolo 27 della Costituzione, che richiama due aspetti complementari del nostro stato di diritto: il principio di umanità e quello di solidarietà. Nei lavori dei tavoli tematici questi principi sono diventati istanze, affinché possano essere garantiti un’esecuzione della pena a misura dell’individuo e l’accesso ad attività educative e trattamentali. La buona notizia è che queste istanze sono effettivamente entrate nella legislazione attraverso i decreti legislativi del 2018 (applicativi della legge Orlando) e in particolare nel D. lgs 123, che riforma l’Ordinamento penitenziario estendendo la tutela dell’art. 3 della Costituzione ai fattori di discriminazione per “sesso, identità di genere e orientamento sessuale”. Una trasformazione che oggi si rivela però problematica, perché allarga le dimensioni della differenza, ora anche sessuale, prevedendone la tutela in nome dell’uguaglianza.

Il fatto è che non ce la faccio più a comportarmi da etero, come ho fatto in questi otto anni.

La differenza sessuale: tra affettività’ negata e invisibilizzazione delle donne

In tema di orientamento sessuale, l’amministrazione penitenziaria e il legislatore italiano hanno sempre considerato l’eterosessualità come la norma e la promiscuità come un rischio di disordine. Ne consegue che in carcere la dimensione della sessualità è sostanzialmente negata, contenuta all’interno grazie alla rigida separazione dei sessi e accessibile in forma residuale solo per chi ottiene permessi premio.

    Sono molto depresso: non parlo della mia detenzione, ormai mi mancano pochi anni. Il fatto è che non ce la faccio più a comportarmi da etero, come ho fatto in questi otto anni. Un paio di anni fa, in un altro istituto, arrivò un detenuto nuovo e mi riconobbe: raccontò a tutti che fuori mi aveva visto mano nella mano con un uomo. Mi ritrovai tutta la sezione contro: insulti, sguardi disgustati, altre cose che non dico. Mi fecero cambiare sezione: dissi subito a quelli della nuova sezione che quel tizio aveva mentito, che non era vero quello che raccontava. Piano piano le acque si calmarono: ma ero io che mentivo, non avevo altra scelta. (Detenuto bisessuale – 37 anni. Fonte: Gay Help Line 2021 2))

Nella prassi, in situazioni come questa, l’amministrazione penitenziaria dà ancora oggi priorità al mantenimento della sicurezza interna e non al diritto dei singoli di non essere discriminati: in sostanza se ne fa una questione di giusta allocazione del detenuto, in modo che egli non debba temere attacchi violenti e prevaricazioni all’interno degli spazi comuni. Questa sicurezza però è garantita solo tramite la separazione o l’isolamento: una circolare DAP, la 500422 del 2001, indica infatti l’omosessualità tra i criteri di assegnazione dei ristretti alle cd. “sezioni protette”, che isolano la persona precludendole spesso la partecipazione alle attività trattamentali e ai progetti di inserimento lavorativo a cui accedono gli altri. La novella dell’art. 14 Ord. penit. co 7 cerca di rimediare agli effetti discriminatori di questa separazione, chiarendo che chi è a rischio di sopraffazioni in ragione dell’identità sessuale va assegnato a sezioni omogenee, in cui non si ritrovi a dividere gli spazi con autori di reati che abbiano a che fare con la sessualità o generino riprovazione sociale (cd. “sezioni promiscue”). Essa stabilisce inoltre che la distribuzione delle sezioni deve essere uniforme su territorio nazionale, l’assegnazione deve avvenire previo consenso dell’interessato, a cui va garantita la partecipazione ad attività trattamentali insieme alla restante popolazione detenuta.

