XVIII rapporto sulle condizioni di detenzione

Carceri-Ospedali. Il caso veneto

Carceri-Ospedali. Il caso veneto

Carceri-Ospedali. Il caso veneto

1024 576 XVIII rapporto sulle condizioni di detenzione

Luca Sterchele, Margherita Toso

“Corpi estranei”: la negoziazione della riforma tra comparti sanitari e amministrazione penitenziaria nelle carceri venete

Trascorsi ormai diversi anni dall’approvazione del testo di riforma, ci sembra interessante andare a guardare alle forme concrete che le previsioni in essa contenute sono venute ad assumere nei contesti locali.

Il penitenziario è un contesto sociale e istituzionale che sin dalle sue origini è interessato da continui processi di riforma volti a temperare le numerose criticità che lo contraddistinguono, delle quali si può trovar traccia nella serie storica dei Rapporti sulle condizioni di detenzione che la nostra Associazione produce annualmente ormai da 18 anni, oltre che nelle schede relative ai singoli istituti consultabili sul sito del nostro osservatorio. Eppure, nonostante questa pervicace azione del diritto, risulta difficile immaginare il carcere come un contesto sociale inserito in dinamiche trasformative di ampio respiro. Per quanto le numerose riforme susseguitesi negli anni abbiano certamente contribuito a “rinnovare” il mondo penitenziario e dell’esecuzione penale, queste si sono altresì scontrate con l’ostinata inerzia di un campo istituzionale che si riproduce spesso attorno a dinamiche informali, prassi consolidate e modellazioni locali della norma. In questo senso, le previsioni del diritto faticano a trovare una fedele trasposizione pratica nel contesto carcerario, vedendosi di fatto inserite in un reticolo relazionale che le pone al centro di processi di negoziazione quotidiana tra i vari gruppi che lo abitano e lo attraversano. 

Il caso della cosiddetta riforma della sanità penitenziaria (che si configura invero come l’esito di un processo lungo e composito di interventi del diritto sul campo della salute e dell’assistenza sanitaria in carcere) ci sembra essere emblematico in questo senso. Approvata nel 2008 a seguito di alcune sperimentazioni regionali, la riforma ha segnato la definitiva separazione dei comparti sanitari dall’organigramma dell’Amministrazione penitenziaria, trasferendo le competenze in materia al Ministero della Salute e affidando il servizio sanitario penitenziario alle Aziende sanitarie dei singoli territori di riferimento. Questa divisione di competenze, attribuendo di fatto alle Regioni la responsabilità dell’attuazione della norma, ha prodotto dei risultati piuttosto disomogenei sul territorio nazionale. La natura già di per sé particolaristica dell’universo penitenziario italiano si è così riprodotta sul piano dell’assistenza sanitaria, introducendo i servizi sanitari come fattore ulteriore nella configurazione di quello che Pietro Buffa chiamava “individualismo penitenziario”, ossia l’idea (e il dato) per cui “ogni carcere è un mondo a sé”.

Trascorsi ormai diversi anni dall’approvazione del testo di riforma, ci sembra interessante andare a guardare alle forme concrete che le previsioni in essa contenute sono venute ad assumere nei contesti locali. Non si tratta tanto di verificare se la riforma è stata o meno “applicata” correttamente e in maniera completa, quanto piuttosto di sondare gli effetti concreti che l’intervento normativo è andato a produrre nelle diverse realtà. Questi risultano essere infatti piuttosto eterogenei, in quanto eterogenee sono le realtà locali stesse in termini di risorse a disposizione delle aziende sanitarie, di rapporti tra aree professionali all’interno del penitenziario, di caratteristiche della popolazione reclusa, di “vocazione” degli istituti (nella celebre distinzione, del tutto informale, tra carceri “trattamentali” e non), di “stili” direzionali e di governo e via dicendo. 

Adottando uno sguardo panoramico sugli effetti della riforma nei penitenziari del nostro paese, potremmo infatti affermare che gli obiettivi che questa si poneva appaiono sulla carta pienamente raggiunti: in tutti i penitenziari italiani i comparti sanitari risultano essere indipendenti dall’amministrazione penitenziaria e legati direttamente alle aziende sanitarie territoriali. Questo dato di fatto, tuttavia, pur assicurando una dimensione di indipendenza formale che andrebbe così a potenziare il servizio offerto all’utenza reclusa muovendo in un’ottica di equiparazione nell’esigibilità del diritto alla salute, appare maggiormente complesso e articolato se guardato da vicino. Le visite agli istituti penitenziari svolte negli ultimi anni nell’ambito del nostro Osservatorio sulle condizioni di detenzione ci hanno infatti posto di fronte a delle situazioni tra loro enormemente differenziate. Da qui alcune domande si affacciano nella loro importanza: come si produce “sul campo”, ossia nei rapporti concreti tra sanità e personale dell’amministrazione penitenziaria, questa indipendenza? Come si riconfigurano i rapporti, ora più esplicitamente triangolari, tra aree sanitarie, personale penitenziario e persone detenute? Che effetti producono questi meccanismi rispetto agli obiettivi di potenziamento dell’assistenza sanitaria alla popolazione detenuta che la riforma si poneva?

