XVIII rapporto sulle condizioni di detenzione

Il labirinto della salute in carcere

Il labirinto della salute in carcere

Il labirinto della salute in carcere

1024 576 XVIII rapporto sulle condizioni di detenzione

Francesca Campinoti, Eugenio Cavarzeran, Francesca Stanizzi

Il labirinto della sanità in carcere: l’attività del Difensore Civico

La condizione degli istituti penitenziari italiani è oggetto di numerosi dibattiti che cercano di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle frequenti violazioni dei diritti delle persone detenute perpetrate anche a causa dell’assenza di riforme adeguate, riforme che si prospettano come sempre più imprescindibili e che non possono più essere ignorate.

Tra le varie questioni prese in carico dal Difensore Civico, ormai da due anni si collocano al primo posto le richieste di intervento a tutela del diritto alla salute.

Un supporto a tutela di questi diritti è offerto ormai da anni dall’ufficio del Difensore Civico di Antigone. Come si racconta nell’approfondimento dedicato alle sue attività, le questioni che interessano il Difensore Civico sono molteplici. Alcune si ripetono più di frequente altre sono invece più rare, ma tutte riguardano percorsi di esecuzione penale e la grande maggioranza problematiche sofferte da coloro che si trovano in stato di detenzione.

Tra le varie questioni prese in carico dal Difensore Civico, ormai da due anni si collocano al primo posto le richieste di intervento a tutela del diritto alla salute. Tale primato è presumibilmente frutto di una già complessa gestione delle problematiche sanitarie all’interno degli istituti di pena, aggravata da inizio 2020 con lo scoppio della pandemia di Covid-19.

La sanità in carcere è oggetto di attenzione ormai da tempo, basti pensare alle voci di coloro che chiedono con forza un intervento strutturale che possa porre un argine a una condizione sempre più degradante e fortemente lesiva dei basilari diritti costituzionali. Una doppia pena che non rispetta sotto alcun profilo quelli che sono gli apparenti fini della norma scritta.

Nell’ambito delle sue attività, al Difensore Civico capita di frequente di imbattersi nelle storie di coloro che lamentano difficoltà di accesso alle cure. Gli ostacoli incontrati dai detenuti iniziano spesso a monte di tutto il processo che potrebbe aiutarli a ricevere diagnosi tempestive e adeguate. Spesso, infatti, coloro che prendono contatti con il Difensore richiedono supporto nell’ottenere il rilascio della cartella clinica necessaria per valutare la condizione di salute complessiva in cui versano e cercare di comprendere la tipologia di intervento più adeguata. Già sotto questo profilo non mancano problematiche e difficoltà di accesso, nonostante ottenerne copia sia un diritto del soggetto detenuto che la richiede, come sancito dalla Circolare dell’11 giugno 2003 n. 1907, Direzione Generale Detenuti e Trattamento. La necessità di ricevere prontamente copia della cartella clinica è spesso connessa alla volontà di sottoporre il proprio quadro clinico a un medico di fiducia, come previsto dall’art. 11 O.P., al fine di arginare le difficoltà di accesso alle cure nell’attesa di un intervento dell’amministrazione penitenziaria. Tale esigenza, tuttavia, si scontra con la carenza di personale e con il fatto che il suddetto rilascio ha un costo parametrato alla consistenza della cartella stessa: chi presenta una storia clinica particolarmente articolata, da cui deriva una cartella di dimensioni consistenti, si trova a pagare prezzi elevati cui non tutti riescono ad avere accesso (si consideri che il costo è pari in media a 0,30-0,50 € a pagina).

Sotto tale profilo, il Difensore civico interviene con diverse modalità. Si può concretizzare un supporto nella redazione dell’istanza volta ad ottenere tale documentazione, che poi il detenuto stesso firmerà e rivolgerà alla Direzione e, ove sia trascorso un consistente lasso di tempo in assenza di risposte dall’amministrazione, tramite solleciti alla Direzione stessa.

G., 53 anni, che ci ha scritto chiedendo aiuto perché affetto dal 2019 da dolori articolari ad entrambe le anche che gradualmente hanno peggiorato la sua capacità di movimento.