    In quest’ambiente è impossibile fare coming out: se dovessi parlare con il direttore, un educatore oppure con lo psicologo temo che mi sposterebbero in un reparto come “precauzione”, così perderei il mio lavoro da sarto. Ho già visto persone gay o trans isolate senza fare nulla dalla mattina alla sera e senza poter uscire dalla cella. Da una parte non posso parlare con il personale del carcere per non perdere il mio lavoro, dall’altra parte non posso essere me stesso. (Detenuto gay – 46 anni. Fonte: Gay Help Line 2021)

Contro questa distorsione amministrativa è stato possibile, negli ultimi quattro anni, utilizzare lo strumento giuridico del ricorso ex art. 35bis, inserito in Ordinamento penitenziario proprio con la riforma del 2018. Significativo in tal senso il pronunciamento del Magistrato di Sorveglianza di Spoleto, che nell’ordinanza 2407 del 18 dicembre 2018 ha dichiarato non più compatibili con l’attuale assetto normativo gli inserimenti di persone che temano discriminazioni per orientamento sessuale o identità di genere all’interno di sezioni protette promiscue3). Nel testo si legge inoltre il monito del Magistrato a garantire regolarmente in carcere l’applicazione della legge 76/2016, che ha introdotto l’istituto delle unioni civili: per chi è unito civilmente infatti, la rivelazione dell’omosessualità è la via obbligata per accedere ai colloqui visivi e alla corrispondenza con il partner, ovvero alla tutela di un’affettività altrimenti negata4). Questa necessità di ricorrere a strumenti giudiziari per fare in modo che la norma antidiscriminatoria venga applicata evidenzia una difficoltà nell’abbandonare strategie classiche di gestione amministrativa: di fatto, per i ristretti, il principio di protezione sembra reggersi ancora in larga misura sulla mutua intimidazione tra categorie considerate meritevoli d’infamia.

Gli omosessuali registrati dall’amministrazione penitenziaria ad oggi sono 64: essi sono assegnati a sezioni protette per la stragrande maggioranza, 57 in tutto.

I dati sulle presenze in carcere5)

L’analisi dei dati sulla presenza e l’assegnazione in carcere di persone omosessuali dichiarate ci permette di inquadrare la situazione attuale e le sue contraddizioni. Al momento i quasi 190 istituti penitenziari italiani accolgono 54.428 detenuti: posto che l’orientamento sessuale è un aspetto intimo dell’identità degli individui e in quanto tale insondabile in termini di numerosità, il DAP traccia la categoria omosex basandola sulla necessità di allocare in condizioni di sicurezza gli omosessuali maschi, visibili o dichiarati. In base a questo criterio, gli omosessuali registrati dall’amministrazione penitenziaria ad oggi sono 64: essi sono assegnati a sezioni protette per la stragrande maggioranza, 57 in tutto. Dei restanti, 4 sono in isolamento individuale per ragioni protettive, 2 in sezioni comuni e 1 stazionante in accoglienza. Gli istituti che accolgono “protetti omosex” ad oggi sono 20: di questi, 15 prevedono l’allocazione di norma in sezioni promiscue, 2 nella sezione per autori di reati che provocano riprovazione sociale, solo 3 ne hanno una separata omogenea per omosessuali. L’elevato numero di sezioni promiscue e il ricorso all’isolamento protettivo evidenziano una prassi in contraddizione con la normativa antidiscriminatoria del 2018, che vorrebbe ormai superata la logica della segregazione protettiva (in isolamento o mista). Di contro però, è importante rilevare che le presenze più numerose si registrano nei tre Istituti con sezioni omogenee: 10 detenuti a Verbania, 16 a Napoli Poggioreale e 4 Foggia.

La distribuzione geografica su territorio nazionale degli Istituti con detenuti gay in sezioni protette mostra un sostanziale equilibrio tra nord e sud, con 8 strutture in queste due aree, ma una minore presenza al centro dove le strutture sono solo 4. Il dato è rilevante perché l’assegnazione a sezioni separate determina spesso movimentazioni verso Istituti che ne sono dotati, comportando un allontanamento della persona ristretta dai propri affetti, in deroga al principio della massima prossimità al luogo del radicamento familiare (art. 14 Ord. penit. co 1) e con ulteriore restrizione dell’esercizio della sua affettività.

Su 64 detenuti totali solo 3 sono impegnati in attività lavorative, 2 su progetti interni al carcere (ex art. 20 Ord. penit.) e 1 all’esterno (ex art. 21 Ord. penit.): quest’ultimo è una delle due persone ristrette assegnate a sezione comune. Si tratta in totale del 5% dei detenuti omosessuali registrati: un livello basso, che conferma l’impatto deterrente della separazione sull’accesso alle occasioni riabilitative in campo sociale.

