Ventesimo rapporto sulle condizioni di detenzione

Donne in carcere in Italia e Spagna

Donne in carcere in Italia e Spagna

Donne in carcere in Italia e Spagna

1024 538 Ventesimo rapporto sulle condizioni di detenzione

di Chiara Castaldo

Donne in carcere in Italia e Spagna

Il sociologo Goffman, nel suo libro Asylums. Le Istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza1), definisce le “istituzioni totali” come un luogo in cui un gruppo di individui si trova a condividere una situazione che li accomuna, tagliato fuori dalla società per un lasso di tempo considerevole, in un regime chiuso e formalmente amministrato. La caratteristica principale delle istituzioni totali è l’innalzamento di una grossa barriera con l’esterno che crea una frattura profonda tra l’interno dell’istituzione e la società. Il carcere, in quanto istituzione totale, vive (di) questa rottura. E se l’universo carcerario è già di per sé ignorato e tagliato fuori dalla società, il carcere femminile lo è ancora di più.

In Italia al 31 gennaio 2023, sono 2.392 le donne presenti negli istituti penitenziari, pari al 4,2% della popolazione detenuta totale.

La marginalità del dibattito sul tema viene spesso giustificata dai dati statistici che riportano un numero di donne in carcere, in attesa di giudizio o detenute definitive, di molto inferiore rispetto a quello degli uomini. In Italia, per esempio, al 31 gennaio 2023, sono 2.392 le donne presenti negli istituti penitenziari, pari al 4,2% della popolazione detenuta totale. Di queste, 599 sono ospitate all’interno delle quattro carceri esclusivamente femminili presenti sul territorio (Trani, Pozzuoli, Roma Rebibbia, Venezia Giudecca); il resto delle donne è detenuto in più di quaranta reparti all’interno di penitenziari maschili. Quindici di queste donne sono madri che vivono o in carcere o negli Istituti a Custodia Attenuata per detenute Madri (I.C.A.M.), assieme ai loro diciassette figli.

La maggior parte delle donne detenute appartiene ad una fascia anagrafica compresa tra i 25 e i 50 anni e porta con sé storie di violenza e di marginalità, di disagio socioeconomico e culturale: disoccupazione, bassi livelli di istruzione e prossimità con l’universo delle dipendenze. I reati a loro ascritti sono spesso il risultato di queste storie; reati per lo più di piccola criminalità, frutto di percorsi di esclusione sociale e di vissuti familiari problematici.

La fotografia dei dati italiani risulta più o meno la stessa di quella scattata negli altri stati europei, dove le donne costituiscono in media il 5-5,4% della popolazione carceraria. Solo in Spagna la media è più alta, attestandosi al 7,1%. Delle 66 carceri dipendenti dall’Administración General del Estado, solo 3 sono carceri esclusivamente femminili: Ávila (Brieva), Madrid I e Alcalá de Guadaíra a Sevilla; in Catalogna è presente solo il centro penitenziario femminile di Barcellona. Le donne che non sono detenute in queste strutture si trovano nelle restanti carceri che, come in Italia, ospitano per la maggior parte uomini e hanno delle sezioni dedicate alle donne. La maggior parte delle donne detenute in Spagna ha tra i 26 e i 60 anni (la fascia più rappresentata è quella compresa tra i 31 e i 40 anni)2), e i reati più frequenti sono quelli contro il patrimonio. Altro dato interessante quando si parla di detenzione femminile in Spagna è quello riguardante i bambini detenuti insieme alle loro madri: nel 2020, 69 bambini3), non oltre i tre anni di età, vivevano nelle carceri spagnole.

Tanto in Italia quanto in Spagna le donne vivono la detenzione in condizioni di maggiore precarietà rispetto agli uomini: peggiori condizioni di alloggio, difficoltà ad accedere ai programmi di trattamento o di lavoro, allontanamento dal proprio contesto familiare. Tale allontanamento dalla famiglia è dovuto anche alla penuria di strutture penitenziarie femminili sul territorio, sia italiano che spagnolo. Inevitabilmente, i colloqui con l’esterno si riducono poiché i costi dei viaggi e la distanza rendono difficile passare del tempo insieme a familiari o amici; tali difficoltà sono ovviamente maggiori per le donne straniere poiché spesso le loro famiglie risiedono nel paese d’origine.

Se guardiamo alla storia della detenzione femminile, è evidente come questa s’intrecci con le vicende relative al ruolo sociale assunto dalle donne e a come queste ultime hanno vissuto tale ruolo.

I primi istituti femminili, all’inizio dell’800, erano accomunati dall’idea secondo cui le donne ivi recluse dovessero essere “corrette” poiché non assimilabili al modello di donna della società dell’epoca.

