di Sofia Antonelli e Rachele Stroppa
Le condizioni di una comunità ristretta e spesso marginalizzata come quella LGBTQIA+ rischiano inevitabilmente di rimanere nell’ombra, invisibili allo sguardo del resto del sistema.
Poco si sa sulle persone LGBTQIA+ detenute nelle carceri italiane. Poche sono le informazioni a disposizione e le riflessioni pubblicate sul tema (tra queste Vianello et al., 2018; Valerio et al. 2018; Ciuffoletti, 2019; Gonnella, 2025). Come spesso accade, questioni che riguardano una percentuale minore della popolazione detenuta vengono sommerse dal resto del sistema e per questo faticano ad emergere. Accade così per le donne detenute, che pagano il prezzo di essere poche e per questo spesso svantaggiate (cfr. Antigone, 2023). Alla minore rilevanza numerica si aggiungono questioni culturali e il diffuso pregiudizio che la nostra società nutre per ciò che attiene questioni di genere, di identità e di orientamento sessuale. Pregiudizio ancora più forte in un contesto come quello carcerario, fatto di chiusure, separazioni e divieti. All’interno di un’istituzione da sempre declinata al maschile, che per sua natura ignora e neutralizza le differenze del singolo, le condizioni di una comunità ristretta e spesso marginalizzata come quella LGBTQIA+ rischiano inevitabilmente di rimanere nell’ombra, invisibili allo sguardo del resto del sistema.
Contribuisce a questa invisibilizzazione anche la difficoltà di accedere a dati e a testimonianze dirette, che consentano di formulare ragionamenti fondati su esperienze personali. In termini quantitativi non esistono dati pubblici né relativi ai numeri delle persone che in carcere dichiarano di appartenere alla comunità LGBTQIA+, né relativi ai luoghi dove queste persone sono detenute. Nella sezione specificamente dedicata alle statistiche del Ministero della Giustizia non si trova alcun riferimento al tema. Gli ultimi dati a nostra disposizione sono frutto di un’elaborazione del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà, risalente a ottobre 2023, e ad alcune visite condotte dall’Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone.
A livello qualitativo, la raccolta di informazioni non può ovviamente prescindere dal coinvolgimento diretto di persone appartenenti alla comunità LGBTQIA+ che stanno vivendo o hanno vissuto un percorso detentivo. Per poter accedere in carcere ed intervistare persone detenute è però tassativamente necessario ricevere un’apposita autorizzazione da parte dell’amministrazione penitenziaria, operazione complessa e dal risultato mai scontato.
Sono state realizzate in totale 45 interviste, di cui 35 a persone attualmente in stato di detenzione, 9 a professionisti coinvolti a vario titolo nel contesto penitenziario e 1 ad una persona con un percorso detentivo ormai alle spalle.
Viste le poche informazioni a disposizione, da tempo si rifletteva sulla necessità di realizzare un’attività di ricerca in seno all’associazione. L’occasione è arrivata ad aprile 2024 con la partecipazione di Antigone ad un progetto, finanziato dalla Commissione europea, sulla tutela dei diritti delle persone LGBTQIA+ detenute dal titolo LGBTIQ Detainees – Strengthening the Rights of LGBTIQ Detainees in the EU. Principale obiettivo del progetto era anzitutto l’elaborazione di uno studio in grado di descrivere l’attuale situazione e le principali criticità riscontrate in diversi paesi europei, tramite la realizzazione di un’analisi documentale e la raccolta di testimonianze dirette.
E’ così che Antigone ha intrapreso un esteso lavoro di ricerca, partendo dall’organizzazione di diversi momenti di confronto con persone esperte del tema, provenienti in larga parte dal mondo accademico, da professioni giuridiche e dal terzo settore. In parallelo, è stata condotta una lunga serie di interviste semi-strutturate a persone appartenenti alla comunità LGBTQIA+ con un’esperienza di detenzione. Tra settembre 2024 e febbraio 2025, sono state realizzate in totale 45 interviste, di cui 35 a persone attualmente in stato di detenzione, 9 a professionisti coinvolti a vario titolo nel contesto penitenziario e 1 ad una persona con un percorso detentivo ormai alle spalle.