Per quanto riguarda l’omosessualità femminile non si rilevano dati. Se infatti per l’amministrazione penitenziaria l’eterosessualità è la norma, l’omosessualità è “normalmente” questione maschile. Questo perché l’istintualità virile è un potente elemento di disordine in carcere: i rapporti tra donne invece, vengono percepiti come meno appariscenti, non determinati da pulsioni biologiche violente e quindi meno sovversivi. Ne consegue che la presenza di donne lesbiche o bisessuali non viene attenzionata in alcun modo, né in ottica sicuritaria né in ottica antidiscriminatoria6). L’unico dato significativo in questo ambito arriva dal monitoraggio dell’incidenza delle malattie infettive sulle detenute condotto dal SIMSPe (Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria), che nel 2015 segnala un’incidenza delle infezioni sessualmente trasmissibili di sei volte superiore a quella della popolazione libera e chiarisce che il 6% delle donne partecipanti alla ricerca ha dichiarato di avere attività sessuale in carcere di tipo omosessuale7). In una visione straight delle identità, realizzato il modellamento di comunità mono-sessuali, “omogenee” appunto, la questione dell’omosessualità rimane visibile solo sul fronte del maschile biologico.

La differenza di genere: questo non è un carcere per trans

Considerare la complessità delle autoidentificazioni sessuali e di genere in un sistema penitenziario binario ed essenzialista dovrebbe portare a una problematizzazione delle politiche amministrative centrate sul mantenimento della sicurezza interna: ed è proprio su questo status quo che impatta l’intento antidiscriminatorio dell’art. 1 Ord. penit., che sceglie di esplicitare il sesso e il genere, oltre all’orientamento sessuale.
Ad oggi infatti le persone lgbt+ interpretano il genere nella dimensione di un’agentività slegata dal vincolo biologico, che in termini di ruolo sociale ed espressione corporea non ricalca la normatività del maschile e del femminile legato al sesso. In questo quadro saliente di non conformità però, in Italia e non solo in carcere, le persone trans subiscono un continuum di violenza di genere per tutto l’arco della vita. L’impossibilità di ricondurle alle categorie del nostro spazio sociale, riversata nel sistema giuridico penitenziario, le ha rese a lungo “soggetti imprevisti” per il carcere: se gli uomini transgender non esistono perché la loro natura biologica non pone il problema di un’allocazione sicura, per le donne la visibilità dei corpi e la loro sessualizzazione le espone a comportamenti violenti e a una difficoltà di tutela negli spazi chiusi della detenzione.

    Ah no no: i trucchi, i vestiti… dentro non te li comprano. Tu entri e ti danno tutte cose da uomo… che ti senti proprio di morire a stare così. Infatti noi ci organizzavamo: quando una usciva in permesso premio comprava reggiseni, gonne, perizomi, e poi le rivendeva alle altre. Per forza, come fai se no? Quando sei in carcere purtroppo è difficile: ci sei tu, le altre e un terzo sempre presente, il tempo. Ho un ricordo che ancora mi fa piangere: una volta feci la domandina per fare un corso di teatro, ero contenta perchè nel mio Paese ho studiato danza movimento tanto tempo. Non me lo hanno fatto fare, perché era una attività riservata ai maschi. (Ex detenuta trans – 24 anni. Fonte: Gay Help Line 2021)

Tradizionalmente le donne trans sono state collocate in carceri e sezioni maschili in conformità con il dato biologico (se non operate) ma, riconosciute soggetti vulnerabili, la loro vulnerabilità è stata gestita prima con il ricorso all’isolamento protettivo continuo (ex art. 32 Reg. esec.) e poi con l’assegnazione a sezioni separate protette8). Di nuovo una categoria residuale dunque, transex (come già omosex), creata per ragioni di sicurezza ma che comporta una promiscuità nel momento in cui le vengono dedicati spazi “protetti” insieme a detenuti soggetti a riprovazione sociale. E proprio per risolvere il problema percepito di avere delle donne, seppur non biologiche, protette insieme agli uomini, nel 2009 un gruppo di lavoro PEA del DAP aveva elaborato un modello di trattamento che ipotizzava la creazione di piccoli istituti o sezioni dedicati alle persone trans, in cui potessero essere seguite da personale misto, formato sulle tematiche dell’identità di genere9). Tra le sperimentazioni previste, l’annessione della sezione transex a un reparto femminile, poi realizzatasi nell’esperienza del Reparto D del Carcere di Sollicciano, Firenze. Esito diverso ha avuto il progetto del PRAP Toscana di attivare una prassi di detenzione esclusivamente dedicata a una sorta di “terzo genere”, quello delle persone trans, in un piccolo istituto a Empoli: esso si è prima arenato e poi interrotto.

