Torino

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1024 538 Diciannovesimo rapporto sulle condizioni di detenzione

di Benedetta Perego

Torino: la tortura istituzionale

Come molti di coloro che leggono conosceranno e ricorderanno bene, l’assolato 14 luglio del 2017 ci ha permesso di salutare l’introduzione del reato di tortura nel nostro codice penale, una norma necessaria seppur perfettibile, che ha risposto agli impegni presi dal nostro paese “solo” 29 anni prima1). Una norma necessaria a consegnare la giusta qualificazione giuridica a fatti atroci cui pure non era possibile dare un nome2) e a chi, come Antigone, ha finito il fiato in gola per ottenerla.
Come un forte tuono che smuove la neve sulla china di una montagna, la legge 110 ha generato una slavina di indagini e processi: la montagna, nuda, ha mostrato tutti i suoi difetti, le sue strutturali distorsioni, e in vari tribunali d’Italia si svolgono processi sotto questa nuova lente per capirne le origini, le vittime, i responsabili.
Nella slavina che porta nomi di istituti di pena ormai agli onori della cronaca come Santa Maria Capua Vetere, Monza, San Giminiano, c’è anche il grande istituto metropolitano di Torino.
Dalle maglie di un istituto grande e complesso3) come il Lorusso e Cotugno è originata un’indagine, e poi un processo, di altrettante grandezza e complessità.

I fatti

La Procura della Repubblica di Torino, dopo oltre due anni e mezzo di indagini, nel luglio del 2021 ha chiesto il rinvio a giudizio per 25 persone, tra le quali, oltre a numerosi agenti di polizia penitenziaria, figurano l’allora direttore dell’istituto e l’allora comandante dell’istituto nonché due esponenti verticistici dell’OSAPP (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria).
I fatti enucleati nei 29 capi d’imputazione della richiesta della Pubblica Accusa sono riferibili ad un periodo che va dall’aprile 2017 al novembre 2019, e, come è stato più volte ribadito in aula, rappresentano solo alcuni tra quelli di cui è giunta notizia negli anni di indagine, selezionati per la presenza di adeguati riscontri e, con ogni probabilità, punta dell’iceberg di un intero sistema, di soprusi, violenze, torture, che, quantomeno in parte, resterà sommerso, consegnato alla memoria di un luogo separato dal mondo esterno dai tredici cancelli che occorre varcare per arrivare ai blocchi di detenzione, manifestazione fisica di un isolamento sociale e culturale di certo complice del formarsi di quel sistema stesso.

Il processo

Dodici di quei capi d’imputazione individuano la violazione dell’art. 613 bis del codice penale, reato di tortura, nella forma aggravata prevista per il pubblico ufficiale, e comportano una pena da cinque a dodici anni di reclusione. I restanti si dividono tra i reati di abuso di autorità contro arrestati o detenuti (ipotesi cui spesso si faceva ricorso prima della novità normativa del 2017), lesioni personali, violenza privata, rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio, favoreggiamento personale, omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale.

Un elenco dietro cui si cela una storia. Non siamo, infatti, di fronte ad episodi scollegati l’uno dall’altro o connessi a situazioni critiche contingenti (come si è osservato in altre vicende processuali), bensì ad un vero e proprio sistema che secondo quanto ricostruito avrebbe preso vita (quantomeno) in quegli anni in un luogo specifico dell’istituto, il padiglione C, ed in particolare nel settore dedicato ai cd. protetti per riprovazione sociale

Un elenco dietro cui si cela una storia. Non siamo, infatti, di fronte ad episodi scollegati l’uno dall’altro o connessi a situazioni critiche contingenti (come si è osservato in altre vicende processuali), bensì ad un vero e proprio sistema che secondo quanto ricostruito avrebbe preso vita (quantomeno) in quegli anni in un luogo specifico dell’istituto, il padiglione C, ed in particolare nel settore dedicato ai cd. protetti per riprovazione sociale. Autori, o persone ancora in misura cautelare accusate di esserlo4), cioè di abusi sessuali o di reati violenti contro minori. Una categoria di persone ristrette che è isolata dal resto della popolazione detenuta proprio per esigenze di protezione, suscitando secondo la legge non scritta del carcere una maggiore riprovazione e meritando, secondo quella stessa norma sociale, una punizione ulteriore.

