Primo rapporto sulle donne detenute in Italia

L’Osservatorio di Antigone nelle sezioni femminili d’Italia

L’Osservatorio di Antigone nelle sezioni femminili d’Italia

L’Osservatorio di Antigone nelle sezioni femminili d’Italia

1024 576 Primo rapporto sulle donne detenute in Italia

Alessio Scandurra

L’Osservatorio di Antigone nelle sezioni femminili d’Italia

La presenza media di donne, negli istituti in cui sono ospitate, durante le visite da noi svolte era di 48 donne detenute

In vista della preparazione del primo rapporto di Antigone sulle donne detenute, nel corso del 2022 il nostro Osservatorio sulle condizioni di detenzione degli adulti, che ogni anno il Ministero della giustizia autorizza a visitare le carceri del nostro paese, ha concentrato il suo sguardo sugli istituti che ospitano donne, visitando dunque tutte e quattro le carceri esclusivamente femminili che abbiamo in Italia (Pozzuoli, Roma Rebibbia, Trani e Venezia Giudecca) e oltre 40 sezioni femminili ospitate in istituti misti.
In questo contributo presentiamo i dati raccolti prevalentemente nel corso dello scorso anno, soprattutto nei reparti femminili, mettendoli tra l’altro a confronto con quanto rilevato all’interno del resto del sistema penitenziario e con quello che ci raccontano i dati ufficiali disponibili, per cercare di illuminare meglio questa piccola parte della comunità penitenziaria che tende generalmente a restare in ombra a causa proprio delle sue piccole dimensioni.

Le strutture detentive
Gli istituti che ospitano donne, esclusivamente femminili o misti che siano, sono stati costruiti in maggioranza (55,6%) dopo il 1980. Se si guarda al complesso dei 95 istituti visitati da Antigone nel 2022, compresi dunque anche quelli solo maschili, la percentuale scende al 39,4%. Se poi si guarda a quelli che ospitano solo uomini le percentuale scende ulteriormente, calando al 31%. Gli istituti che ospitano donne sono dunque mediamente più recenti, anche se non mancano gli istituti ospitati in edifici “storici”, come Trani o Venezia Giudecca.

Questo, come sempre, ha conseguenze positive e negative. Da un lato gli edifici dovrebbero presentarsi in condizioni migliori e disporre degli spazi indispensabili ad un’idea moderna di detenzione (aule didattiche, laboratori, spazi all’aperto, etc.), anche se non è sempre così. Dall’altro gli istituti più recenti sono realizzati generalmente fuori dal contesto urbano, sono meno raggiungibili dai parenti di chi vi è detenuto ma anche da tutta quella comunità di persone, dipendenti del carcere, medici, operatori del terzo settore, insegnanti, volontari, che danno maggiore o minore sostanza al mandato rieducativo della pena, che certamente i soli muri non possono realizzare.
La presenza media di donne, negli istituti in cui sono ospitate, durante le visite da noi svolte era di 48 donne detenute. Decisamente poche, e questa è probabilmente la cifra distintiva della detenzione femminile. Nelle carceri che ospitano soli uomini la presenza media registrata era di 313 presenti, dunque più di sei volte tanto, ed ovviamente questo non può non incidere sulle modalità di gestione della detenzione e di svolgimento della vita interna che proveremo a descrivere in seguito. A ciò si aggiunga che gli istituti che ospitano anche donne sono mediamente più grandi (422 presenti in media) rispetto a quelli che ospitano solo uomini.

Il bidet, previsto esplicitamente dal regolamento del 2000 i reparti femminili, è garantito solo nel 66% degli istituti dove sono ospitate donne