    Devo dirti la verità: io con i detenuti uomini mi sono sempre trovata bene. Era bello nelle ore d’aria stare insieme… per loro era importante che c’eravamo noi come donne per parlare: io ho aiutato tante persone dal punto di vista psicologico. I problemi più grandi ce li faceva il personale, con le prese in giro, col fatto che ci chiamavano al maschile: “attenta che se la gonna è troppo corta ti esce fuori qualcosa!”. Sai che ti dico: stare con i maschi o con le femmine. Questa questione non importa se poi hai persone che ti trattano di merda. (Ex detenuta trans – 24 anni. Fonte: Gay Help Line 2022)

Il dibattito sulla condizione delle persone trans in carcere è tornato ad accendersi in seguito alla sentenza della Corte Costituzionale 221/2015, che ha sganciato la possibilità di rettificare il sesso anagrafico dall’obbligo di completare il percorso di transizione con l’intervento chirurgico di riattribuzione dei caratteri sessuali

Partendo da tali presupposti, il dibattito sulla condizione delle persone trans in carcere è tornato ad accendersi in seguito alla sentenza della Corte Costituzionale 221/2015, che ha sganciato la possibilità di rettificare il sesso anagrafico dall’obbligo di completare il percorso di transizione con l’intervento chirurgico di riattribuzione dei caratteri sessuali. Questo principio è affermato in parziale correzione della legge 164/1982 e in accoglimento delle indicazioni dell’American Psychological Association che proprio nel 2015 chiariva che le identificazioni in base al costrutto di genere si pongono su un continuum e non sulla dimensione binaria del sesso assegnato alla nascita10). Alla prova del diritto, come confermato nel 2018, l’amministrazione penitenziaria è stata chiamata così a problematizzare, se non superare, la scelta sistemica di collocare le persone trans in sezioni separate e ad adeguare le generalità di detenuti e detenute all’identità di genere anagraficamente riconosciuta.

La questione più difficile da risolvere in questo quadro diventa però la possibilità, ora prevista, di assegnare a sezioni comuni femminili le donne trans non operate: non a caso assume particolare rilievo sul tema un recente pronunciamento del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, che con ordinanza 682 del 4 febbraio 2020 è intervenuto a regolamentare le prassi di tutela dell’identità di genere. La vicenda è quella di una donna transgender detenuta presso la Casa Circondariale di Firenze Sollicciano, nella sezione trans annessa al reparto femminile (Reparto D)11). Questa donna, che pur aveva ottenuto l’adeguamento dei dati anagrafici sugli atti di stato civile, era ancora indentificata come un uomo su matricola e documenti amministrativi, nonché collocata in una sezione separata contro la sua volontà. Il reclamo ex art. 35bis e 69 Ord. penit. al Magistrato di Sorveglianza si era concluso con un rigetto, motivato dalla preoccupazione che la sua condizione genitale maschile potesse determinare un problema di ordine pubblico interno all’Istituto. L’ordinanza di impugnazione del Tribunale ha poi ribaltato questo giudizio, chiarendo che l’identità anagrafica va rispettata a prescindere dalla coincidenza tra corpo e psiche e osservando che, al di là delle buone intenzioni dell’amministrazione, il reparto separato all’interno della sezione femminile non ha favorito le attività congiunte delle donne trans con le altre detenute ma si è limitato a riprodurre un principio di separatezza che ne viola sistematicamente le pari opportunità trattamentali.