Alle Vallette di Torino, però, quella legge non scritta pare sia stata rispettata, ed applicata, proprio dagli uomini dello Stato, una vera e propria “squadretta”, facente capo all’allora Ispettore del Reparto, attiva in virulente spedizioni punitive, violenti “battesimi” alla detenzione, insulti, perquisizioni arbitrarie e vessatorie, gravi minacce, comportamenti volti all’annullamento della dignità della persona in vincoli, soprusi ed abusi per garantirsi, dopo, l’impunità.

Una caratteristica di questa storia, e del procedimento che ne è scaturito, è che a raccontarla non sono stati i protagonisti: salvo rari casi, le persone private della loro libertà e sottoposte a tortura non hanno denunciato, o hanno desistito dopo incerti tentativi (anche di fronte a condotte sistematiche di chi avrebbe dovuto tutelarli, di cui si dirà più avanti), o hanno ritrattato le loro prime versioni dei fatti. La Procura della Repubblica è giunta alla loro notizia perché la Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Torino, il 3 dicembre del 2018 ha varcato spontaneamente la soglia dei suoi uffici cominciando a raccontare, a partire dalla vicenda di un detenuto violentemente pestato, costretto a restare per ore in piedi con la faccia rivolta contro il muro, obbligato a ripetere ossessivamente ad alta voce il proprio capo d’imputazione ed affermazioni auto insultanti, tenuto a sopportare perquisizioni in cui i propri effetti personali venivano distrutti, le mensole strappate dal muro, i vestiti e le lenzuola imbrattate con il detersivo per piatti.

Un modus operandi che è stato poi confermato da numerosissime voci che si sono aggiunte, sommate, sovrapposte fino ad identificare un vero e proprio “sistema punitivo del blocco C”. In questo processo non ci sono immagini, tutto avveniva negli angoli ciechi delle telecamere o davanti a lenti spente, le ricostruzioni arrivano però uniformi da compagni di detenzione, insegnanti, psicologi, funzionari socio-pedagogici, volontari. Intercettazioni. E perfino dall’audizione di alcuni agenti; coloro che hanno ammesso il verificarsi degli accadimenti, quasi sempre, hanno reso un primo interrogatorio negando anche solo di aver mai sentito qualcosa del genere, per poi cambiare versione (“in effetti, ora che ricordo bene…”).

All’udienza preliminare, svoltasi nei primi mesi del 2022, numerose persone offese si sono costituite parte civile; l’hanno fatto anche l’Associazione Antigone e tutti i Garanti delle persone private della libertà, nazionale, regionale e comunale.

Le scelte di rito degli imputati hanno determinato il crearsi di due filoni processuali distinti: 22 di loro hanno optato per il rito ordinario (cioè il processo completo, con audizione di testimoni e contraddittorio nella formazione della prova, innanzi al Tribunale di Torino in composizione collegiale), per le cui posizioni il Giudice dell’Udienza Preliminare ha accolto la richiesta di rinvio a giudizio del Pubblico Ministero ed il dibattimento avrà inizio il 4 luglio del 2023, mentre un agente, l’ex direttore e l’ex comandante hanno chiesto di essere giudicati con le forme del rito abbreviato.

Ciò significa che di fronte al Giudice per le Indagini Preliminari di Torino, nei confronti di queste tre persone, si sta svolgendo un giudizio esclusivamente basato sugli atti di indagine, raccolti dalla Pubblica Accusa come dalle difese, e che il 16 giugno di quest’anno avremo la prima pronuncia giudiziaria su questi fatti. E’ una partita importante quella che si sta giocando in queste settimane nelle aule del Palagiustizia torinese, dedicato alla memoria del magistrato antimafia Bruno Caccia, almeno per due motivi.