Le celle
Le “camere di pernottamento” che ospitano le donne generalmente, per forme e dimensioni, non differiscono molto da quelle che ospitano gli uomini. All’interno di ciascun istituto le celle tendono a seguire tutte lo stesso modello, chiunque ospitino, e spesso si assomigliano molto anche tra istituti diversi. D’altro canto l’idea stessa di istituti, o sezioni, femminili, non va sopravvalutata nel suo significato strutturale. Diversi istituti o sezioni che oggi ospitano donne prima ospitavano uomini, o viceversa. I cambi di destinazione non sono frequenti, ma non sono nemmeno rarissimi e generalmente non comportano particolari interventi di adeguamento. Nei reparti femminili le condizioni strutturali sono però spesso migliori, come se venissero ristrutturate più di frequente, e solitamente appaiono anche più pulite e più curate.
L’affollamento delle sezioni femminili, rilevato durante le nostre visite, è risultato essere sostanzialmente analogo a quello dei reparti maschili. 115% per le donne, 113,7% per gli uomini.
Secondo il Regolamento di esecuzione dell’Ordinamento penitenziario del 2000 i servizi igienici sono “forniti di acqua corrente, calda e fredda, sono dotati di lavabo, di doccia” e aggiunge, con riguardo alle donne “in particolare negli istituti o sezioni femminili, anche di bidet”. Sempre il regolamento di esecuzione prevedeva che gli interventi di adeguamento strutturale necessari per rispettare queste norme avvenissero “entro cinque anni dalla data di entrata in vigore del presente regolamento”. Dunque entro il 2005. Sono passati più di 15 anni, ma come stanno di fatto oggi le cose?
Cominciamo dalle docce, che sono ormai presenti in cella nel 60% degli istituti che ospitano anche donne, contro il 47,5% degli istituti che ospitano solo uomini. La norma appare dunque più rispettata nei reparti femminili. Forse perchè, come dicevamo, sono generalmente di costruzione più recente, ma non mancano eccezioni rilevanti. Non ci sono le docce in cella ad esempio nel carcere femminile di Trani, che è certamente un edificio storico, ma anche nel più grande carcere femminile d’Italia, la Casa Circondariale femminile “G. Stefanini” di Roma Rebibbia, inaugurato nel 1973, mancano le docce in molte celle. Nel reparto “Camerotti”, costituto da 3 piani, ogni piano con 12 celle da 4 posti letto, le docce sono in comune al piano, mentre nel reparto “Cellulare”, anch’esso su 3 piani, al primo piano, dove le celle sono singole, non c’è la doccia ma è presente solo il wc, che non è nemmeno in un vano separato dal resto della cella. Altri istituti di costruzione recente dove ci sono celle senza doccia nel reparto femminile sono ad esempio Reggio Emilia, aperto nel 1994, e Milano Bollate, aperto addirittura nel 2000.
Come dicevamo a Rebibbia ci sono celle in cui il wc non è in un ambiente separato, ma lo è sempre per fortuna nel 95,5% degli istituti o reparti femminili visitati, contro l’89,8% degli istituti esclusivamente maschili. Altra eccezione significativa è la sezione femminile di San Vittore. Nel reparto al piano terra il wc è alla turca e in due celle non c’è una porta a separare l’ambiente con i letti da quello del bagno.

E infine il bidet, per il quale il regolamento del 2000 cita esplicitamente i reparti femminili, che è garantito solo nel 66% degli istituti dove sono ospitate donne. Ma anche qui, tra gli istituti in cui manca, ci sono sezioni femminili importanti per dimensioni, come, ancora, Milano Bollate, istituto che ospita 140 detenute, o Milano San Vittore, che ne ospita 79.

Il personale
Come abbiamo detto gli istituti che ospitano anche donne sono mediamente più grandi e dunque, alla luce della nostra esperienza, ci si aspetterebbe che presentino maggiori carenze di organico, soprattutto di polizia, sia in rapporto alla popolazione detenuta che alle piante organiche. Così è infatti nella maggioranza degli istituti più grandi. Guardando alle carceri che ospitano donne questa tendenza non si osserva, ed è vero semmai il contrario.
È più facile incontrare un direttore incaricato in via esclusiva negli istituti che ospitano anche donne (70,5%) rispetto a quelli che ospitano solo uomini (45,8%). Altrettanto per i vicedirettori. Ce n’è uno o più nel 34,9% degli istituti dove sono ospitate donne contro il 21,5% di quelli che ospitano solo uomini. Questo può non sorprendere, trattandosi di istituti più grandi e dalla gestione più complessa. Ma negli istituti o sezioni femminili è maggiore anche la presenza del personale di polizia, che copre l’86% della pianta organica, con in media un agente ogni 1,6 detenuti, contro l’82,5% di copertura della pianta organica degli istituti che ospitano solo uomini, con in media un agente ogni 1,8 detenuti. Discorso analogo per gli i funzionari giuridico pedagogici, generalmente noti come educatori.

Negli istituti che ospitano donne è coperto il 77% della pianta organica, con in media un educatore ogni 87 detenuti. Non sono numeri confortanti, ma negli istituti che ospitano solo uomini la situazione è lievemente peggiore, con una copertura della pianta organica del 67% e una media di 89 detenuti ogni educatore.