Ad oggi le persone trans, tutte donne, registrate in carico a Istituti penitenziari sono 63: di queste 5 sono assegnate a sezioni promiscue, una è in casa di lavoro, 2 sono in sezione comune femminile, tutte le altre sono in sezioni protette omogenee

I dati sulle presenze in carcere

Anche nel caso delle persone trans l’analisi dei dati DAP consente di fare luce sull’effettiva applicazione della recente normativa antidiscriminatoria. Quel che balza agli occhi già alla prima lettura delle tabelle d’archivio, è l’utilizzo incongruo dei pronomi: nel linguaggio burocratico le donne trans vengono definite al maschile o al femminile in maniera confusa e la scelta terminologica per indicare la categoria ricade ancora sulla parola “transessuali”, termine marcato da un pregiudizio sessualizzante e non comprensivo delle persone non operate.

Ad oggi le persone trans, tutte donne, registrate in carico a Istituti penitenziari sono 63: di queste 5 sono assegnate a sezioni promiscue, una è in casa di lavoro, 2 sono in sezione comune femminile, tutte le altre sono in sezioni protette omogenee riservate a categoria transex. Gli Istituti che accolgono persone transgender sono in tutto 12: di questi 7 prevedono una sezione protetta dedicata, quasi sempre a custodia aperta, mentre solo 3 hanno sezioni promiscue, con proporzione inversa rispetto ai detenuti omosessuali. Anche in termini di numerosità, le sezioni più consistenti sono quelle omogenee: 15 detenute a Rebibbia Cinotti, 12 a Como, 10 a Reggio Emilia, 8 a Napoli Poggioreale, 5 a Ivrea e Belluno. Non si registra nessuna detenuta trans in isolamento preventivo, né in allocazione temporanea. É importante inoltre osservare che nel carcere di Firenze Sollicciano, a causa di disposizioni straordinarie relative alla ristrutturazione dei locali, il Reparto D è temporaneamente chiuso: la sola detenuta registrata come persona trans è allocata in sezione comune femminile, camera singola. Allo stesso modo la Casa circondariale femminile di Trento ospita al momento una donna trans in sezione comune.

La distribuzione su territorio nazionale degli Istituti in esame vede una presenza di strutture di gran lunga più numerosa al nord, con 8 istituti: dei restanti, due sono al centro e due al sud. In termini di percentuale, al nord si concentra il 60% delle detenute, il 40% al centro-sud. Sul totale delle presenze si rileva una netta prevalenza di cittadine non italiane: in tutto l’82%, pari a 50 persone. L’assoluta maggioranza delle ristrette vive dunque lontana dalle reti familiari e relazionali di origine, in un Paese diverso dal proprio e in un contesto etnico-culturale con codici che possono essere molto distanti tra loro e da quello in cui sono cresciute: le frequenti redistribuzioni tra Istituti e l’assenza di legami con l’esterno, compromette nei fatti anche la possibilità di godere di permessi premio.

Interesse primario delle persone transgender sin dall’ingresso in carcere è la garanzia di poter proseguire, o attivare, il percorso di affermazione di genere tramite l’accesso alla terapia ormonale sostitutiva. Su questo piano la riforma del 2018 interviene concretamente, introducendo all’art. 11 co 10 Ord. penit. il diritto alla prosecuzione del programma terapeutico e al supporto psicologico ai fini della legge 164/1982. Questa disposizione è servita a sanare una difformità di trattamento tra i servizi sanitari regionali, che solo in alcune Regioni garantivano la copertura dei costi dei farmaci per la terapia ormonale e mettevano a disposizione i medici specialisti coinvolti nel percorso di transizione. Inoltre, nel 2020, una determina dell’Agenzia Italiana del Farmaco ha inserito nell’elenco dei medicinali erogabili a titolo gratuito dal SSN gli ormoni necessari al percorso di femminilizzazione o mascolinizzazione12): anche in questo caso però, il ritardo nell’indicazione dei criteri esecutivi da parte delle Regioni mette a tutt’oggi a rischio l’effettività di uno strumento essenziale a garantire il “corredo dell’identità” delle persone trans.