Si tratta di un campione significativo, sia in termini numerici sia in relazione alle diversità dei soggetti coinvolti. Le interviste condotte in carcere, grazie all’autorizzazione dell’amministrazione penitenziaria, rappresentano indubbiamente il cuore di questo lavoro. Per avere un punto di vista più ampio e variegato, sono stati individuati tre diversi Istituti penitenziari: la Casa Circondariale di Roma Rebibbia Nuovo Complesso, la Casa Circondariale di Napoli Secondigliano e la Casa Circondariale di Napoli Poggioreale. La scelta non è stata casuale, in quanto ognuno dei tre istituti ha al suo interno sezioni appositamente adibite alla detenzione di persone LGBTQIA+.
Ad oggi, in Italia, le donne trans sono collocate in Istituti maschili e gli uomini trans in Istituti femminili. Mentre gli uomini trans sono collocati all’interno di sezioni femminili ordinarie insieme al resto della popolazione detenuta, le donne trans sono generalmente collocate in sezioni separate
L’ordinamento penitenziario stabilisce una netta separazione della popolazione detenuta in base al sesso biologico, affermando, all’articolo 14, che “le donne sono ospitate in istituti separati da quelli maschili o in apposite sezioni”. La definizione di “donne” e “uomini” per l’ordinamento segue esclusivamente il criterio biologico: se la persona ha i genitali femminili è donna, se ha quelli maschili è uomo. Questo criterio di assegnazione viene seguito anche per le persone trans, assegnate ad un carcere in corrispondenza al sesso biologico, sulla base di un criterio puramente formale che non tiene conto della loro identità e indipendentemente dalle loro preferenze di collocazione. Anche laddove la persona abbia ottenuto la rettificazione degli atti anagrafici, l’unico criterio di assegnazione dell’amministrazione penitenziaria resta quello legato all’apparato genitale. Per questo, ad oggi, in Italia, a meno che non sia stato effettuato un intervento di chirurgia di genere, le donne trans sono collocate in Istituti maschili e gli uomini trans in Istituti femminili.
Vi è però una differenza in termini di collocamento all’interno degli Istituti. Mentre gli uomini trans sono collocati all’interno di sezioni femminili ordinarie insieme al resto della popolazione detenuta, le donne trans sono generalmente collocate in sezioni separate dalla maggior parte dei detenuti uomini. Stessa cosa avviene per le persone omosessuali. Mentre le donne lesbiche sono collocate insieme alle altre donne, gli uomini che dichiarano la propria omosessualità vengono collocati in sezioni separate. Questa differenza di trattamento è dettata esclusivamente da esigenze di ordine e sicurezza. L’amministrazione penitenziaria non ritiene necessaria la creazione di spazi appositi all’interno delle strutture femminili, non rilevando rischi di sopraffazione, soprusi e in generale l’insorgenza di situazioni di particolare criticità. Al contrario, viene riscontrata la necessità di una rigida separazione all’interno delle strutture maschili, in ottica di protezione di soggetti potenzialmente vulnerabili.
Fino alla riforma dell’ordinamento penitenziario del 2018, le modalità di attuazione di tale separazione erano però di fatto lasciate alla discrezione del singolo Istituto. Non vi era nessun riferimento normativo a criteri di collocamento connessi all’identità di genere o all’orientamento sessuale. Alcune indicazioni emergevano da fonti amministrative che fornivano istruzioni di massima. In tal senso, una circolare del 2001 menzionava le persone trans tra gli esempi di persone vulnerabili che potevano essere collocate all’interno delle cosiddette “sezioni protette”, ossia dove sono generalmente detenute le persone per le quali si temono aggressioni o sopraffazioni da parte del resto della popolazione detenuta. Queste sezioni ospitano generalmente persone per le quali esistono esigenze di protezione in relazione ai reati commessi (es. sex offenders), a scelte collaborative con la giustizia o per altri fattori personali (es. appartenenti alle forze dell’ordine). Come previsto dalla circolare, la prassi più diffusa consisteva quindi nel collocamento in sezione protette anche di donne trans e uomini omosessuali, spesso insieme a persone autrici di reati sessuali e in generale di reati che generano “riprovazione sociale” (cd. “sezioni protette promiscue”).