Le donne con diagnosi psichiatriche gravi sono il 12,4% delle presenti, contro il 9,2% dei presenti negli istituti in cui ci sono solo uomini, e fanno regolarmente uso di psicofarmaci addirittura il 63,8% delle donne presenti, contro il “solo” 41,6% degli uomini

La salute
Non è semplice fare un quadro aggregato, una fotografia unica, per le decine di situazioni diverse che si osservano girando per le carceri italiane. Contano le dimensioni dell’istituto (un istituto piccolo ha generalmente meno servizi interni e si appoggia di più sull’esterno) la sua collocazione (una grande distanza dall’ospedale rende ad esempio più difficile fare affidamento sui servizi sanitari esterni) le caratteristiche della popolazione detenuta (più o meno giovane, nazionalità, etc.) le relazioni con l’asl e la regione stessa in cui l’istituto si trova. Questi ed altri fattori fanno sì che, nell’accesso alla salute, i detenuti incontrino in luoghi diversi ostacoli diversi.
Ma alcune differenze tra istituti maschili e femminili appaiono evidenti già quando si considera la possibilità di accesso ai servizi essenziali. È infatti presente un servizio medico 24 ore su 24 nel 75% degli istituti che ospitano donne, contro il 61% di quelli che ospitano solo uomini.
Quanto alla presenza di specialisti, come in ogni istituto il più presente è certamente lo psichiatra. Vengono erogate in media nelle carceri che ospitano donne 11 ore di assistenza psichiatrica ogni 100 presenze, contro le 7 degli istituti che ospitano solo uomini. Analogo il discorso per sostegno psicologico: 22 ore alla settimana ogni 100 detenuti negli istituti dove ci sono anche donne, rispetto alle 13 di quelli dove ci sono solo uomini.
D’altronde anche il disagio psichico appare maggiore tra la popolazione detenuta femminile. Le donne con diagnosi psichiatriche gravi sono il 12,4% delle presenti, contro il 9,2% dei presenti negli istituti in cui ci sono solo uomini, e fanno regolarmente uso di psicofarmaci addirittura il 63,8% delle donne presenti, contro il “solo” 41,6% degli uomini.

Sono inoltre in trattamento per tossicodipendenze il 14,9% delle donne detenute, contro il 18,7% degli uomini.
Quanto ai servizi di salute specificamente destinati alle donne, è presente un servizio di ginecologia nel 66,7% degli istituti che ospitano donne. Dove non c’è, compresi istituti importanti come San Vittore, con 79 donne presenti, o Palermo “Pagliarelli”, con 66 donne presenti, si chiama lo specialista quando necessario o ci si reca all’esterno.
È infine presente un servizio di ostetricia per le donne detenute nel 31,8% degli istituti dove sono ospitate.

I bambini in carcere
I bambini negli istituti che abbiamo visitato erano in totale 17, distribuiti in 5 istituti: 10 dell’Istituto a custodia attenuata per detenute madri (ICAM) di Lauro, 3 nell’ICAM di Torino, un struttura situata all’interno del carcere in uno spazio attiguo alla palazzina della direzione, 2 a Roma Rebibbia, nella sezione nido, 1 a Venezia Giudecca, nella sezione ICAM e 1 a Lecce, dove al momento della visita era presente una donna con una figlia di 2 anni, ospitate in una zona del carcere separata dalle altre donne detenute. A Lecce non è presente una vera e propria sezione nido, ma solo uno spazio dove sono allocati una culla, un fasciatoio e dei giochi per bambini. Non sono organizzate attività e programmi per madri con figli, dal momento che le madri detenute solitamente sono solo in transito per periodi brevi.
Quanto alla differenza tra gli ICAM, come quelli di Lauro o di Torino, e le sezioni nido, come quelle di Rebibbia o di Firenze Sollicciano (vuota al momento della nostra visita), questa non appare significativa. Si tratta comunque di spazi essenzialmente penitenziari arredati ed organizzati per rispondere al meglio ai bisogni delle madri e dei bambini, e l’assegnazione all’una o all’altra struttura dipende esclusivamente da esigenze di spazio e di vicinanza al territorio di provenienza, non certo perché alle custodie attenuate siano destinate mamme “diverse”, ad esempio per esigenze di sicurezza, di quelle ospitate ne nelle sezioni nido in carcere.
Non ci sono volontari che facciano uscire i bambini dal carcere, anzitutto per portarli al nido, nel 53,7% degli istituti, ma tra questi nessuno ospitava bambini al momento della nostra visita, con l’unica eccezione, come dicevamo sopra apparentemente accidentale e transitoria, di Lecce.
Non c’è disponibilità di un pediatra nel 48,8% degli istituti dove sono ospitate donne, ma anche in questo caso tra questi istituti nessuno al momento della nostra visita ospitava anche bambini.