Una volta ottenuta la cartella clinica, la stessa viene sottoposta all’analisi dei medici volontari che collaborano ormai attivamente con il Difensore Civico. Il loro intervento consente di ottenere una valutazione clinica delle patologie che i detenuti si trovano ad affrontare e fornisce un supporto fondamentale per motivare le eventuali richieste di intervento da rivolgere all’amministrazione. Il supporto offerto dallo staff medico del Difensore Civico ha consentito di migliorare la qualità dei suoi interventi, seppur non bisogna dimenticare che si tratta di volontari che offrono un supporto che di certo non si può sostituire ad interventi attivi nel sistema. La collaborazione tra volontari con formazioni e conoscenze diverse, su cui si regge il lavoro del Difensore Civico, consente di migliorare l’attività svolta ma mette anche in luce come, per ottenere un risultato che sia significativo per i detenuti, le carenze e debolezze del sistema penitenziario debbano essere considerate e affrontate nella loro globalità, coinvolgendo aree di competenza differenti.

Non appena completata la valutazione medica, i volontari incaricati di seguire il caso si occupano di redigere segnalazioni e mediare con l’amministrazione al fine di sollecitare gli interventi sanitari e gli eventuali ulteriori accertamenti necessari tramite la programmazione delle visite del caso. Ancora una volta, nella realtà ci si scontra drammaticamente con la carenza di personale che inevitabilmente rende questo passaggio accidentato e ben lontano dalla tempestività che si vuole sollecitare. Le ASL competenti faticano ad assecondare le molteplici richieste, si scontrano quotidianamente con ricambi frequenti di personale, arrancano nella ricerca di personale sanitario da adibire all’ambito penitenziario e chi ne paga le conseguenze sono sempre i detenuti che vedono programmare le proprie visite urgenti a distanza di 5-6 mesi.

È la storia di G., 53 anni, che ci ha scritto chiedendo aiuto perché affetto dal 2019 da dolori articolari ad entrambe le anche che gradualmente hanno peggiorato la sua capacità di movimento. Oltre a questo, ha un’importante pregressa storia cardiologica con infarti miocardici sottoposti a bypass e una bronchite cronica ostruttiva. Alla comparsa dei disturbi G. aveva effettuato delle indagini radiologiche che avevano evidenziato un quadro avanzato di artrosi dell’anca sinistra per cui era stata posta l’indicazione a protesi chirurgica già nel 2020. Nel frattempo G. era passato dal carcere ad una comunità ma, con l’esplosione della pandemia di COVID-19, tutte le visite preoperatorie erano state sospese. Attualmente G. è nuovamente detenuto, seppur in un diverso istituto, e si è trovato di fronte al totale azzeramento del precedente percorso e alla conseguente necessità di dover ricominciare tutto da capo.

Rispetto a 2 anni fa la condizione clinica di G. è peggiorata al punto da compromettere la possibilità di compiere anche le più semplici attività quotidiane. Vista la difficoltà ad utilizzare l’arto inferiore sinistro ed il conseguente carico eccessivo sul destro per compensare i dolori, attualmente G. cammina con l’ausilio di stampelle. Procrastinare l’intervento di protesizzazione dell’anca non solo limita la sua mobilità e peggiora la qualità della sua vita, ma impedisce a G. anche di svolgere l’attività fisica di cui avrebbe bisogno per calare di peso, il che permetterebbe di tenere sotto controllo un fattore di rischio fondamentale per l’aspettativa di vita di un uomo cardiopatico e con patologie respiratorie croniche.

M., 44 anni, che nel 2010 è stato sottoposto ad un intervento chirurgico di asportazione di un tumore maligno cerebrale.

Da qui un altro dato drammatico che non può non considerarsi: procrastinare gli accertamenti sanitari porta inevitabilmente con sé il pericolo che la patologia si aggravi al punto da porre sempre più in pericolo le già precarie condizioni di salute di coloro che attendono le cure a cui hanno diritto. Nello svolgimento della sua attività il Difensore si trova a seguire casi di persone che da anni si battono per vedere riconosciuto il loro malessere e perché chi di competenza si accorga che questa situazione non può restare in uno stallo perenne.

Ne è diretta immagine la storia di M., 44 anni, che nel 2010 è stato sottoposto ad un intervento chirurgico di asportazione di un tumore maligno cerebrale. I sintomi erano comparsi circa un mese prima dell’operazione dapprima come formicolii agli arti e, successivamente, con crisi epilettiche generalizzate tonico-cloniche.

