«Il centro è cieco, la verità si vede dai margini» scriveva Marco Revelli su il manifesto il 1 luglio 2011, quando raccontava le ragioni della lotta contro l’alta velocità in Val di Susa contrastando le ‘narrazioni tossiche’ che si stavano abbattendo su quel movimento, ancora oggi interessato dalla attenzioni della Procura di Torino con nuove indagini e misure cautelari. Revelli descriveva ‘la ragione dei barbari’, che è comprensibile soltanto quando si è disposti a rinunciare alle certezze ideologiche legate a questo modo di produzione nocivo.
Raccogliendo questa prospettiva proviamo a tracciare alcune linee interpretative partendo da Santa Maria Capua Vetere, un’altra periferia dell’‘impero’, a distanza di due anni dai fatti violenti che hanno sconvolto il mondo del penitenziario, scavando in quel margine e cospargendo di sale quei lembi di carne affinché la ferita bruci e rimanga aperta.
L’udienza preliminare sembra non finire mai, è cominciata il 15 dicembre 2021 celebrandosi ogni martedì, ma l’ultimo rinvio è al 29 marzo di quest’anno ed è stato il più lungo avuto finora.
La macchina del processo e la fase preliminare
Per ragioni di opportunità e di organizzazione degli uffici giudiziari, il processo si sta svolgendo nell’aula bunker del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Lontano dal vecchio centro romano di Capua, il carcere è stato costruito nel 1996 fuori dalle città per esigenze di ordine pubblico come la maggior parte delle strutture detentive del XX secolo, isolate dallo ‘spazio del conflitto politico’. Il penitenziario si distende di fronte a una discarica, poco distante da un groviglio di stradine di campagna, superstrade e magazzini di merci dell’interporto logistico di Teverola, importante terreno del conflitto tra capitale e lavoro al Meridione. Accanto ai ‘corpi’ delle sezioni si appoggia il fabbricato autonomo che ospita l’aula del tribunale. Davanti all’ingresso c’è un campo coltivato di ‘friarielli’, quando il cielo è terso sulla destra si scorgono in lontananza le montagne dell’eremo di San Vitaliano e a sinistra la pianura casertana segna l’orizzonte. Il mare del litorale domizio non è lontano.
L’udienza preliminare sembra non finire mai, è cominciata il 15 dicembre 2021 celebrandosi ogni martedì, ma l’ultimo rinvio è al 29 marzo di quest’anno ed è stato il più lungo avuto finora. Il dott. D’Angelo, giudice dell’udienza, ha procrastinato di un circa un mese la convocazione per permettere alle parti civili di notificare correttamente agli imputati e ai responsabili civili il decreto di citazione.
Per gli addetti ai lavori era chiaro già prima della notifica degli avvisi di garanzia agli imputati – quelli del 28 giugno 2021 – che si sarebbe trattato di un confronto teso, ma a bassa intensità. Il processo ha anche la funzione collaterale di raffreddare gli animi delle persone coinvolte e della collettività, tentando di schermarsi da eventuali pressioni esterne. Obiettivi non semplici da raggiungere. Per tali motivi, il tempo del processo si distacca e vive in un’altra dimensione che trascina soltanto alcuni soggetti. È un risultato obbligato perché tendenzialmente la realizzazione secondo legge di tutte le ‘sequenze’ (legate dallo scopo di raggiungere il giudizio sulla responsabilità dei singoli oltre ogni ragionevole dubbio) avviene in un periodo dilatato rispetto alle reazioni dell’animo umano. Queste procedure formali che oggi costituiscono le regole del processo sono il prodotto dello scontro materiale di forze storiche e di ideologie e per ora sono considerate il massimo grado di approssimazione per verificare la responsabilità degli individui.
Tuttavia, in questa occasione la partita che si gioca è complessa, perché gli episodi del 6 aprile del 2020, la mattanza della Settimana Santa, di cui abbiamo visto in parte le immagini rimbalzare sui nostri schermi per alcuni giorni, rappresentano il fallimento di un modello gestionale del penitenziario. Come in una pellicola doppiamente esposta alla luce, questo processo imprime due realtà: da un lato c’è l’immagine principale, quella dell’accertamento delle condotte dei dirigenti regionali, identificazione degli esecutori materiali delle violenze, verifica del grado dei depistaggi e delle vessazioni fisiche perpetrate anche dopo la perquisizione straordinaria… e al di sotto di questa (inevitabile richiesta di giustizia) si trova l’altro ‘rullino’, quello della responsabilità politica di chi ha prodotto, conservato e sostenuto la crescita ipertrofica dell’attuale esecuzione penale, fino a produrne la rottura di ogni equilibrio. Un giudizio politico che cade in una congiuntura economica delicata, in cui il nostro Paese si trova sotto la lente di osservazione dell’Europa che vigila sui processi di riforma ‘strutturali’, condicio sine qua non per la continuità dei finanziamenti necessari alla ripresa economica.