Eventi critici
Nel corso dell’anno precedente alle nostre visite negli istituti che ospitavano donne si sono registrati in media 7,2 isolamenti disciplinari ogni 100 donne presenti, contro i 15 degli istituti che ospitano solo uomini, mentre gli atti di autolesionismo tra le donne sono stati 31 ogni 100 donne presenti, più del doppio dei 15 ogni 100 presenti registrati negli istituti che ospitano solo uomini.

Si tratta di un quadro certamente allarmante, indicativo di tensioni e difficoltà nella gestione dei reparti femminili che forse non daremmo per scontate. Da un lato il ricorso alla più grave tra sanzioni disciplinari, ovvero l’isolamento (esclusione dalle attività in comune), è per fortuna limitato, e questo è certamente un bene tenendo conto dei danni che l’isolamento può portare alla salute e all’equilibrio di qualunque persona. D’altro canto il dato sugli autolesionismi nei reparti femminili, quasi doppio a quello degli uomini, è indice di livelli di tensione e di malessere molto elevati e che evidentemente non riescono a trovare un ascolto adeguato da parte delle strutture.
I dati sul disagio psichico e sul consumo di psicofarmaci che riportavamo sopra lasciano intuire nella popolazione detenuta femminile livelli di fragilità e sofferenza, pregressa o legata all’adattamento alla vita in carcere, estremamente elevati, più alti che tra gli uomini, e di questo i frequenti atti di autolesionismo sono certamente un segnale.

Altrettanto sembrano dire i tentati suicidi, 3,7 ogni 100 detenuti negli istituti e nelle sezioni femminili, più del doppio degli 1,6 degli istituti che ospitano solo uomini. Infine, il livello di violenza nei reparti femminili, anche questo certamente indicativo di tensioni e disagi, non è da meno rispetto ai reparti maschili: 2,6 aggressioni al personale ogni 100 detenuti negli istituti che ospitano anche donne rispetto ai 2,7 degli istituti che ospitano solo uomini, e addirittura 7,7 aggressioni a danno di altri detenuti ogni 100 presenze negli istituti e reparti femminili contro le 5,5 degli istituti che ospitano solo uomini.
La vita nei reparti femminili non appare affatto meno problematica dunque di quella che si incontra in qualunque reparto detentivo maschile d’italia.

Le attività
I dati disponibili rispetto alle attività che si svolgono nei reparti detentivi femminili rappresentano uno dei pochi spiragli di luce di questa rilevazione. Come abbiamo detto si tratta di reparti che ospitano poche persone, in media meno di 50, e peraltro alle donne e agli uomini generalmente non è consentito partecipare insieme alle stesse attività trattamentali. Fatta eccezione infatti per la fruizione comune della messa o di spettacoli ed eventi, sono previste attività in comune tra detenute e detenuti solo nel 10% degli istituti che ospitano donne. A Bollate è prevista la partecipazione mista ad un’attività di istruzione dedicata alle donne, a Sollicciano a taluni corsi formativi (ad esempio l’HCCP), a Bergamo e a Forlì al corso di teatro, a Mantova al laboratorio di poesia e a Pesaro al progetto di green therapy che si svolge all’interno della serra. Per il resto uomini e donne svolgono sempre attività separate, ed essendo gli uomini molti e le donne poche, ci si aspetterebbe che per queste ultime siano organizzate meno attività, e dunque che più donne restino senza nulla da fare. Apparentemente questo non è vero.
I dati ufficiali dell’Amministrazione penitenziaria, aggiornati per le sole donne al 31 dicembre 2021, davano per occupate alle dipendenze dell’amministrazione il 41% delle detenute, ed alle dipendenze di altri datori di lavoro l’8,6% delle presenti, contro il 31,2% ed il 4,2% del totale dei presenti. Insomma, non si può certamente dire che le detenute in carcere abbiano meno opportunità di lavoro degli uomini.