Con questo breve contributo abbiamo ritenuto utile fornire alcune riflessioni a partire da questi spunti, basandoci sulle osservazioni elaborate nel corso delle visite che abbiamo svolto negli ultimi anni negli istituti penitenziari del Triveneto, ove la situazione complessiva avente a che fare con il rapporto tra sanità e amministrazione penitenziaria ci è apparsa essere particolarmente interessante nel fornire elementi di riflessione sulla riforma, sul raggiungimento dei suoi obiettivi e sulle pratiche necessarie per garantirne la “vitalità”. 

sembrino essere sorti alcuni elementi di frizione tra le aree sanitarie e quelle riconducibili all’amministrazione penitenziaria

Sanità e carcere in Veneto

Come sopra anticipato, l’effettivo trasferimento delle funzioni sanitarie dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale è avvenuto nel 2008, al seguito di un lungo e frammentato dibattito tra chi riteneva tale passaggio immotivato e controproducente e chi indispensabile per l’applicazione dell’articolo 32 della Costituzione. Il fatto che fino a quel momento l’erogazione delle prestazioni medico-sanitarie fosse stata delegata agli organi amministrativi determinava, in un qualche modo, l’inclusione della salute dei ristretti tra gli elementi facenti parte del percorso trattamentale, nel quale rientrano tutte le attività previste per la rieducazione e il futuro ricollocamento sociale del detenuto. Il cambio di paradigma normativo, che ha investito il sistema di ASL regionali del compito di provvedere alle funzioni di tutela sanitaria, ha slegato tali servizi dal Ministero della Giustizia, determinando così l’almeno apparente e parziale adeguamento della rete dei servizi sanitari penitenziari al modello di assistenza previsto per ogni libero cittadino.  
La decisione nazionale di effettuare il passaggio definitivo delle competenze è poi stata gradualmente applicata in ogni realtà territoriale: nello specifico, la Regione Veneto ha approvato le nuove Linee di indirizzo sull’organizzazione della Sanità Penitenziaria nel 2011, identificando così gli Istituti penitenziari a maggior necessità di assistenza sanitaria e definendo i requisiti necessari delle Unità Operative della Sanità Penitenziaria. Le aziende ULSS operative sui territori sede di istituti penitenziari si sono così attivate per istituire le Unità Semplici a valenza Dipartimentale (UOSD), collocate presso i Distretti Socio-Sanitari competenti per territorio. Inoltre, la legge regionale n. 48 del 2018 ha stabilito le prestazioni la cui erogazione spetta alla Sanità penitenziaria, che comprendono attività di medicina sia generale che specialistica, servizi relativi alla presa in carico delle dipendenze, gestione delle emergenze, assistenza infermieristica, distribuzione di farmaci e presidi, come previsto dai Livelli Essenziali di Assistenza previsti dal SSN. Per un migliore e più articolato svolgimento delle sue funzioni, l’unità operativa della Sanità Penitenziaria collabora, qualora necessario, con il Dipartimento di salute mentale, il Dipartimento delle dipendenze, il Dipartimento di prevenzione, il Distretto socio-sanitario e la rete ospedaliera territoriale. L’attuale assistenza sanitaria degli istituti carcerari della regione si configura dunque come un sistema di presidi sanitari organizzati in hub e spoke, differenziati per istituto nella valenza multi-specialistica o specialistica di base a seconda del carico assistenziale e delle dimensioni della struttura. 

Non è possibile in questa sede proporre una dettagliata descrizione dei vari presidi sanitari presenti negli istituti regionali, per la quale si rimanda alle schede dei singoli penitenziari pubblicate sul sito del nostro Osservatorio. Quello che ci interessa maggiormente approfondire è invece la dimensione socio-relazionale che avvolge e dà forma locale e concreta all’innovazione normativa. 

