XVIII rapporto sulle condizioni di detenzione

Donne ristrette. Lo sguardo di chi abita la prigione

Donne ristrette. Lo sguardo di chi abita la prigione

Donne ristrette. Lo sguardo di chi abita la prigione

1024 538 XVIII rapporto sulle condizioni di detenzione

Francesca Bonassi e Francesca De Marinis

La detenzione femminile raccontata attraverso gli occhi di una “detenuta comune”

Sono Isabella, sono nata in Italia da genitori di etnia rom e non ho mai avuto un documento di riconoscimento. Sono omosessuale e per questo mi sono allontanata dalla mia famiglia di origine. Per anni ho vissuto commettendo piccoli furti. Ho 26 anni, di cui otto li ho passati in carcere.

Sono Anna e sono in carcere da otto mesi. Non è la mia prima esperienza detentiva, ma questa volta sono entrata nonostante fossi incinta. Una volta entrata in carcere ho iniziato ad avere complicanze con la gravidanza: ho avuto un distacco della placenta e ho perso mio figlio, poche ore dopo il raschiamento ero di nuovo sul letto della mia cella con tutto il mio dolore.

Sono Teresa, ho quasi 60 anni: per me è difficile condividere una cella con tante persone giovani con abitudini diverse dalle mie. Ho sempre lavorato a nero come cuoca. Il ‘sistema’ mi ha dato 50 euro al mese per conservare un pacco con qualche chilo di droga dentro casa mia.

Sono Giusy e mi sento male perché da quando sto qua non riesco più a guardare mio padre negli occhi. Ho sbagliato, facevo l’autista per un gruppo che faceva truffe agli anziani nel nord Italia e ora, quando lo vedo, penso che sarebbe potuto capitare a lui.

Mi chiamo Angela, sono sposata e ho due figli. In carcere, però, ho conosciuto Maria. Fare l’amore non era mai stato così bello, anche se dobbiamo accontentarci dei pochi minuti in cui le nostre concelline sono impegnate al lavoro o in altre attività.

Mi chiamo Mirjana. Sono in carcere da oltre vent’anni perché ho ammazzato il mio protettore. Sono entrata che ero appena una ragazza e, quando uscirò, conoscerò i miei nipoti. In questi anni non ho mai chiesto un permesso, per me è stato solo carcere.

Mi chiamo Latifah, sono nigeriana. Lunedì scorso mio figlio ha compiuto 18 anni. Avevo i requisiti per ottenere un permesso e festeggiare con lui, ma il magistrato di sorveglianza, per un errore di calcolo, me l’ha negato.

Sono Ines, da anni soffro di depressione e ho tentato il suicidio due volte. Dopo vent’anni dalla commissione del reato, il processo si è concluso e la condanna è divenuta esecutiva. Quando la polizia è venuta a prendermi mi trovavo in ospedale al termine dell’ennesimo ricovero. Il medico del carcere mi ha detto che la mia situazione migliorerà, ma come posso stare meglio qui dentro se per anni non sono riuscita a stare bene neanche là fuori, dove avevo vicino i miei cari e i miei figli?

Mi chiamo Bianca, mentre studiavo ho iniziato a lavorare per andarmene da casa, ma i soldi non bastavano mai. Mi hanno beccato a spacciare e mi hanno messo agli arresti domiciliari nella casa di mia madre e del suo compagno. Lui ha ricominciato ad abusare di me – era la ragione per cui ero andata via – e quindi ho provato ad ucciderlo. Non mi pento, dentro sto meglio che fuori.

Mi chiamo Samantha, ho 22 anni. Da quanto tempo sei detenuta? Non mi ricordo. Come non ricordi, da qualche giorno, qualche mese o anni? Non lo so. Samantha, assumi psicofarmaci qui in carcere? Si. Quali? La pillola bianca, la pillola gialla e la pillola arancione.

Sono quasi quattro anni che, ogni settimana, come attivisti di Antigone Campania ci rechiamo presso il “vecchio” carcere femminile, dove proviamo a mettere le nostre competenze legali, mediche e psicologiche a disposizione delle detenute. Durante questi incontri abbiamo sentito centinaia di storie: in alcuni casi siamo riusciti a dare un reale sostegno materiale, in qualche altro non siamo riusciti a far altro che accogliere quei vissuti, garantendo ascolto a persone a cui spesso viene negata la possibilità di parlare e far sentire le proprie ragioni.
Grazie al confronto di questi anni, tutti noi abbiamo imparato moltissimo sul carcere e sulle logiche che regolano la vita quotidiana all’interno di quegli spazi fatti di mura, sbarre, carne ed ossa.
Proprio per questo volevamo che quel luogo lo potesse raccontare una detenuta comune, con una lunga storia di detenzione alle spalle, che abbiamo conosciuto nei primissimi giorni di sportello in quello che potrebbe essere un qualsiasi carcere femminile del sud Italia.

I miei effetti personali li aveva il personale di polizia: per andare in bagno dovevo chiedere la carta igienica, per mangiare la forchetta ed il coltello.

Che impatto ha avuto sulla tua vita entrare in carcere?