Nel caso della persone LGBTQIA+, l’inserimento in sezioni promiscue prescinde però dal reato commesso, essendo disposto solo in relazione all’orientamento sessuale o all’identità di genere. Questa soluzione non solo crea una prassi discriminatoria, ma non risponde alle esigenze di protezione che in teoria motivano la separazione dal resto della popolazione detenuta. Nelle sezioni promiscue, la persona LGBTQIA+ è potenzialmente esposta al rischio di soprusi e sopraffazioni come se fosse detenuta all’interno di sezioni ordinarie.
Il D. Lgs. 2 ottobre 2018, n. 123, istituisce il modello delle cosiddette sezioni “protette omogenee”. Ad oggi, queste sezioni sono in tutto nove: sei sezioni cosiddette “protette trans” e tre sezioni cosiddette “protette omosex”.
Per rispondere ad esigenze di sicurezza e ridurre il rischio di discriminazione, pur in assenza di normativa nazionale, già nei primi anni 2000 alcuni Istituti penitenziari iniziano a dar vita, in via sperimentale, a sezioni dove ospitare persone esclusivamente in relazione alla loro identità di genere. Si ritiene in questo modo di creare ambienti più sicuri, con una popolazione detenuta più omogenea e quindi un rischio ridotto di discriminazioni.
Nascono così le prime sezioni ad hoc per donne trans. Nel 2005 nel carcere maschile di Belluno una sezione precedentemente destinata ai collaboratori di giustizia viene riadattata per ospitare donne trans. Nello stesso anno, viene istituita una sezione per donne trans nel reparto femminile del carcere di Firenze Sollicciano. Seppur in un ambiente distaccato dalle sezioni ordinarie, si tratta dell’unica esperienza italiana di collocamento di un gruppo di donne trans all’interno di una struttura femminile, in contrasto con il criterio di assegnazione biologico1.Sperimentazioni analoghe hanno successivamente preso piede in giro per l’Italia, come nel carcere maschile di Roma Rebibbia e di Napoli Poggioreale.
Con la riforma dell’ordinamento penitenziario del 2018, queste sperimentazioni diventano norma. Il D. Lgs. 2 ottobre 2018, n. 123, istituisce il modello delle cosiddette sezioni “protette omogenee”. Secondo l’articolo l’articolo 14 c.7 O.P. “l’assegnazione dei detenuti e degli internati, per i quali si possano temere aggressioni o sopraffazioni da parte della restante popolazione detenuta, in ragione solo dell’identità di genere o dell’orientamento sessuale, deve avvenire, per categorie omogenee”. La disposizione specifica inoltre che le sezioni devono essere “distribuite in modo uniforme sul territorio nazionale”, per garantire la vicinanza tra le persone detenute e il loro nucleo sociale, e che deve “essere garantita la partecipazione ad attività trattamentali, eventualmente anche insieme alla restante popolazione detenuta”.
La norma stabilisce che il collocamento in queste sezioni deve avvenire “previo consenso degli interessati i quali, in caso contrario, saranno assegnati a sezioni ordinarie”. La permanenza in queste sezioni deve pertanto avvenire per volontà della persona interessata. E’ lei, secondo la norma, che dovrà richiedere di essere collocata in una sezione protetta per non incorrere nel rischio di soprusi. Questa richiesta avviene tramite la sottoscrizione di un’apposita dichiarazione che, se la persona cambia idea, può essere sempre ritirata, comportando il collocamento in sezione ordinaria.
Vengono così istituite formalmente sezioni ad hoc per ospitare donne trans e sezioni ad hoc per ospitare uomini che dichiarano formalmente la loro omosessualità. Ad oggi, queste sezioni sono in tutto nove: sei sezioni cosiddette “protette trans” e tre sezioni cosiddette “protette omosex”.
Secondo gli ultimi dati disponibili, ad ottobre 2023 erano 66 gli uomini detenuti che avevano formalmente dichiarato la propria omosessualità. Di questi, la metà era detenuta in una delle tre sezioni “protette omosex” negli Istituti di Foggia, Poggioreale e Verbania. L’altra metà si trovava invece in sezioni “protette promiscue” sparse in diverse carceri del paese. Nonostante la riforma del 2018 rimane dunque diffusa la prassi che vede il collocamento di uomini omosessuali insieme ai sex offenders. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che, essendo solo tre le sezioni omogenee in tutta Italia, da una parte vi sia una disponibilità limitata di posti e dall’altra che l’assegnazione presso queste sezioni possa comportare il trasferimento della persona detenuta in carceri lontani dal territorio di riferimento.