Questi primi anni di applicazione dell’art. 613 bis c.p., come sempre avviene con una norma nuova, sono e saranno infatti fondamentali per definire cosa sia tortura e cosa no

Anzitutto, perché l’agente protagonista di questo filone ha diverse imputazioni tra cui anche alcune per fatti di tortura, e sarà cruciale la posizione che questo primo giudice deciderà di assumere non solo sulla responsabilità circa gli stessi ma anche e soprattutto circa la loro qualificazione giuridica. Questi primi anni di applicazione dell’art. 613 bis c.p., come sempre avviene con una norma nuova, sono e saranno infatti fondamentali per definire cosa sia tortura e cosa no. Esigenze editoriali non consentono di analizzare uno per uno quei dodici capi delineati come tali dalla Pubblica Accusa, ma è nostra convinzione che gli episodi in analisi, supportati da numerose e varie fonti di prova, siano da qualificarsi come tortura. Essi soddisfano, ed anzi esuberano, tutti i requisiti fondamentali della nuova fattispecie (oltre alla pacifica privazione della libertà delle persone offese): non mancano minacce e violenze gravi ma anche atti crudeli5), condotte molteplici ma anche trattamenti inumani e degradanti6), acute sofferenze fisiche ma anche evidenti traumi psichici nelle vittime7).

In secondo luogo, in quanto l’eventuale condanna dei due ex apicali, imputati entrambi per favoreggiamento personale (il reato cioè di colui che dopo la commissione di un delitto aiuta il responsabile ad eludere le investigazioni) ed il direttore anche per non aver denunciato all’autorità giudiziaria reati di cui ebbe notizia nell’esercizio delle sue funzioni, avrebbe un significato determinante circa la distribuzione delle responsabilità nella gerarchia carceraria.

Ed è questa, in effetti, un’altra delle principali particolarità del processo torinese. I vertici del personale in divisa e del personale civile siedono sul banco degli imputati, in qualche modo rappresentativi di una categoria di cui dovremmo davvero poter fare a meno: quella dei cittadini al di sopra di ogni sospetto; basta per tutti quello magistralmente consegnato alla nostra storia cinematografica da un indimenticabile Gian Maria Volonté.

La responsabilità dei vertici del penitenziario

Tra le condotte che si imputano all’allora comandante vi è l’aver manipolato le indagini interne che originavano da alcune notizie di violenza (peraltro tendenzialmente mai promanate dalla popolazione detenuta), e di aver minacciato denunce per calunnia, il reato di chi incolpa taluno sapendolo innocente, per fermare i tentativi di far emergere la verità e chiedere aiuto. La prospettazione dell’accusa di un reato grave spaventerebbe chiunque, ma ancor più qualcuno che è già in carcere, che già ha davanti del tempo da scontare e che sente di appartenere inevitabilmente al lato sbagliato, in un’aula di giustizia. Una metodologia, peraltro, che pare non fu usata solo con le vittime dei soprusi ma anche con operatori dell’istituto che tentarono nel tempo di gettare luce sulla situazione, chi provò a resistere perse l’incarico lavorativo.

Per quanto riguarda il direttore dell’epoca dei fatti, la stessa persona che ricopriva quell’incarico ad Asti nel 20048), gli atti di indagine sono costellati di ricostruzioni simili le une alle altre, dalla vicedirettrice, ai Garanti comunale e poi nazionale, da funzionali giuridici pedagogici a, perfino, persone detenute (come quella che prese la parola in pubblico ad un convegno nel 2017, mostrando i segni sul proprio corpo di quanto subito al padiglione C): il direttore sarebbe stato costantemente informato, formalmente e non, sollecitato ad agire. Eppure, si limitò a non fare nulla. ed è proprio da questo comportamento omissivo che muove l’accusa.

In questi mesi, in aula, affrontando queste posizioni ho spesso pensato a Gramsci, che odiava gli indifferenti perché “L’indifferenza è il peso morto della storia. (…) è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde”9): l’indifferenza di chi era in alto, sapeva, e poteva agire è complicità e va giudicata in un’aula di giustizia.

Antigone, a Torino come altrove, continua a cercare tra i resti della valanga ed è oggi parte di questo: di fronte alla più ineluttabile delle debolezze, non poter tornare indietro nel tempo e riuscire ad impedire che le torture accadessero, crediamo nell’importanza di restituirne almeno la verità – e la corretta qualificazione giuridica – alle vittime ed alla società civile, unica via per impedire che accadano ancora.