I primi istituti femminili, all’inizio dell’8004), erano accomunati dall’idea secondo cui le donne ivi recluse dovessero essere “corrette” poiché non assimilabili al modello di donna della società dell’epoca. Infatti, esse venivano internate perlopiù per atti lesivi di valori morali e per comportamenti considerati “troppo liberi”. La gestione del controllo di tali istituti (sia italiani che spagnoli) – e dunque delle donne che vi facevano ingresso – era affidata a ordini religiosi. Così le donne detenute, come i minori e i pazzi, non erano punite, ma si ritrovavano sotto tutela, accudite e rieducate. Tuttavia, all’inizio del’ 900, nei riformatori femminili, non era previsto alcun tipo di istruzione o apprendimento di un lavoro; la “rieducazione” consisteva esclusivamente nei lavori domestici e di cucito, miranti al recupero dei valori della famiglia e all’adesione ad un ruolo sociale (per la donna) già predeterminato. L’organizzazione del carcere sul modello del convento era legata alla concezione del reato come peccato e, quindi, all’immagine del carcere come luogo di pentimento e di espiazione della colpa.

Tale impostazione è stata messa in discussione verso la fine del secolo scorso. In particolare, dalla metà degli anni ’70 si è acceso un dibattito – sia politico che sociologico – sulla specificità della detenzione femminile, che ha portato anche ad una serie di interventi legislativi a livello nazionale, europeo (vd. Risoluzione del 20085), https://eurlex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:C:2009:066E:0049:0056:IT:PDF))) e internazionale (vd. Regole di Bangkok6)).

Oggi le donne recluse all’interno delle carceri – italiane e spagnole – rimangono soggette ad una minore offerta di lavoro, di istruzione e di formazione rispetto agli uomini.

Nonostante gli interventi formali, oggi le donne recluse all’interno delle carceri – italiane e spagnole – rimangono soggette ad una minore offerta di lavoro, di istruzione e di formazione rispetto agli uomini. Subiscono una totale disattenzione per ciò che riguarda la loro vita “giornaliera”, quindi, in particolare: cura di sé e dell’ambiente, salute, affettività e sessualità. Come sostengono Ronconi e Zuffa7), prendersi cura di sé e dell’ambiente equivale, per le detenute, a sentirsi “fuori dal carcere”, ed è anche attraverso la cura della propria persona che si ritrova quell’ “amore per sé” inaugurato dal femminismo, quella rivendicazione del proprio corpo non più come “oggetto” (dello sguardo e del dominio maschile) ma come “soggetto” (il corpo pensante che si nutre di desiderio proprio, di una donna che vive per sé e attraverso sé). Molte detenute, infatti, ritengono che le costrizioni e i veti circa l’abbellimento del corpo incidano sulla rimozione della loro femminilità. Inoltre, in carcere la cura del corpo acquista una valenza ancora maggiore: non è esclusivamente il riflesso della nuova cultura del corpo, ma rappresenta anche un atto di resistenza alla spersonalizzazione e di continuità con il “sé del fuori”8).

Riguardo la sessualità, questa non può, in linea di principio, essere esplicitamente vietata dal legislatore perché un siffatto divieto risulterebbe in un’afflizione ulteriore, da aggiungere alla perdita della libertà. Poiché, anzi, il mantenimento dei rapporti affettivi con il/la proprio/a partner rappresenta una parte essenziale della funzione risocializzante della pena carceraria, prevista dalla Costituzione, sarebbe lecito pensare che l’esercizio alla sessualità in carcere sia implicitamente permesso o, meglio, assicurato9). Così non è, di fatto. La sua interdizione vale sia per gli uomini che per le donne, ma ha risvolti diversi: sembrerebbe che le donne non abbiano la stessa ansia o tensione degli uomini per la privazione del sesso, che siano per lo più orientate a manifestazioni di affetto e a vedere il sesso in funzione dell’amore (e non viceversa). Peraltro, si instaurano sovente rapporti lesbici nelle carceri/sezioni femminili, che sono più tollerati nonché meno appariscenti di quelli messi in atto dagli uomini, meno violenti e generalmente tesi a formare delle relazioni pseudo familiari10).

Nonostante nella pratica si instaurino relazioni intime tra detenute, mancano comunque misure e previsioni volte a garantire l’esercizio della sessualità alle donne (e agli uomini) e, soprattutto, tese ad assicurare incontri con partner di sesso opposto. L’interdizione alla sessualità, unita alla resistenza esercitata da parte dell’amministrazione alla creazione e alla gestione di attività e corsi scolastici misti (perché considerati di «difficile gestione»11)), concorrono a penalizzare ulteriormente le donne. E poiché la percentuale di donne detenute è molto bassa e ciò non incentiva l’organizzazione di attività ad hoc, le donne soffrono fortemente l’assenza di opportunità formative. Non c’è un rapporto diretto di causa-effetto tra separazione dei sessi (e dunque negazione della sessualità) e scarse opportunità formative, ma risulta senz’altro determinante (nonché ancor meno giustificabile) la sistematica negazione alla socialità per detenuti/e. In Italia, poi, la resistenza del legislatore e dell’amministrazione penitenziaria a garantire l’accesso a luoghi e momenti di condivisione tra uomini e donne, e la resistenza a garantire il diritto all’affettività con i propri cari, è enfatizzata dalla quasi totale assenza materiale e fisica di strutture e istituti giuridici preposti ai momenti di incontro12).