Diversa la situazione per le donne trans, quasi tutte detenute in sezioni omogenee. Delle 70 detenute presenti ad ottobre 2023, 64 erano all’interno delle sei sezioni esclusivamente riservate a donne trans (a Rebibbia NC, Napoli Secondigliano, Como, Belluno, Reggio Emilia e Ivrea). Le restanti erano detenute in carceri diverse, dove non c’era una sezione ad hoc.
Non è disponibile nessun dato relativo a donne lesbiche e uomini trans. Non essendoci sezioni apposite negli Istituti femminili, né quindi dichiarazioni formali da sottoscrivere, non è prevista alcuna forma di registrazione di informazioni relative all’identità di genere e orientamento sessuale.
Non esiste inoltre nessun dato relativo alle persone non binarie, sommerse all’interno di un sistema radicalmente strutturato su un netto binarismo di genere.
Dalle interviste realizzate alle persone detenute appartenenti alla comunità LGBTQIA+ emerge una varietà di punti di vista, preferenze e percezioni
Per avvicinarci ad una comprensione più ampia del fenomeno, è necessario avanzare in una linea di indagine di carattere qualitativo, che vada oltre la descrizione formale e che si interessi al piano materiale della detenzione (Ferreccio e Vianello 2015).
Una prima osservazione che merita di essere condivisa riguarda il fatto che dalle interviste realizzate alle persone detenute appartenenti alla comunità LGBTQIA+ emerge una varietà di punti di vista, preferenze e percezioni che poco ha a che vedere con quella pretesa uniformità con cui il sistema – non solo penitenziario – guarda al collettivo LGBTQIA+. Quest’ultimo, infatti, è composto da una serie di soggettività differenti, con storie, pregressi, bagagli culturali e livelli di vulnerabilità diversi, che spesso vengono ignorati per il solo fatto che queste persone appartengono ad una minoranza, spesso percepita come omogenea. Non di rado, infatti, l’istituzione penitenziaria considera le individualità e le specificità dei soggetti detenuti solamente quando questi costituiscono – o potrebbero costituire – un problema per il mantenimento della sicurezza e dell’ordine interno. Infatti, come si è già evidenziato in precedenza, la principale preoccupazione istituzionale rispetto alle persone LGBTQIA+ si sostanzia nella necessità di assicurare loro (in chiave protettiva) una collocazione sicura all’interno del carcere.
Una donna trans detenuta nella sezione trans della CC di Secondigliano: “Protezione non vuol dire esclusione […] la protezione è importante, ma ci sono dei limiti […] Protezione qui è uguale a discriminazione”. La mancanza di attività va sicuramente ad amplificare tensioni già esistente all’interno della sezione
Emblematiche a questo proposito sono le parole di una donna trans detenuta nella sezione trans della CC di Secondigliano: “protezione non vuol dire esclusione […] la protezione è importante, ma ci sono dei limiti; la protezione eccessiva fa scattare la stigmatizzazione nei detenuti maschi […] Protezione qui è uguale a discriminazione”. Anche in termini architettonici si può notare come la sezione trans di Secondigliano sia completamente separata dagli altri reparti. Tale collocazione spaziale ha ovviamente delle conseguenze rispetto alla quotidianità detentiva delle donne trans; una quotidianità che risente fortemente della separazione e del distanziamento, finendo per privare le donne trans di qualsiasi tipo di contatto con il resto della popolazione detenuta.