Nel corso delle visite che abbiamo condotto nel corso degli ultimi anni abbiamo avuto modo di notare come, a fronte della sostanziale riorganizzazione dei servizi sanitari all’interno delle carceri venete, sembrino essere sorti alcuni elementi di frizione tra le aree sanitarie e quelle riconducibili all’amministrazione penitenziaria. La diffusa presenza di questi attriti, talvolta e in parte dovuti a degli screzi tra operatori derivanti da divergenze operative in merito alle contingenze che interessano la vita quotidiana del carcere, fa emergere in realtà le peculiarità di un contesto socio-spaziale e organizzativo all’interno del quale l’azione del diritto scalfisce solo in parte la rigidità protocollare di una serie di ingranaggi che si rivelano essere spesso resistenti al cambiamento. 

ci è sembrato di cogliere come l’area sanitaria e quella custodiale riscontrino spesso delle divergenze in riferimento agli obiettivi, alle modalità operative e alle rispettive esigenze professionali

Per quanto la riforma abbia determinato l’instaurarsi di una dimensione di indipendenza dei comparti sanitari all’interno del penitenziario, gli operatori afferenti a questi ci hanno a più riprese parlato del loro essere percepiti come un “corpo estraneo” all’interno dello schema organizzativo dell’istituzione. La metafora ricorrente riporta di una fondamentale frattura simbolica all’interno dell’unità monolitica del carcere, ove l’inserimento di una realtà ora riconducibile ad un orizzonte diverso da quello intramurario – e operante a stretto contatto con il territorio – ha prodotto alcune difficoltà nell’organizzazione quotidiana della vita istituzionale. Questa percezione è emersa in maniera esplicita in alcune visite da noi svolte nel corso dell’anno passato in alcuni istituti regionali, nell’ambito delle quali la variabile della limitata (e talvolta difficile) “cooperazione” tra aree è stata di fatto lamentata da entrambe le parti in causa. Da un lato gli operatori sanitari si sono posti in maniera critica nei confronti delle modalità operative percepite come eccessivamente procedurali e standardizzate poste in essere dal personale dell’amministrazione, le quali vanno a rendere piuttosto complesso l’espletamento di alcune attività specifiche del comparto della salute in virtù del pur comprensibile obiettivo istituzionale legato al mantenimento della sicurezza interna. Dall’altro lato, il personale di sorveglianza e altri operatori facenti capo all’amministrazione lamentano a loro volta una scarsa propensione a collaborare da parte del personale sanitario, accusato di accordare eccessiva e immotivata priorità a delle dimensioni di privacy dell’utente recluso, le quali vengono così descritte come un “muro” che determina una sostanziale incomunicabilità. Questi elementi di contrasto non sembrano in questo senso riducibili a delle difficoltà gestionali legate ad episodi specifici, ma richiamano una dimensione di reciproca alterità delle parti in causa per quanto riguarda gli obiettivi, le priorità prestazionali, le modalità di azione all’interno del campo e gli “stili” relazionali rispetto all’“utenza” di riferimento. Non è raro infatti sentirsi dire che si tratta di due “filosofie” di lavoro molto differenti, che si articolano in maniera sostanzialmente e formalmente diversa. Volendo fornire una schematica rappresentazione della situazione per come ci è stata descritta in diversi casi dal personale, ci è sembrato di cogliere come l’area sanitaria e quella custodiale riscontrino spesso delle divergenze in riferimento agli obiettivi, alle modalità operative e alle rispettive esigenze professionali

Andando per ordine, ciascuna area sembra rivendicare l’importanza e la centralità degli obiettivi che le sono propri: laddove i comparti sanitari operano per tutelare la salute del paziente e favorire il perseguimento di una dimensione di “benessere” (per quanto localmente riconfigurata a partire dalla situazione di vita alla quale è costretto il paziente), il personale di sorveglianza è prioritariamente orientato a garantire il mantenimento delle dimensioni di ordine e sicurezza interne all’istituzione. Questa divergenza di obiettivi, pur non determinando la necessità di uno sbilanciamento radicale, implica altresì la messa in atto di un processo di negoziazione tra aree per la risoluzione di quelle situazioni nelle quali il perseguimento dell’obiettivo dell’una va a compromettere, anche se in forma parziale, l’integrità di quello dell’altra. Cosa succede quando la salute di un detenuto potrebbe beneficiare di regimi detentivi differenti da quelli ai quali è destinato, come ad esempio l’allocazione in cella singola o in sezioni dedicate? Che fare quando un paziente potrebbe trarre giovamento da alcuni dispositivi sanitari che potrebbero tuttavia interferire con la consolidata dimensione di sicurezza che vige in sezione? La risposta a queste domande non è data a priori, per quanto esistano certamente delle procedure standardizzate che renderebbero possibile un incontro di queste istanze. 