In Spagna, invece, il diritto alla sessualità è garantito, sulla carta, dall’art. 45 Real Decreto 190/1996 de 9 de febrero

In Spagna, invece, il diritto alla sessualità è garantito, sulla carta, dall’art. 45 Real Decreto 190/1996 de 9 de febrero: su richiesta del detenuto è concessa la visita o la comunicazione intima (meglio conosciuta come “vis a vis”) almeno una volta al mese, per un periodo non superiore a tre ore e non inferiore a un’ora, salvo ragioni di ordine o di sicurezza della struttura. Nonostante la norma non faccia esplicito riferimento a quali soggetti siano autorizzati al vis a vis, la Instrucción 4/2005 de la Dirección General de Instituciones Penitenciarias affermava che le comunicazioni intime potevano essere concesse solo previa dimostrazione di una relazione stabile di 6 mesi; oggi la Instrucción 5/2020 (che ha modificato la precedente del 2005) permette le comunicazioni intime ai detenuti con tutte le persone con cui gli stessi abbiano una relazione affettiva. Peraltro, nel caso in cui tale relazione non possa essere documentata, può essere utilizzato un documento legale per valutare e individuare la situazione specifica del/della detenuto/a. Anche se si dà un’interpretazione di situazione sentimentale in senso ampio, non limitata a quella “tradizionale” (eterosessuale o coniugale che sia)13), la regolamentazione sembra tradursi nella concessione di una libertà limitata e non nella garanzia di un vero e proprio diritto alla sessualità. Inoltre, la logica sottesa a tali Instrucciones, che impongono un requisito di relazione sentimentale per avere un vis a vis, pare quella di impedire l’accesso a persone che si prostituiscono, per esempio, e, più in generale, sembra mirata a instillare una certa moralità nel/nella detenuto/a.

D’altro canto, l’esempio della Spagna dimostra che, nonostante non si possa affermare che un pieno diritto alla sessualità venga garantito ai/alle detenuti/e, quantomeno è possibile e necessario adottare politiche che tengano conto dei bisogni umani, indipendentemente dallo status di carcerato o carcerata. In Italia, abbiamo assistito a un timido sviluppo in questo senso nel 2016: in occasione del Tavolo «Donne e carcere» degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale è stata affermata l’esigenza che le attività previste per gli uomini vengano condivise con le donne; ciò con l’obiettivo di andare incontro alle esigenze delle detenute, e – soprattutto – di “normalizzare” la vita carceraria che – si legge – «dovrebbe essere quanto più possibile simile alla vita fuori» così da tendere alla tanto citata risocializzazione del reo.

La creazione di questi reparti permette a uomini e donne di condividere la carcerazione e ridurre – relativamente – il distacco dalla vita esterna.

Anche su questo aspetto, la Spagna sembra essere – a un primo sguardo – un passo avanti rispetto all’Italia: nonostante l’art. 16 della Ley Organica General Penitenciaria (LOGP) affermi il principio di separazione tra uomini e donne, sono ammessi dei casi eccezionali in cui questa separazione può venire meno. Uno di questi casi è previsto dall’art. 168 Real Decreto 190/1996 de 9 de febrero al Titolo VII Capitolo III, il quale afferma che «con carattere eccezionale, il Centro di Gestione, in conformità con il disposto dell’art. 16 a) della LOGP potrà, per avviare programmi specifici di trattamento o per evitare la disgregazione familiare, istituire, per dei gruppi determinati della popolazione penitenziaria, Centri o Reparti Misti che potranno essere indistintamente destinati a uomini o donne». La creazione di questi reparti permette a uomini e donne di condividere la carcerazione e ridurre – relativamente – il distacco dalla vita esterna. Tuttavia, questa opportunità resta volontaria ed eccezionale e, soprattutto, circoscritta a nuclei familiari fragili, in cui i genitori risultano entrambi detenuti14). Quindi, tale dispositivo correttivo, utile a una fetta di popolazione carceraria, si dimentica di tutta un’altra fetta (uomini o donne) che non viene coinvolta semplicemente perché non genitore o perché accusata di reati contro la libertà sessuale. Occorre quindi notare che questi centri, pur andando idealmente contro il principio di separazione di genere, non sopperiscono alle mancanze strutturali del dispositivo carcerario e mantengono di fatto tale separazione.