Questi elementi, per quanto apparentemente estranei e distanti dall’aula bunker, premono ed in parte animano gli ingranaggi processuali. «Antropologicamente considerata, la giustizia penale è decomponibile in quattro elementi: potenza infestante che spoglia, lega, sfigura, uccide (nelle fonti romane ‘imperium merum’, il cui regime rispetto alla ‘iurisdictio’ costituisce un punto politicamente cruciale fin dalla letteratura colta cinquecentesca), rito, spettacolo, giudizio; nel simbolismo penalistico lo stigma imposto al paziente attua dei valori; e la regola da applicare apre un possibile spazio critico al discernimento», Cordero restituisce con un breve incipit nelle prime pagine del suo manuale, la complessità di questa macchina, gli aspetti contraddittori e gli interessi che la percorrono.
Il processo è fatto di storie singole, di aspettative e codardie professionali, ambizioni di carriera e desideri di visibilità, speranze risarcitorie e di assoluzione, sete di vendetta e/o di giustizia, grandi ideali e meschinità. Sono tutti aspetti tremendamente umani e quando si parla di un procedimento con 108 imputati (di diverso grado professionale e formazione, molti appartenenti al corpo di polizia penitenziaria, altri alla dirigenza dell’amministrazione), 179 persone offese, di cui tanti detenuti ancora ristretti, 81 delle quali costituite nel processo… stiamo parlando di una ‘manifestazione rituale’ estremamente complessa. Allora non stupisce se all’improvviso, dopo tutto il diluvio di immagini e racconti, i quotidiani nazionali annunciano la notizia di un viceispettore della polizia penitenziaria, non raggiunto dalle misure cautelari di giugno e dalle sospensioni amministrative promosse dalla ministra Cartabia, il quale avrebbe minacciato in carcere, anche con violenza fisica, un detenuto, persona offesa nel procedimento, per estorcere dichiarazioni favorevoli.
Questi interessi spesso disuniti, avvolti o soppressi da tensioni singole, a volte si compongono in un blocco unico e si rendono visibili in alcune scelte processuali, ma di norma ognuno insegue il proprio binario stemperando il sospetto reciproco con cordialità professionale e istituzionale. L’aula bunker è fredda e non è solo il cemento grigio o le gabbie vuote alle spalle dei banchi dei difensori a rendere l’atmosfera cupa.
Ad ogni modo, anche se ci troviamo alle battute iniziali, in questi mesi è emerso qualche elemento interpretativo che lascia intravedere i possibili scenari successivi. Infatti, alcuni difensori degli imputati, opponendosi alle richieste di costituzione di parte civile hanno sottolineato il ruolo contraddittorio (ma legittimo secondo gli schemi del processo) del Ministero di giustizia, persona offesa e responsabile civile, perché potrebbe trovarsi di fronte all’imbarazzo – in fase dibattimentale – di vedere coinvolti nella vicenda sammaritana altri quadri ministeriali. Si preannuncia fin da ora il consueto schieramento contrapposto: da una parte gli esecutori materiali degli ordini, dall’altro i colletti bianchi, che pur prefigurandosi il disastro, avrebbero dettato la linea.
Da una parte gli esecutori materiali degli ordini, dall’altro i colletti bianchi, che pur prefigurandosi il disastro, avrebbero dettato la linea.