Conclusioni

Questa istantanea delle condizioni delle persone lgbt+ ristrette, a distanza di quattro anni dalla riforma dell’Ordinamento penitenziario, disegna un quadro a tinte discordanti, in cui lo strumento giuridico fatica a inserirsi su un piano di effettività e la pandemia da covid-19 ha congelato l’effetto benefico delle iniziative trattamentali di formazione e supporto. Nel 2015 una cordata di associazioni trans, con capofila il Movimento Identità Transessuale di Bologna, era riuscita a portare un presidio all’interno di 5 Istituti penitenziari che ospitano persone transgender, attivando sportelli di ascolto e iniziative di sensibilizzazione13). Ad oggi questo progetto è ancora in piedi grazie alla costanza e alla buona volontà di professioniste e volontarie delle associazioni che, in assenza di specifica copertura finanziaria, continuano ad assicurare alle detenute trans uno spazio di colloquio per esprimere i propri bisogni.

Anna D’Amaro, oggi referente del progetto per il MIT, spiega che proprio in reazione alle chiusure per l’emergenza pandemica, è stato necessario rimodulare il progetto su una modalità diffusa, prendendo contatti con le amministrazioni di ogni Istituto e mettendosi a disposizione per dare supporto psicologico o legale alle persone lgbt+ anche con colloqui in videochiamata. La collaborazione con le associazioni romane Libellula e Ora d’Aria, e con Arcigay Antinoo di Napoli è stata fondamentale per ripartire la competenza territoriale delle carceri tra nord, centro e sud:

    Dal 2021 siamo riuscite a riattivare i colloqui in presenza a Milano San Vittore e il presidio fisso del lunedì a Reggio Emilia: per il resto delle strutture riceviamo le richieste di colloqui online direttamente dalle detenute. Le situazioni più difficili le troviamo dove le donne trans sono collocate in sezioni promiscue insieme ai sex offenders: il loro vissuto di violenza pregressa, spesso legato all’attività come sex worker, le costringe a vivere in una condizione costante di paura. È evidente che questa scelta non rispetti il loro bisogno di protezione e la loro volontà. Proprio a San Vittore, in questo momento, una detenuta è in forte sofferenza perché per tutelare la propria incolumità non le è possibile condividere spazi comuni ed è costretta ad un isolamento di fatto in cella singola.

L’attività delle volontarie consente di rilevare i problemi di esecuzione del nuovo Ordinamento penitenziario anche sul piano sanitario: la carenza maggiore si registra nella disponibilità di endocrinologi e psicologi interni alle strutture carcerarie, al punto che spesso le detenute sono costrette a trasporti coatti all’esterno per accedere alle cure relative al trattamento ormonale. In questo stato di cose è auspicabile che l’amministrazione istituisca protocolli con i centri lgbt+ che offrono servizi in tale ambito.

Anche in tema di attività trattamentali, le associazioni sono una risorsa per mettere in campo iniziative accessibili alle persone trans: proprio nell’ultimo anno un accordo con la Libreria delle Donne di Bologna ha consentito al MIT di attivare il progetto “Libro sospeso”, tramite il quale chi vuole può acquistare libri per le detenute. L’idea è semplice ma con effetto win-win, perché il dono crea una connessione tra il mondo esterno e le donne ristrette, aprendo uno squarcio di consapevolezza sull’esistenza di “realtà differenti”, che rimangono altrimenti nascoste alla coscienza comune. Aggiunge la D’Amaro

    Quest’anno poi riusciremo a portare in carcere a Reggio Emilia, il festival “Divergenti”. Il festival del cinema trans ci consente di promuovere una narrazione che altrove ha poco spazio, creando un focus sulle esperienze di chi ha un’identità di genere non conforme: sarà importante per le detenute ritrovarsi in queste storie e sentire per una volta le loro vite al centro della scena.

