Nodo alla gola si titola il ventesimo Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione. Ci sarebbe piaciuto titolarlo diversamente usando altre parole come innovazione, modernità, riforme, solidarietà, empatia, speranza, fraternità, dignità, normalità, socialità, responsabilità, autonomia, rispetto, affettività, sessualità. Tutte parole che dovrebbero costituire l’essenza della pena e del modello penitenziario prescelto. Spesso parole ignorate, rimosse nella quotidianità detentiva.

Purtroppo, però, abbiamo scelto un’espressione tragica come titolo del nostro Rapporto. Un titolo che vogliamo sia un pugno nello stomaco per un’opinione pubblica troppo distratta rispetto alle condizioni di vita nelle carceri italiane e ai troppi morti che siamo costretti a contare.

Nelle carceri si respira un’aria di tensione preoccupante. I numeri del sovraffollamento ci riportano al 2013 e alla condanna da parte della Corte Europea dei diritti umani nel famoso caso Torreggiani. Mancano gli spazi. Sono tornati i letti a tre piani che sfiorano il soffitto. Le celle sono per troppo tempo della giornata chiuse. Vengono disincentivate le iniziative del mondo esterno e nel Lazio finanche i pranzi di Natale.

Di fronte a tutto questo il Governo ha presentato un nuovo disegno di legge, la cui discussione è già iniziata alla Camera, che introduce il delitto di rivolta penitenziaria (che punisce la resistenza passiva) e prevede nuovi reati contro gli occupanti di case e chi protesta con blocchi stradali. Se mai questa proposta di legge dovesse passare, da un lato avremo un carcere dove anche chi disobbedisce in forma nonviolenta a un ordine rischia anni di galera e dall’altro avremmo migliaia di nuovi ingressi dalla libertà.

Sanzionare con anni di carcere chi protesta senza far uso della violenza significa intaccare il sistema dei diritti umani e essere disposti a sanzionare anche chi si comporta pacificamente.

Il carcere deve essere un luogo dove ci si emancipa dal crimine e dove siano offerte concrete opportunità di recupero sociale. Il carcere non deve annichilire il senso critico o essere un luogo dove le persone private della libertà siano costrette a vivere nella paura e a camminare con la testa bassa.

In un periodo difficile e oscuro come quello che stiamo vivendo c’è stata una luce, data dalla sentenza della Corte Costituzionale n.10 del gennaio 2024 in materia di affettività. Viene riconosciuto il diritto alla sessualità delle detenute e dei detenuti. La Corte ha affermato in modo categorico che esso non può essere compresso e che spetta all’amministrazione penitenziaria organizzarsi per assicurare appieno l’esercizio. Al momento ancora, però, è un diritto riconosciuto solo sulla carta.

Durante la nostra osservazione, e ringraziamo l’amministrazione penitenziaria per l’apertura e la disponibilità nel concederci tale occasione di conoscenza, abbiamo incontrato funzionari di tutti i profili professionali che costituiscono l’avanguardia democratica del nostro Paese. A loro vogliamo dedicare questo Rapporto, al loro senso civico e costituzionale. Alla loro capacità di resistenza.

Lo scorso ottobre una cinquantina di nuovi direttori sono entrati finalmente in servizio assumendo incarichi di responsabilità delle carceri. Donne e uomini, più o meno giovani, che costituiranno lo scheletro del sistema penitenziario futuro. In questi giorni ricordiamo il primo anniversario della morte di un grande direttore, aperto, democratico, innovatore: Massimo Di Rienzo. Un esempio da seguire per tutti loro.