References

References
1 Con la ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite contro la Tortura del 1984 – l. 498/1988.
2 La memoria di Antigone non può che correre al processo, cui prendemmo parte, per quanto furono costretti a subire Andrea Cirino e Claudio Renne nel carcere di Asti nel 2004, sotto Natale. Nel 2012 la prima sentenza, pronunciata dal Tribunale di Asti nella persona del Giudice dr. Riccardo Crucioli, che scrisse esplicitamente la parola “tortura”, senza che, nel nostro codice penale, ci fosse un omonimo reato da poter applicare. Il 26 ottobre 2017 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per quei fatti, individuando la violazione dell’art. 3 della Convenzione non solo da un punto di vista sostanziale (fu tortura) ma anche procedurale (il legislatore mancò di proteggere quei due uomini e potenzialmente chiunque con una norma idonea). Per un approfondimento: A. PUGIOTTO, Repressione penale della tortura e Costituzione. Anatomia di un reato che non c’è, in Diritto Penale Contemporaneo, n. 2, 2014; J.M. RAMPONE, Commento alla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo Cirino e Renne contro Italia del 26 ottobre 2017 – Ricorsi nn. 2539/13 e 4705/13, in Dirittifondamentali.it, n. 1, 2018.
3 Secondo la scheda relativa all’ultima visita di Antigone, del 28.11.22, il carcere del capoluogo piemontese conta 1118 unità regolamentari per 1393 persone ospitati effettivamente, con un tasso di sovraffollamento parti al 124,6%. L’istituto ospita tutti i circuiti detentivi salvo il 41 bis e 768 agenti di polizia penitenziaria. Il 46% delle persone ristrette è di nazionalità straniera.
4 Secondo la scheda di cui alla nota precedente il 41% delle persone detenute a Torino è in misura cautelare.
5 Potrebbero comunque essere alternativi tra loro. Quanto agli atti crudeli: “in tema di tortura, la crudeltà della ‘condotta si concretizza in presenza di un comportamento eccedente rispetto alla normalità causale, che determina nella vittima sofferenze aggiuntive ed esprime un atteggiamento interiore particolarmente riprovevole dell’autore del fatto” (Cass., Sez. V, sent. 9 novembre 2021, n. 8973).
6 Anche su questo la giurisprudenza, dopo un iniziale periodo di contrasti, ha in realtà chiarito la possibile alternatività e, dunque, la natura solo eventualmente abituale del reato: “il delitto di tortura è stato configurato dal legislatore come reato eventualmente abituale, potendo essere integrato da più condotte violente, gravemente minatorie o crudeli, reiterate nel tempo, oppure da un unico atto lesivo dell’incolumità o della libertà individuale e morale della vittima, che però comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona” (Cass, Sez. 5, sent. 8 luglio 2019, n. 47079).
7 Peraltro se ne sta formando un’interpretazione estensiva: “ai fini della ricorrenza delle “acute sofferenze fisiche”, quale evento del delitto di tortura previsto dall’art. 613-bis cod. pen., non è necessario che la vittima abbia subito lesioni” (Cass. Sez. 5, sent. 11 ottobre 2019, n. 50208) e circa “il “trauma psichico verificabile” “non esige necessariamente l’accertamento peritale, né l’inquadramento in categorie nosografiche predefinite, potendo assumere rilievo anche gli elementi sintomatici ricavabili dalle dichiarazioni della vittima, dal suo comportamento successivo alla condotta dell’agente e dalle concrete modalità di quest’ultima” (Cass, sent. n. 47079/2019, cit.).
8 Nella sentenza del giudice astigiano cui fa rimando la nota n. 2, si legge: “Gran parte del personale di servizio era a conoscenza di quanto avveniva nelle celle di isolamento: dal direttore (…) al comandante (…) ai medici (che non possono non aver visto le condizioni dei detenuti), passando per i dipendenti”.
9  A. GRAMSCI, Odio gli indifferenti, 1917. Chiarelettere, XII ed., 2022.