Con l’ingresso in carcere per me è cambiato tutto. In realtà ho ricordi molto sfocati dei primi tempi. Ho tentato di rimuovere.
Prima di entrare in carcere non stavo bene; all’ingresso sono quindi stata collocata nell’articolazione psichiatrica: condividevo la cella con un’altra detenuta ed ero sorvegliata a vista tutto il tempo, anche quando andavo in bagno, quando facevo la doccia, quando mangiavo. Era una situazione del tutto surreale, un incubo. Non ero più padrona di me stessa: non potevo fare nulla senza essere controllata, dipendevo completamente dalle altre persone. I miei effetti personali li aveva il personale di polizia: per andare in bagno dovevo chiedere la carta igienica, per mangiare la forchetta ed il coltello.
Perfino la mia compagna di cella mi teneva d’occhio: mentre dormivo, a volte, veniva a controllare che non smettessi di respirare. Non ero più padrona nemmeno del mio respiro.
Poi forse la cosa più dura è stata lo strappo dalla famiglia. È traumatizzante quando ti rendi veramente conto che puoi sentire, vedere e toccare la tua famiglia in modo centellinato, che gli altri ti devono dare il permesso per toccare e abbracciare i tuoi cari. Durante i colloqui, eravamo seduti allo stesso tavolo, ma se io mi avvicinavo un po’ di più e tenevo un po’ di più le mie mani strette a quelle di mio padre, mi bussavano dal vetro e mi dicevano di separarle.
Le telefonate di 10 minuti: tu immaginati che mentre parli i 10 minuti scadono e cade la linea.
È uno strappo che continua, è costante. Da quando c’è stato il Covid io non ho più fatto venire i miei genitori a colloquio, per più di un anno li ho sentiti solo tramite videochiamata.
Anche l’affetto in carcere è una concessione, è un lusso. Penso che tutto passi, che tutto quello che ho vissuto di brutto passerà, però questa sensazione penso che forse non passerà mai, ogni volta che li abbraccerò penserò che non è sempre tutto scontato.

Com’è cambiata la tua vita in carcere con il trasferimento nelle celle comuni?

Ricordo ancora perfettamente la prima domanda che mi è stata fatta appena sono entrata nella cella: “tu sai scrivere?”. In un primo momento non capivo il senso di una domanda del genere. Ho sempre dato per scontato il fatto che tutte le persone della mia età sapessero leggere e scrivere, mentre in carcere ho capito che non è così.
All’inizio mi sentivo diversa dalle altre detenute e forse questo mi ha anche spaventato, avevo moltissima paura di rimanere sola, isolata, anche perché generalmente le persone che commettono reati come il mio non sono ben viste. Quindi ho fatto di tutto per integrarmi e ho messo al servizio di tutti le mie capacità: scrivevo alla direttrice quando volevamo incontrarla o chiederle qualcosa, scrivevo le ‘domandine’ per chiunque me lo chiedesse e questo mi ha permesso anche di vivere tranquilla.

Puoi provare a raccontare ad una persona che non sa nulla di carcere, quali dinamiche si creano nelle sezioni detentive?

La cella ha sicuramente delle dinamiche particolari, che si potrebbero definire familistiche.
La figura del ‘capo cella’ esiste, è reale, diciamo che è la persona che gestisce la stanza, è anche sociologicamente studiata. Generalmente è la persona che è da più tempo in quella cella, però poi dipende dal carisma delle singole detenute. In alcuni casi questa posizione di supremazia dipende anche dall’avere più soldi: chi ha più soldi ha più potere decisionale rispetto a chi ha meno soldi, ma il fatto di governare una stanza è determinato dalle caratteristiche della persona, sono dinamiche veramente molto sottili.
Alle volte capita che in una cella dove c’è già un certo equilibrio entri un’altra detenuta forte e a quel punto possono esserci degli scontri e sono proprio gli agenti che sono costretti ad intervenire e “sciogliere” la stanza. La direzione riconosce i soggetti più forti e, prima che si arrivi ad uno scontro fisico, mette le persone in celle diverse.
Allo stesso tempo ci sono altre persone più deboli, sia caratterialmente, sia economicamente, che quindi preferiscono avere una sigaretta da fumare dopo pranzo anche se questo può voler dire fare i piatti tutti i giorni o fare il letto anche per un’altra.
Il ‘capo cella’ lo riconosci subito perché non si occupa mai delle pulizie della stanza, al massimo cucina perché le piace cucinare. In ogni caso il ‘capo cella’ non ha mai dei turni fissi.

Come funziona la spesa?