La separazione tra persone di diverso sesso all’interno delle carceri è sicuramente figlia di un approccio infantilizzante alla popolazione detenuta

La separazione tra persone di diverso sesso all’interno delle carceri è sicuramente figlia di un approccio infantilizzante alla popolazione detenuta, ma è anche parente di una visione del carcere come struttura pensata per l’uomo, alle cui regole le donne devono adeguarsi. In definitiva, le donne rimangono maggiormente isolate, recluse perlopiù in sezioni femminili di carceri maschili, e subiscono – lo ribadiamo – gravi carenze di attività risocializzanti. L’impossibilità di partecipare alle stesse attività trattamentali previste per gli uomini le penalizza sensibilmente e il basso numero di detenute che si registra – tanto in Italia quanto in Spagna – non fa che concorrere ad un loro trattamento ulteriormente discriminatorio e alienante. Che fare, dunque? L’utilizzo di strutture esclusivamente femminili, che ospiterebbero comunque poche detenute e offrirebbero poche opportunità, non sembra una strada percorribile né auspicabile. La soluzione va cercata nel mezzo: abbattere la barriera del sesso e prevedere attività aperte sia alle donne che agli uomini, in compresenza, regolamentando quello che, nel mondo extra-carcerario, è d’altronde normalità.

References

References
1 GOFFMAN E., Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Torino,
Einaudi, 2003.
2 ASOCIACIÓN PRO DERECHOS HUMANOS DE ANDALUCÍA- APDHA, Informe sobre la situación de las mujeres presas. Tratamiento y derechos de las mujeres privadas de libertad en los centros penitenciarios de España y Andalucía, 2020, Informe-APDHA-situacion-mujer-presaweb.pdf, p. 11.
3 LOPEZ-FONSECA Ó., Los últimos 69 niños en las cárceles españolas, El país, 2020,
https://elpais.com/espana/2020-05-06/los-ultimos-69-ninos-en-las-carceles-espanolas.html.
4 FACCIOLI F., I soggetti deboli. I giovani e le donne nel sistema penale, Milano, Franco Angeli, 1990, pp. 10-11.
5 GAZZETTA UFFICIALE DELL’UNIONE EUROPEA, Risoluzione del Parlamento europeo del 13 marzo 2008 sulla particolare situazione delle donne detenute e l’impatto dell’incarcerazione dei genitori sulla vita sociale e familiare (2007/2116(INI
6 Consultabili sul sito http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/788134.pdf.
7 RONCONI S., ZUFFA G., La prigione delle donne. Idee e pratiche per i diritti, Roma, Ediesse, 2020.
8 Ivi, pp. 78-79.
9 Ivi, p. 85.
10 ISTITUTO SUPERIORE DI STUDI PENITENZIARI, Le dimensioni dell’affettività, p.4, consultabile al sito https://www.bibliotechedap.it/issp/xl/30.pdf.
11 RONCONI S., ZUFFA G., La prigione delle donne. Idee e pratiche per i diritti, Roma, Ediesse, 2020, p. 84.
12 POLIMENI V., Cose di un altro mondo. La separazione uomini e donne, in XIX Rapporto sulle condizioni di dentenzione, Antigone, https://www.rapportoantigone.it/diciannovesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/la-rigida-separazione-tra-donne-e-uomini-in-carcere-cose-di-un-altro-mondo/. La recente sentenza n.10/2024 della Corte costituzionale sembra aprire uno spiraglio sulla questione, dichiarando illegittimo l’art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354, nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa svolgere colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia. Toccherebbe, adesso, all’amministrazione penitenziaria rendere effettivo questo diritto.
13 Cfr. DOMINGO MONFORTE J., Derecho Penitenciario. Vis a vis. Comunicaciones íntima, LegalToday, 2020,https://www.legaltoday.com/practica-juridica/derecho-penal/penitenciario/derecho-penitenciario-vis-a-vis-comunicaciones-intimas-2020-11-06/.
14 In questi centri possono essere assegnati detenuti in segundo grado (media sicurezza) e tercer grado (semilibertà), escludendo i detenuti e le detenute in primer grado (alta sicurezza). Sembrerebbe, poi, che nella pratica la selezione delle coppie che possono entrare nei reparti misti venga stabilita precedentemente. Cfr. BELLOT REY M., El sistema penitenciario español. Especial referencia a la libertad condicional., 2014, https://repositorio.ual.es/bitstream/handle/10835/3530/262_TFG_Marcelino_Rey_Bellot.pdf?sequence=1&isAllowed=y, p. 9. Non ho avuto riscontri, durante la ricerca per la stesura del presente contributo, riguardo la possibilità di utilizzare questi reparti anche per fini terapeutici.