Il contesto di isolamento in cui è inserita questa sezione determina una rilevante riduzione delle opportunità offerte, in primis per quanto riguarda le attività a disposizione; ad esempio, solo alcune donne frequentano il teatro e l’unico percorso scolastico disponibile è quello della scuola media. A tale proposito, una detenuta afferma “qua stiamo nel Medioevo; è impensabile che ci mandino a scuola con i maschi”. Un’altra aggiunge: “ho sentito agenti dire ma tanto in carcere si sta bene, si può anche fare l’università, ma io mi sono innervosita e ho pensato, ma quale università? Noi qui non facciamo nulla”. Le donne trans non hanno neppure accesso alla biblioteca, né ad una palestra vera e propria, avendo a disposizione solo una cyclette. Viene loro negata anche la possibilità di assistere alla messa domenicale per evitare l’incontro con detenuti uomini. Tutto ciò risulta in aperta contraddizione con quanto previsto dall’art. 14 O.P. c. 7 laddove si sottolinea la necessità di garantire la partecipazione ad attività, anche insieme alla restante popolazione detenuta.
La mancanza di attività va sicuramente ad amplificare tensioni già esistente all’interno della sezione, determinate sia da fattori di fragilità di cui alcune delle donne trans intervistate erano portatrici (in particolare problematiche connesse alla tossicodipendenza) sia dalla convivenza coatta di subculture differenti. “C’è molta gelosia, tanta aggressività” racconta una detenuta brasiliana; un’altra sottolinea come i conflitti in sezione siano dovuti alla presenza di etnie differenti; un’altra ancora invece afferma “essere trans non è prostituzione, ma questa è la mentalità trans”. In questo senso, la cultura di strada legata alla prostituzione e i valori a cui questa rimanda, ha un impatto rilevante anche nelle relazioni che si instaurano in carcere, a conferma del fatto che il carcere rappresenta un osservatorio privilegiato delle dinamiche sociali più generali (Vianello, 2021). “Qui siamo tutte esaurite” riferisce un’altra donna trans. La gestione di questa situazione di esasperazione sembra essere affidata, come spesso accade in carcere, alla somministrazione molto elevata di psicofarmaci. Anche le detenute che prima non ne facevano uso, per essere in grado di sopportare il clima all’interno della sezione, raccontano di aver cominciato ad assumerli.
La maggior parte delle detenute trans intervistate a Rebibbia NC è favorevole all’esistenza di una sezione protetta per le donne trans, ma apprezza la possibilità di svolgere attività in comune con i detenuti maschi
La percezione dell’esistenza di una solidarietà (cfr. Clemmer, 1958) frammentata è stata condivisa anche da alcune donne trans della sezione di Rebibbia NC. “L’unico problema è tra di noi […] c’è invidia non c’è rispetto”. Sebbene, quindi, siano emerse dalle interviste riflessioni simili rispetto ad alcune questioni, presso la sezione trans di Rebibbia NC, il modello adottato sembra essere diverso rispetto a quello implementato nella sezione del carcere napoletano. A Rebibbia NC la sezione donne trans si trova all’interno del reparto G8; l’interazione con gli uomini detenuti è quotidiana, così come è abituale la partecipazione ad attività in comune, come la scuola superiore e il teatro, ma anche a corsi di falegnameria, fotografia ecc. Nonostante la sezione sia più integrata rispetto a quella di Napoli Secondigliano, è emersa comunque più volte l’illogicità di alcune decisioni, frutto di quei processi di burocratizzazione che connotano il funzionamento dell’istituzione penitenziaria. Più detenute si sentono infatti discriminate per non avere la possibilità di accedere all’area verde assieme ai detenuti uomini per le ore d’aria, vedendosi loro assegnato un passeggio che una di loro ha descritto come “un buco nero fatto di cemento”.
La maggior parte delle detenute trans intervistate a Rebibbia NC è favorevole all’esistenza di una sezione protetta per le donne trans, ma apprezza la possibilità di svolgere attività in comune con i detenuti maschi. A tale proposito, un’ altra intervistata ci ha spiegato che “questo è un carcere maschile […] a loro piace usare la parola protette, ma non c’è bisogno di protezione, gli altri detenuti uomini non mi hanno mai mancato di rispetto”. Altre, invece, sembrano condividere la necessità di protezione e rivelano che avrebbero timore di stare in una sezione con gli uomini. Un’altra ancora afferma: “non mi sentirei a mio agio in un carcere femminile […] e poi non mi manca niente come donna qui”.
Dalle interviste è emerso quindi un quadro variegato e complesso rispetto a quale fosse lo spazio penitenziario più idoneo a soddisfare i bisogni e le aspettative delle donne trans, confermando ancora una volta l’importanza del principio di individualizzazione della pena il cui rispetto troppo spesso l’istituzione carceraria non è in grado di garantire.