Lavoro per le donne ce n’è forse un po’ più che per gli uomini, ma resta comunque insufficiente

Le donne che lavorano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria sono come sempre impegnate soprattutto nei servizi interni necessari alla gestione dell’istituto, servizi che richiedono una bassa qualificazione e garantiscono solo un impegno ed una retribuzione limitati. Non mancano però significative eccezioni anche in questo ambito, come la grande azienda agricola di Rebibbia o il laboratorio sartoriale per le camicie per la Polizia Penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere. Come sempre in carcere sono più qualificanti e meglio retribuiti i lavori alle dipendenze di ditte esterne, che coinvolgono però una minoranza delle detenute lavoratrici. Tra queste si può ad esempio segnalare la torrefazione nel carcere femminile di Pozzuoli, gestita dalla cooperativa La Lazzarelle che riesce anche ad impiegare detenute all’esterno, o la rigenerazione di apparecchiature elettroniche per la ditta Linkem a Rebibbia. Ma si tratta di eccezioni. Nella maggior parte degli istituti o sezioni femminili non c’è nemmeno una donna che lavori in carcere per società o cooperative esterne, e restano comunque istituti, come Sassari o Como, in cui nessuna detenuta lavora. Insomma, lavoro per le donne ce n’è forse un po’ più che per gli uomini, ma resta comunque insufficiente.
Qualcosa di simile emerge anche per le opportunità di formazione professionale. Decisamente insufficienti, secondo i dati del DAP coinvolgevano al 31 dicembre 2021 il 7,2% delle donne, me sempre meglio del misero 4,2% che alla stessa data si registrava per il totale dei presenti.

Dove poi ci sono, a volte i corsi di formazione professionale appaiono appiattiti su stereotipi di genere che vedono le donne come maggiormente interessate a professioni come la pasticceria, la sartoria o il giardinaggio, ma certamente quello che pesa di più è la loro totale assenza nella larga maggioranza delle sezioni femminili.

Uno sguardo infine ai corsi scolastici, ed anche qui i dati ufficiali vedono un maggior coinvolgimento delle donne, che arriva al 37,3% delle presenti contro il 32% degli uomini. Come meglio illustrato dai dati sotto, e nel contributo di questo rapporto interamente dedicato a lavoro, formazione ed istruzione, il coinvolgimento delle donne nelle attività scolastiche è maggiore nei gradi inferiori di istruzione, ma decresce mano a mano che si procede verso i gradi più alti.

Questo fenomeno può trovare diverse spiegazioni, ma è probabilmente qui che torna, con più forza che altrove, il tema delle dimensioni dei reparti femminili. Non c’è motivo di supporre che le donne siano meno interessate ai corsi di istruzione di secondo livello. La verità è che questi, negli istituti più piccoli, generalmente non esistono, spesso con la giustificazione che non ci sono abbastanza donne interessate alla loro attivazione. Come dicevamo in realtà molto piccole a volte non c’è quasi nulla da fare, come a Reggio Emilia, dove per le 12 donne detenute presenti il giorno della nostra visita non c’erano corsi scolastici o professionali, ma solo laboratori di teatro, yoga e ricamo. O a Modena, dove alle 21 donne presenti erano proposti solo sport come la pallavolo e zumba e al momento della visita i corsi scolastici si erano interrotti per mancanza di partecipazione.
Ma quando si prendono in considerazione istituti più grandi, come ad esempio Perugia, con 49 detenute presenti alla data della nostra visita, si scopre quanto dicevamo sopra. Nella sezione femminile è previsto solo un corso di alfabetizzazione che, al momento della visita, coinvolgeva 3 donne detenute. Non erano presenti corsi scolastici di secondo livello in quanto appunto pare non si raggiunga il numero di persone necessario alla loro attivazione. Viene però erogato un corso per acquisire competenze di base, sia scolastiche che professionali (“Corso garanzie delle competenze”) da una scuola di formazione della Regione Umbria insieme ai professori del CPIA, e le donne che vi partecipavano erano ben 13. La domanda di istruzione dunque c’è, ma non basta per generare una risposta adeguata. Questo, più forse di altri, è il contesto in cui le donne scontano il loro essere esigua minoranza nella comunità penitenziaria.
Poche infine le donne in semilibertà, il 2% contro il 2,7% dei presenti negli istituti che ospitano solo uomini. E poche anche le donne al lavoro all’esterno in articolo 21, il 4% delle presenti contro il 4,3% registrato negli istituti che ospitano solo uomini.