In seguito alla rimozione del tumore i sintomi si erano inizialmente risolti, ma sono ricomparsi quattro anni dopo con la stessa modalità della prima presentazione. Non era stato possibile, infatti, rimuovere la massa in maniera radicale, trovandosi questa troppo vicino ad aree cerebrali che controllano la sensibilità ed il movimento e la cui lesione può provocare disabilità permanenti. Alla ricomparsa dei sintomi M. è stato più volte valutato dagli operatori sanitari del carcere in cui risiede, sia dal medico penitenziario sia da uno specialista psichiatra e ciononostante la nuova presentazione dei sintomi per molto tempo è stata erroneamente interpretata come una condizione ascrivibile a stati d’ansia e, pertanto, trattata come tale senza eseguire ulteriori approfondimenti. Si tratta infatti di sintomi aspecifici che, ad una rapida visita, possono essere confusi con stati conseguenti ad attacchi di panico. Gli episodi di crisi convulsive tonico-cloniche vere e proprie sono ricomparsi solo in seguito, in numero frequente, e sono stati trattati con ripetute iniezioni intramuscolo di farmaci anticomiziali. Anche successivamente alla comparsa di questi nuovi sintomi M., che risiede in un istituto carcerario ad oltre un’ora di distanza dal più vicino servizio di Neurochirurgia, non è stato sottoposto a nuove indagini strumentali né visite specialistiche per evidenziare o escludere una ripresa di malattia.

M. è un uomo giovane, affetto dalle sequele croniche di una malattia oncologica, che può andare incontro a complicanze disabilitanti e anche potenzialmente letali e che necessiterebbe di un monitoraggio altamente specialistico regolare e continuato nel tempo, possibilmente a carico di un unico centro di riferimento che abbia la possibilità di conservare per intero la sua storia clinica. Gli infiniti passaggi burocratici che si devono affrontare per accedere ad una visita medica esterna, le interminabili liste d’attesa – il tutto notevolmente appesantito dalla pandemia da COVID-19 – e la precarietà delle condizioni in cui M. versa, rendono frammentario, accidentato e conseguentemente inefficace il percorso di cura che dovrebbe assicurare la tutela della sua salute.

Il caso di M. è emblematico anche al fine di sottolineare che le persone affette da patologie croniche avrebbero bisogno di essere prese in carico da servizi specialistici in grado di eseguire visite periodiche sia dentro che fuori dal carcere, di intraprendere terapie specifiche e di intervenire sui fattori di rischio che vanno ad incidere sulla progressione della malattia. Tutte queste necessità si scontrano con una sanità penitenziaria evidentemente al collasso, composta da medici ed infermieri che operano all’interno degli istituti con risorse scarse e con personale del tutto insufficiente ad un’adeguata gestione del problema. In media è presente un medico per 700 detenuti e, in alcuni casi, l’assenza di personale non garantisce la presenza di almeno un medico nell’arco delle 24 ore, con gli infermieri che si trovano a dover fronteggiare situazioni emergenziali potendosi rivolgere esclusivamente al personale di polizia penitenziaria, evidentemente non in possesso delle competenze necessarie per rappresentare una risorsa utile in questo contesto. In molti abbandonano l’incarico perché si configura come una posizione lavorativa instabile e piena di rischi e non si riesce a trovare dei sostituti. In questa condizione il rischio di errore e burn-out degli operatori è elevatissimo e giungere ad una diagnosi e individuare tempestivamente una terapia adeguata è spesso complesso. In prossimità della scadenza dello stato di emergenza connesso alla pandemia da COVID-19 si prospetta all’orizzonte un’eventualità che comporterà un inevitabile aggravamento di questa situazione già drammatica: gli OSS (operatori socio-sanitari), impiegati dalla Protezione Civile per far fronte all’emergenza COVID all’interno degli istituti penitenziari, probabilmente non vedranno riconfermato il loro contratto e si prospetta la perdita di circa 1000 unità di personale.

In Italia circa il 28% della popolazione detenuta ha più di 50 anni, dato sicuramente al di sopra della media europea che si attesta al 15%

La carenza di personale e l’emergenza sanitaria legata alla pandemia hanno portato all’attenzione del Difensore Civico non solo le condizioni di coloro che si trovavano ad affrontare in tali contesti patologie complesse come quelle di carattere oncologico o come le malattie neurodegenerative, ma anche la macchinosa gestione di patologie che possono considerarsi quasi normali in condizioni di libertà e che diventano ulteriormente problematiche in un contesto come quello carcerario. La sospensione, tra le altre, di gran parte delle attività ricreative ha sicuramente influito sulla salute dei detenuti. In particolare, la limitazione del movimento e della possibilità di fare attività fisica influisce negativamente sul decorso naturale di malattie croniche molto diffuse, come le malattie cardiovascolari o respiratorie. Quanto detto assume ancora maggiore importanza se si considerano due ulteriori aspetti: in Italia circa il 28% della popolazione detenuta ha più di 50 anni, dato sicuramente al di sopra della media europea che si attesta al 15%; inoltre, le malattie cardiovascolari e respiratorie croniche sono perlopiù caratteristiche dell’età adulta e difficilmente vanno incontro a regressione o risoluzione anche con adeguata terapia medica. Sotto questo profilo sono state diverse le segnalazioni di coloro che hanno lamentato difficoltà di accesso anche alle più semplici e ordinarie visite di controllo. Ancora una volta ci si scontra con la carenza di personale e con l’eccessiva burocratizzazione del percorso di ottenimento di una visita medica in strutture esterne ai penitenziari. L’attività di sollecito, oramai quasi ordinaria da parte del Difensore Civico, nei confronti delle aree sanitarie di competenza dei diversi istituti ha evidenziato preoccupanti carenze di personale al punto che in alcune aree sono assenti responsabili ASL per il carcere in grado di prendere in carico la gestione sanitaria dell’istituto.