Rispetto al rapporto con il personale penitenziario, praticamente la totalità delle 35 persone detenute intervistate – indipendentemente dall’istituto – ha spiegato, da un lato, come il personale dell’area trattamentale sia solitamente più incline rispetto al personale di vigilanza a riconoscere e a considerare l’orientamento sessuale e l’identità di genere del collettivo LGBTQIA+ e, dall’altro, come il misgendering però sia molto diffuso tra gli agenti di polizia penitenziaria. Con tale espressione si intende l’atto di rivolgersi o trattare una persona in modo non conforme con la sua identità di genere2. Alcune persone intervistate lo percepiscono come manifestazione di superficialità e ignoranza, altre, invece sottolineano come si tratti di una pratica con una specifica valenza simbolica. In questo senso, l’utilizzo di espressioni omofobe o transfobiche si verifica spesso nel momento in cui la situazione si fa più tesa o è sorto un conflitto. Unanime è risultata essere, invece, la consapevolezza che tutti i membri dell’amministrazione penitenziaria – da chi occupa un ruolo dirigenziale, a chi lavora in sezione – dovrebbe essere coinvolto in percorsi di formazione specifici sui diritti delle persone LGBTQIA+.
Il riferimento al sentimento di abbandono emerge ripetutamente dalle interviste con i detenuti della sezione omosex. In molti apprezzerebbero la possibilità di svolgere attività in comune con gli altri detenuti
Nell’ottica di accompagnare il personale penitenziario nel processo di conoscenza e formazione in materia di diritti delle persone LGBTQIA+, il ruolo della società civile è sicuramente riconosciuto come fondamentale da tutte le persone intervistate. Una buona pratica è quella rappresentata dal lavoro svolto da Arcigay presso gli istituti penitenziari di Secondigliano e Poggioreale a Napoli. Numerose sono le occasioni di formazione organizzate con gli operatori penitenziari negli ultimi anni, come estremamente utile è considerato il supporto offerto alle persone detenute della comunità LGBTQIA+. Un detenuto della sezione omosex di Poggioreale durante l’intervista raccontava come le uniche attività dedicate ai detenuti di quella sezione fossero state organizzate da Arcigay; in primis gli incontri di terapia di gruppo, ma a breve anche un laboratorio di scrittura. Per il resto, spiega, “qui non è che non si fa niente, è che non c’è niente”. Il riferimento al sentimento di abbandono emerge ripetutamente dalle interviste con i detenuti della sezione omosex. “Le guardie non ci sono mai, non ci ascolta nessuno […] qui per farsi ascoltare bisogna tagliarsi”. Un altro ragazzo lamenta che, in caso di necessità, per chiamare un agente, i detenuti della sezione omosex sono costretti a gridare, oppure a fare rumore con i piatti o sbattendo sulle sbarre. E, ancora, un altro detenuto afferma: “noi siamo gli esclusi, buttati come cani”.
Rispetto alla relazione con il personale penitenziario, i detenuti della sezione omosex, al pari delle donne trans, sembrano percepire il rapporto con lo staff come raramente conflittuale. Secondo quanto riferiscono, gli episodi di violenza sono estremamente rari, mentre non di rado accade che gli agenti si rivolgano loro in termini insultanti (ricchione, femminiella), a volte con lo scopo di alimentare le tensioni già esistenti in sezione.