Da quanto osservato sin qui appare evidente che nelle carceri italiane la segregazione per categorie residuali e l’urgenza di prevenzione della promiscuità non vengono ancora accantonate, tanto nelle scelte amministrative quanto negli agiti del personale penitenziario. Correzione, normalizzazione, sorveglianza e patologizzazione sono dispositivi ancora utilizzati, che ben si contestualizzano nel codice culturale binario della struttura carceraria. Il rischio è quello di trasformare la tutela dei diritti degli individui in tutela dei diritti di alcuni contro altri, custodi e custoditi, o di alcune contro altre, donne transgender e donne cisgender. Per questo sarà ora importante lavorare sull’effettività della ratio giuridica antidiscriminatoria sancita nel 2018, a cominciare dalla riforma del Regolamento di esecuzione dell’Ordinamento penitenziario, come richiesto da Antigone nel documento programmatico licenziato proprio nel 202114). A tutela delle persone lgbt+ ristrette Antigone invita a prevedere un processo di assegnazione che dia al diretto interessato possibilità di scelta; a svolgere in ogni istituto attività in comune con il resto della popolazione, magari con il supporto di una sorveglianza dinamica adeguata; a superare le attuali difficoltà di accesso alla scolarizzazione, alla formazione, alle attività lavorative e sportive; a garantire la formazione del personale penitenziario e sanitario. L’ obiettivo è la realizzazione di un sistema che, disinnescando la paura della differenza sessuale e di genere, rimuova il rischio oggi ancora concreto di emarginazione e di lesione dei diritti individuali.

References

References
1 Istituiti con D. m. 8 maggio 2015, gli Stati Generali dell’esecuzione penale hanno articolato il loro lavoro in 18 tavoli tematici, presentando il documento finale in un evento svoltosi a Rebibbia il 18 e 19 aprile 2016: https://www.giustizia.it/resources/cms/documents/documento_finale_SGEP.pdf
2 Gay Help Line è il contact center nazionale contro l’omofobia e la transfobia del Gay Center di Roma.
3 Ord. n. 2407/2018 Magistrato di Sorveglianza di Spoleto: https://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2019/09/ordinanza_spoleto.pdf.
4 Emblematica la vicenda di una coppia di ristretti nella Casa di reclusione di Padova, che nel 2019 hanno fatto coming out in carcere dichiarando la reciproca volontà di unirsi civilmente. Cfr. ristretti.org
5 Fonte: Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, su elaborazione dell’Ufficio del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà. I dati sono aggiornati al 15 febbraio 2022.
6 Cfr. Le dimensioni dell’affettività, cap. Identità di genere: omosessualità e transessualità della detenzione, Istituto Superiore di Studi Penitenziari 2013.
7 XVI Congresso Nazionale della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (SIMSPe), Cagliari 3-5 giugno 2015.
8 Cfr. il pronunciamento della Corte EDU sul leading case X vs Turkey del 9 ottobre 2012, che ha definito ingiustificata qualsivoglia misura che escluda totalmente il detenuto dalla vita penitenziaria.
9 Programma esecutivo d’azione n. 19/2009 del DAP – Direzione generale dei Detenuti e del Trattamento, Ufficio IV finalizzato all’ “Elaborazione di un modello di trattamento per transessuali”.
10 Cfr. Guidelines for Psychological Practice With Transgender and Gender Nonconforming People, APA 2015 p. 834: https://www.apa.org/practice/guidelines/transgender.pdf
11 Ord. n. 682/2018 del Tribunale di Sorveglianza di Firenze: http://www.articolo29.it/tribunale-sorveglianza-firenze-ordinanza-n-632-del-18-febbraio-2020/?print=1
12 Cfr. Det. AIFA 23 settembre 2020 nella duplice versione per farmaci femminilizzanti e mascolinizzanti: https://www.aifa.gov.it/documents/20142/1229012/Allegato_estrogeni.pdf; https://www.aifa.gov.it/documents/20142/1229012/Allegato_testosterone_FM.pdf.
13 Progetto pilota volto a migliorare le condizioni delle persone lgbt in carcere, 2014-15, associazione capofila MIT, finanziato dell’UNAR. Ha consentito l’apertura di sportelli lgbt+ a Milano San Vittore, Firenze Sollicciano, Napoli Poggioreale, Belluno e al reparto G8 di Rebibbia.
14 Cfr. Proposte di Antigone per un nuovo Regolamento di esecuzione dell’Ordinamento penitenziario, 2021, cap. Persone detenute e internate lgbt+: https://www.antigone.it/upload2/uploads/docs/RegolamentoEsecuzioneProposta.pdf.