È su questo punto però che si colloca un ulteriore elemento di differenziazione tra le aree, avente a che fare con le modalità operative proprie di ciascun gruppo professionale. Mentre gli operatori del comparto sanitario sostengono di orientare prevalentemente il loro lavoro in vista dell’obiettivo proprio del settore, il personale di sorveglianza rimarca l’importanza del rispetto delle procedure previste come elemento cardine nell’espletamento del loro mandato professionale. Di conseguenza, anche le esigenze professionali delle due aree si distanziano su di un continuum tra flessibilità e rigidità nel lavoro quotidiano, per quanto in nessun caso le posizioni degli operatori si situino agli estremi di questa schematica ricostruzione. Gli idealtipi dell’approccio operativo sembrano essere comunque piuttosto pregnanti, essendo lamentati da entrambi i gruppi qualora vengano ad assumere dimensioni di eccessiva (o presunta tale) rigidità: alcuni medici con i quali abbiamo avuto modo di colloquiare lamentano il fatto che “servono certificazioni mediche per tutto: per un cuscino, per andare in palestra…è impossibile!”. D’altro canto, anche il personale di polizia lamenta l’eccessiva ritrosia degli operatori sanitari nel fornire informazioni ritenute essere importanti nel garantire la sicurezza di chi lavora a stretto contatto con i detenuti, quali quelle aventi a che fare con situazioni di tossicodipendenza o sieropositività che interesserebbero alcuni reclusi. 

D’altro canto, un’osservazione più ravvicinata e accurata delle dinamiche che prendono forma nel corso delle nostre visite agli istituti ci permette di notare come la differenziazione operativa non sia in alcun modo rappresentabile in chiave nettamente oppositiva, con la collocazione delle due aree su opposte polarità. I numerosi colloqui svolti nel corso degli anni con operatori di entrambe le aree ci hanno permesso di cogliere come, al di là di una dimensione gruppale e “di area” che ha certamente una forte pregnanza, le posizioni dei singoli operatori assumano delle forme più sfumate e incerte, più inclini alla reciproca contaminazione in merito alle prassi operative, al netto di situazioni di marcata (e rivendicata) contrapposizione. 

Del resto quello della collaborazione tra aree è un topos costantemente richiamato dagli operatori come elemento necessario ad un adeguato funzionamento della macchina istituzionale. Le visite svolte negli ultimi anni ci hanno certamente dimostrato la presenza di questo lavoro inter-area, rendendo tuttavia intravedibili anche i rischi e le scivolosità che i tentativi di collaborazione comportano nel momento in cui si espletano all’interno di una dimensione in cui vige un netto sbilanciamento di potere tra le parti. Detta altrimenti, la norma principe alla quale tutti devono far riferimento ha evidentemente a che fare con la necessità di tutelare l’ordine e la sicurezza all’interno dell’istituzione, elemento che talvolta pone degli ostacoli all’obiettivo medico-sanitario dell’equiparazione delle cure tra pazienti liberi e reclusi. Nel corso delle visite svolte in Veneto negli ultimi anni sono stati molti gli operatori della salute che hanno lamentato, seppur con parole diverse, il fatto che “a monte c’è questa idea del carcere come cosa alla quale ti devi adeguare”, rispetto al quale alcuni operatori non hanno mancato di esprimere insoddisfazione e sollevare critiche. L’autonomia del comparto sanitario, sancita formalmente dal processo di riforma, sembra in questo senso configurarsi come un punto di partenza che va poi costantemente rinegoziato nella quotidianità lavorativa all’interno del penitenziario, concretizzandosi di conseguenza in diverse sfumature che dipendono dalla consolidata strutturazione dei contesti locali. 

Il carcere sembra dunque configurarsi come una sorta di variabile indipendente in un rapporto fatto di continui tentativi in chiave trasformativa, costituendosi come entità granitica che, pur esposta a progetti di cambiamento, richiede un continuo sforzo in questa direzione da parte degli attori che lo vivono e lo attraversano. In questo senso, i comparti sanitari possono rappresentare una delle fondamentali cinghie di trasmissione con il territorio, assicurando la costante presenza di uno sguardo e una pratica che mantiene – seppur in forme diversificate a seconda dei contesti – la dialettica con l’esterno. Come ha tenuto a sottolinearci un medico con il quale abbiamo avuto un lungo colloquio nel corso di una visita svolta negli anni passati, “noi siamo un elemento di garanzia nei confronti dei detenuti”, ed è nella consapevolezza di questa posizione extra-professionale che si giocano le possibilità di una riforma che ha ancora qualche possibilità di spingere più in là lo spazio della trasformazione istituzionale.