In merito al rapporto tra detenuti, l’accettazione degli uomini gay da parte del resto della popolazione penitenziaria maschile sembra dipendere in garan parte dal grado di conoscenza tra i detenuti eterosessuali e la persona gay. A tale proposito un detenuto omosessuale intervistato racconta che “dopo che ti conoscono non ti discriminano. Sei libero di fare le tue scelte […] Se ti fai i fatti tuoi stai tranquillo”. Altri confermano di non avere avuto in passato problemi con i detenuti in sezione ordinaria perché “si conoscevano” o perché “eravamo compaesani”. Tuttavia, non manca chi racconta di aver subito discriminazione e attacchi omofobi trovandosi in sezione ordinaria. In particolare, un detenuto ha raccontato di essere stato visto camminare durante l’ora d’aria con una persona trans. Dopo quest’episodio, un detenuto l’ha invitato a prendere un caffè nella sua cella e, in perfetta adesione con il processo di prigionizzazione definito da Clemmer (1958), gli ha intimato di lasciare la sezione entro trenta minuti poiché, a causa del suo orientamento sessuale, la sua presenza non era più gradita. Tra i detenuti gay della sezione omosex di Poggioreale sembra essere comunque condivisa la necessità di protezione, sebbene in molti apprezzerebbero la possibilità di svolgere attività in comune con gli altri detenuti. A tale proposito, le parole di un detenuto della sezione omosex sono particolarmente significative: “se facessimo cose in comune magari saremmo, gradualmente accettati”.
Dalle interviste realizzate emerge in alcuni casi anche l’utilizzo “strumentale” della dichiarazione necessaria per il collocamento presso la sezione omosex. Alcuni l’hanno sottoscritta per poter essere trasferiti nella stessa sezione con la loro compagna (donna trans) o con il loro compagno (detenuto gay). Infatti, sembra essere piuttosto frequente la presenza di soggettività non binarie o transgender all’interno della sezione omosex. Un altro ristretto ci ha spiegato come a volte la dichiarazione di omosessualità venga utilizzata per ottenere il trasferimento in una sezione piu piccola e tranquilla, non sovraffollata.
In generale, tutti gli uomini trans intervistati hanno detto che preferirebbero essere trasferiti al maschile, a differenza delle donne trans che non hanno manifestato con altrettanta chiarezza la volontà di essere trasferite in un istituto femminile.
All’interno della comunità LGBTQIA+ detenuta, le soggettività che probabilmente risentono in maniera ancora più intensa del processo di invisibilizzazione sono gli uomini trans. Abbiamo avuto la possibilità di intervistare quattro uomini trans all’interno del reparto femminile di Secondigliano. Mentre, come abbiamo visto, di norma le donne trans sono detenute con altre donne trans, il disagio degli uomini trans è particolarmente significativo, essendo detenuti soltanto con persone con un’identità di genere diversa dalla loro. Gli uomini trans in carcere sono tendenzialmente costretti a vivere un’esperienza detentiva interamente declinata al femminile. La sofferenza di essere inseriti in un ambiente completamente femminile si fa più acuta per quegli uomini trans che dimostrano una apparenza marcatamente mascolina. In generale, tutti gli uomini trans intervistati hanno detto che preferirebbero essere trasferiti al maschile, a differenza delle donne trans che non hanno manifestato con altrettanta chiarezza la volontà di essere trasferite in un istituto femminile. L’essere obbligati a condividere anche il momento della doccia con le donne detenute è vissuto con particolare sofferenza. Nonostante gli uomini trans abbiano chiesto di poter fare la doccia per ultimi, questa possibilità è stata loro negata, così come lo è stata quella di essere collocati in una cella insieme. Ciò a conferma dell’assenza di flessibilità del sistema penitenziario, sebbene scelte in questo senso potrebbero determinare una riduzione della sofferenza degli uomini trans detenuti.
La difficoltà vissute dagli uomini trans è emersa anche dall’intervista svolta con una donna lesbica del reparto femminile di Napoli Secondigliano. Secondo quanto riferisce, alcune donne detenute faticano ad accettare la presenza di uomini in sezione, tanto che spesso si sente dire “vuoi fare l’uomo ma non lo sei”. Invece, nei suoi confronti non ha mai sofferto alcuna forma di discriminazione in carcere – dove “si parla più male di 2 gay che di 2 lesbiche” – mentre sarebbero state molto più frequenti quando si trovava in libertà. Racconta però come si senta diversa dalle altre donne nel momento dei colloqui. A differenza delle donne cis che non si pongono problemi a scambiare effusioni con compagni e mariti, lei racconta di non sentirsi a suo agio ad abbracciare o baciare la sua compagna. “Mi sento gli occhi addosso“.
Esempi particolarmente virtuosi sono quelli del sistema penitenziario svizzero e maltese. E’ ciascuna persona detenuta che decide la sezione in cui essere collocata; è il sistema che si adatta all’individuo in questo caso, non viceversa.