Il dibattimento. Un campo aperto
Simona Filippi, responsabile del contenzioso di Antigone, trovandosi in prima linea su più fronti ha un prezioso sguardo d’insieme sulle violenze che hanno attraversato i penitenziari nel marzo 2020. È dell’idea che la forza narrativa degli eventi della ‘Mattanza’ sia straordinaria, ma, rispetto alle condotte denunciate, in altri istituti la reazione delle forze dell’ordine sarebbe stata ugualmente violenta, forse peggiore? Su quest’ultimo punto, il dibattimento che si celebrerà nell’aula bunker forse non offrirà degli elementi per interpretare vicende analoghe, ma sicuramente delineerà un modus operandi istituzionale dei corpi di polizia che sembrerebbe fisiologico quando bisogna domare il conflitto ovvero ristabilire i rapporti di dominio. Enrico Zucca, pubblico ministero che ha condotto l’accusa alle forze dell’ordine rispetto alle violenze commesse a durante il G8 del 2001, oggi alla procura generale di Genova, è estremamente chiaro quando traccia i contorni di questa Epifania del potere: «Il filo rosso delle varie condanne della Corte di Strasburgo negli ultimi 20 anni dimostra che quando la tortura emerge è solo apparentemente sporadica. Si ha infatti paura di riconoscere che la tortura è per sua natura “istituzionale”, perché ha necessità di tecniche, addestramento e pratica: non esiste, neppure nella fiction, il “torturatore solitario”. Già dai tempi del G8 il fenomeno doveva essere affrontato come tale. Non si tortura alla Diaz e a Bolzaneto se non si è già capaci e pronti a farlo. Con Genova 2001 appare chiara un’altra cosa: i diritti garantiti dalla democrazia e scritti nelle carte fondamentali non lo sono tuttavia per sempre e ad ogni costo, come il modello presuppone».
Dopo l’ammissione dei mezzi di prova ci sarà una distesa di fogli bianchi su cui scrivere la verità processuale, prenderanno campo moltissime insidie che potrebbero minare quanto emerso fino ad oggi e molto dipenderà dalla fragilità o forza delle persone offese chiamate a ripercorrere oralmente quei momenti.
Aprire, squarciare, le porte di questo processo, raccogliere le vite travolte da questa storia, restituire la complessità agli eventi narrati per capire quali sono le ragioni alla base della sospensione delle garanzie in uno stato di diritto occidentale.
Memoria e racconto
«La verità non è mai interamente sé stessa, è tuffata nella tenebra oceanica della vita», scrive Ceronetti quando raccoglie le notizie su Rosa Vercesi. Articoli di giornali, resoconti processuali, interviste, alcune descrizioni fotografiche, compongono il racconto complesso dell’omicidio di Vittoria compiuto dalla sua amica e amante Rosa. Anche se il Regime non amava dare spazio alla cronaca nera perché turbava l’immagine mediatica di una società sicura, quell’episodio scosse la Torino degli anni ’30 e irruppe nella vita quotidiana del Paese.
In questo lavoro acrobatico, districandosi nel coagulo informe di interessi, tra le storie singole e collettive, si sostanzia l’impegno che sentiamo di assumere in questa fase. Aprire, squarciare, le porte di questo processo, raccogliere le vite travolte da questa storia, restituire la complessità agli eventi narrati per capire quali sono le ragioni alla base della sospensione delle garanzie in uno stato di diritto occidentale. A riguardo, Ascanio Celestini ragionando sui fatti di Santa Maria Capua Vetere ricorda
Pasolini: «Il 7 luglio del ’60 le forze dell’ordine ammazzano 5 manifestanti. C’è una registrazione fatta quel giorno. Si sentono i lacrimogeni e i colpi di arma da fuoco. “Spero che nessun registratore serva mai più a stampare dischi come questo” scrive Pasolini alla fine di agosto di quell’anno e si stupisce della “freddezza organizzata e quasi meccanica con cui la polizia ha sparato”. Ha “la sensazione netta che a lottare non siano più dei dimostranti italiani e una polizia italiana”, ma “due schiere quasi estranee: la popolazione di una città che protesta contro delle truppe occupanti”. Cioè che le forze dell’ordine agiscano “quasi come l’esercito di una potenza straniera, installata nel cuore dell’Italia”. Il mondo dei ristretti sta a quello dei cittadini liberi come una terra africana al civile paese europeo che l’ha occupata militarmente».
Dando per scontato che la memoria collettiva è il prodotto di un conflitto, di un rapporto di forza (perché le forme sociali del presente selezionano i ricordi e li riscrivono), sono dell’idea che solo attraversando questo ‘margine periferico’ (scomposto e a volte contraddittorio) si possono restituire (non le verità, ma almeno) parte delle storie.
M. Revelli, La ragione dei barbari, in il manifesto 1 luglio 2011.
V. Verdolini, L’istituzione reietta. Spazi e dinamiche del carcere in Italia (Roma 2022).
F. Cordero, Procedura penale (Milano 2012).
R. Pietrobon, Intervista a Enrico Zucca, in il manifesto 18 luglio 2021.
G. Ceronetti, La vera storia di Rosa Vercesi e della sua amica Vittoria (Roma 2000).
A. Celestini, La retorica carceraria del governo e i «vitelli da abbattere», in il manifesto 13 gennaio 2022.