Ci sono, inoltre, detenuti con importanti disabilità che avrebbero bisogno di strutture adeguate e prive di barriere architettoniche e con servizi di fisioterapia e riabilitazione che consentano di recuperare quanto più possibile l’autonomia perduta, diritto di cui dovrebbero godere secondo quanto previsto dall’art. 64, co. 1, dell’ordinamento penitenziario. L’ultima rilevazione, risalente al 2015, contava 628 detenuti con disabilità e solo 8 carceri sul totale idonee ad accogliere detenuti disabili; di queste strutture 5 possono contare sulla presenza di un fisioterapista per alcune ore al giorno e una palestra e due hanno una sezione SAI (ad assistenza intensiva): il carcere di Rovigo e la casa circondariale di Bari. Ne risulta che più della metà dei detenuti disabili è ristretto in strutture inadeguate che non offrono un percorso riabilitativo e che, anche chi accede alle strutture virtuose, spesso lo fa sacrificando il principio di territorialità della pena vista la scarsità di soluzioni sul territorio italiano.

G., 57 anni, è stato colpito da una malattia neurologica acuta che l’ha portato nel giro di breve tempo a tetraparesi e necessità di supporto ventilatorio per paralisi dei muscoli respiratori.

Questa ulteriore considerazione viene ben rappresentata dalla storia di G., a sua volta nella condizione di chiedere un intervento del Difensore. Ad Ottobre scorso G., 57 anni, è stato colpito da una malattia neurologica acuta che l’ha portato nel giro di breve tempo a tetraparesi e necessità di supporto ventilatorio per paralisi dei muscoli respiratori. G. è stato ricoverato in ospedale – dove tuttora si trova – e, grazie alla terapia specifica, la fase acuta di malattia è stata superata senza ulteriori complicanze. Una volta stabilizzato, gli specialisti avevano dato indicazione ad intraprendere un percorso riabilitativo intensivo ospedaliero e, successivamente, proseguire con una riabilitazione estensiva extra-ospedaliera per il recupero perlomeno parziale delle attività motorie e nell’ottica di migliorare l’autonomia di G. nelle attività di tutti i giorni.

Il problema sorgerà al momento della dimissione di G. dall’ospedale, quando si dovrà trovare una struttura in grado di accoglierlo, tenendo anche conto della circostanza che si tratta di un detenuto sottoposto al regime speciale ex art. 41 bis. L’istituto penitenziario dove G. si trovava prima del ricovero ha fatto sapere che non può offrire questo tipo di assistenza riabilitativa e, in ogni caso, le celle e gli altri spazi del carcere non sono idonei ad accogliere un detenuto con le disabilità fisiche di G. né sono passibili di adeguamento. Dall’altro lato, la struttura ospedaliera presso cui G. era stato ricoverato durante la fase acuta e tutte le strutture ospedaliere o residenze di riabilitazione geograficamente più prossime non sono predisposte per accogliere un detenuto sottoposto al richiamato regime speciale.. Al momento in cui ha contattato il Difensore Civico, G. si trovava ancora ricoverato in ospedale seppur con una dimissione già prevista al termine della terapia riabilitativa intensiva. Le sue condizioni di salute e la sopraggiunta disabilità fisica rendono incompatibile G. con la vita in carcere ma, allo stesso tempo, la sua condizione di detenuto ostacola l’accesso al trattamento riabilitativo di cui ha bisogno per recuperare le funzioni motorie perse.

Al netto di queste riflessioni, ci si limita a una considerazione finale. Le storie citate, che hanno consentito di volta in volta di approfondire alcuni aspetti problematici connessi alla sanità penitenziaria, rappresentano uno strumento fortemente efficace che aiuta a comprendere l’importanza di dare voce a chi il carcere lo vive quotidianamente. Questo aspetto si lega fortemente all’attività del Difensore Civico che, oltre oltre a quanto già detto, si occupa di raccogliere testimonianze portandole così all’attenzione di chiunque sia disposto ad ascoltarle.