Essere uno dei partner del progetto europeo, ha permesso ad Antigone di conoscere meglio la situazione delle persone detenute LGBTQIA+ anche in altri paesi. Esempi particolarmente virtuosi sono quelli del sistema penitenziario svizzero e maltese. In entrambi i casi sono stati adottati protocolli specifici per garantire la tutela dei diritti della comunità LGBTQIA+ privata della libertà, dopo lunghe consultazioni con esperti e rappresentanti delle organizzazioni della società civile. Il principio dell’auto-identificazione si pone al centro di entrambi i modelli, scardinando il tradizionale binarismo che caratterizza il sistema penitenziario. E’ ciascuna persona detenuta, quindi, che decide la sezione in cui essere collocata; è il sistema che si adatta all’individuo in questo caso, non viceversa. Molti sforzi sono stati fatti anche in termini di formazione del personale, non solo quello di prima linea, ma anche chi occupa ruoli dirigenziali all’interno dell’amministrazione penitenziaria. Tuttavia non si può fare a meno di tener conto del fatto che sia in Svizzera che a Malta il numero degli istituti penitenziari è assai ridotto (nel caso di Malta vi è un unico carcere), così come ridotta è la popolazione detenuta. Il numero esiguo di situazioni relative al collocamento di persone LGBTQIA+ rende ovviamente più facile l’adozione di una approccio caso per caso.
Tra gli esempi meno virtuosi troviamo invece la Grecia e l’Ungheria, dove è frequente la collocazione in contesti segreganti soprattutto delle persone trans. Non a caso si tratta di due sistemi penitenziari particolarmente in sofferenza, in cui le condizioni di detenzione risentono di problematiche strutturali – oltre che, nel caso soprattutto dell’Ungheria, di una scarsa attenzione rispetto ai diritti delle persone detenute – che rendono più difficile la presa in carico dei bisogni individuali delle persone LGBTQIA+.
La tutela delle persone LGBTQIA+ potrebbe quindi fungere da catalizzatore per il potenziamento dei diritti di tutta la popolazione detenuta.
L’analisi tratteggiata fino a qui ha cercato di evidenziare come la collocazione delle persone LGBTQIA+ in sezioni protette all’interno degli istituti penitenziari, pur se motivata da intenti protettivi, possa portare ad una loro ulteriore emarginazione. Come dimostrano casi emblematici, quali le sezioni di Napoli Secondigliano e Poggioreale, questa pratica spesso si traduce in una drastica riduzione delle risorse a disposizione, limitando l’accesso alle attività e persino alle interazioni umane, sia con il resto della popolazione detenuta che con il personale penitenziario e sanitario. Questo approccio segregante, pertanto, compromette seriamente il benessere e l’accesso ad opportunità di reinserimento sociale delle persone detenute LGBTQIA+.
A fronte di queste criticità, emerge con forza l’urgenza di dare in primis attuazione a quanto già previsto dalla riforma del 2018. Ciò significa garantire in ogni luogo di detenzione un effettivo accesso ad attività e risorse, frequenti contatti con il resto della popolazione detenuta e il coinvolgimento diretto della persona nel processo di assegnazione a sezioni protette. Queste le azioni minime da intraprendere, in linea con la normativa vigente.
Dal lavoro di ricerca realizzato, appare quanto mai necessario il superamento della logica meramente burocratica, in favore di un’apertura che consenta di rispondere in modo più mirato alle esigenze e alle richieste specifiche delle persone detenute. La tutela delle persone LGBTQIA+ potrebbe quindi fungere da catalizzatore per il potenziamento dei diritti di tutta la popolazione detenuta. Come sottolinea efficacemente Ronco (2024), la battaglia per i diritti delle persone LGBTQIA+ in carcere, lungi dall’essere percepita come una questione rilevante solo per un numero ristretto di individui, dovrebbe essere interpretata come un’opportunità per elevare gli standard di tutela per tutte le soggettività ristrette. Questo approccio, oltre a disinnescare il rischio di strumentalizzazioni e percezioni di trattamenti preferenziali, consentirebbe di inquadrare la questione LGBTQIA+ all’interno di un più ampio ragionamento sulla tutela universale dei diritti in ambito carcerario.
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