Tendenzialmente si divide in parti uguali tra tutte, ma il piatto a tavola si assicura anche a chi non ha i soldi per fare la spesa.
Poi dipende molto da chi gestisce la stanza: in alcuni casi c’è la regola per cui se a tavola si mettono sette piatti, l’ottavo esce sempre. Le sigarette sono considerate un lusso, il cibo no.
Ci sono pure stanze in cui si fa il ‘tavolo dei ricchi’ che mangia alle 20.30 e per il quale si cucina, ed il ‘tavolo dei poveri’ che mangia verso le 17.30/18 quando passa il carrello.
In questo discorso si inserisce anche un’altra logica: le altre detenute devono sapere che nella mia cella il cibo non manca a nessuna, poi che tu in cambio devi occuparti della pulizia è una questione che riguarda solo la stanza, fuori non si deve sapere.
Ovviamente questo non vuol dire che non si possano creare legami veri. Io dopo 7 anni però ne ho costruito solo uno e, nonostante lei sia uscita e sia ora a Bologna, continuiamo a sentirci, perché quello che hai vissuto insieme là dentro non si scorda.
Poi, certo, ci sono anche i momenti di condivisione belli: quest’estate, per esempio, anche se io e molte altre non eravamo ‘permessanti’, ho scritto alla direttrice per chiederle di festeggiare il Ferragosto sul terrazzo del carcere. È stato bellissimo, siamo state sul terrazzo con la musica fino a mezzanotte. Anche quando c’è stata la finale dell’Italia l’abbiamo vista tutte nella stanza della socialità e abbiamo festeggiato insieme.

Per quella che è la mia esperienza, la commissione di un reato da parte di una donna è sempre legata alla famiglia e al bisogno di prendersi cura dei propri figli.
Forse anche per questo, per il fatto di non avere figli, spesso mi sono sentita esclusa.

Spesso si ha difficoltà ad immaginare la detenzione femminile, un po’ perché del carcere femminile si parla poco – anche per una questione legata al numero di detenute rispetto al totale della popolazione carceraria -, un po’ per il fatto che, all’interno di una società patriarcale, la violenza è una caratteristica principalmente associata al maschile, l’obbedienza e la sottomissione al femminile, ed è dunque più difficile immaginare che sia una donna a trasgredire la legge e a commettere un reato, soprattutto se di stampo violento. Per quella che è stata la tua esperienza, chi sono le donne che entrano in carcere?

Durante la mia detenzione ho conosciuto tantissime donne e tante di loro mi hanno raccontato di essersi sentite giudicate – in primis proprio dai giudici durante i processi –, oltre che per il reato commesso, anche per non avere denunciato il marito o il compagno che commetteva reati. “Come altro avrei dovuto agire con dei figli a carico?” è la classica risposta che ho ricevuto.
Io non ho figli, ma quello che accomuna quasi tutte le donne con cui sono entrata in contatto è il fatto di aver taciuto i reati commessi dai compagni e di aver commesso loro stesse dei crimini perché non sapevano come mantenere la famiglia altrimenti. Per quella che è la mia esperienza, la commissione di un reato da parte di una donna è sempre legata alla famiglia e al bisogno di prendersi cura dei propri figli.
Forse anche per questo, per il fatto di non avere figli, spesso mi sono sentita esclusa.
Più volte mi è stato detto che il mio dolore non poteva essere paragonato a quello delle altre detenute perché io non avevo un compagno o dei figli ad aspettarmi fuori. Sono sempre stata circondata da donne che avevano figli, alcune di loro avevano poco più di vent’anni ed avevano già quattro o cinque figli.
Non sono madre, è vero, ma comunque sono figlia e sento il dolore che prova mia madre.
Come si può ritenere che la mia sofferenza conti di meno perché non sono madre?

Vuoi raccontarmi un po’ di come il carcere incide sulla sfera della sessualità e dell’affettività?

In questi anni quando ho sentito il bisogno di contatto, mi sono fatta bastare un abbraccio, perché tutti hanno bisogno di sentire l’affetto, anche in carcere.
Allo stesso tempo, però, ho visto nascere anche molte coppie: non so dirti se erano persone che all’interno di quell’ambiente chiuso hanno scoperto un’altra forma di sessualità o se, invece, le privazioni legate alla vita detentiva fanno nascere l’amore anche nei casi in cui non te l’aspettavi.

Come si inseriscono nella quotidianità della vita in cella queste coppie che nascono tra le mura del carcere?

All’inizio può capitare che incontrino delle ritrosie, sia perché una coppia vuol dire un’alleanza, sia perché può dare fastidio il fatto che stanno nel letto insieme. Poi dipende dalle singole persone: se sono discrete ed educate spesso vengono anche prese in simpatia, è anche bello vedere due persone felici insieme.
Onestamente, credo che non ci sia mai un sentimento di omofobia, forse anche perché è una dinamica abbastanza conosciuta nel carcere femminile. Forse sono le detenute più grandi d’età che hanno più difficoltà ad accettare coppie omosessuali.
Interviene un’altra detenuta. Io non ho alcun problema con le coppie dello stesso sesso, però quello che non capisco è perché non è prevista la possibilità di un colloquio matrimoniale se ho un compagno o una compagna all’esterno. Io ho fatto il carcere anche in Francia e là, già anni fa, c’era la possibilità di effettuare un colloquio matrimoniale a settimana.
La questione non riguarda solo il sesso, ma tutta l’affettività: durante quell’ora di colloquio puoi scegliere anche solo di trascorrere il tempo abbracciati, ma in una situazione nella quale ti è concessa un minimo di privacy.
Lo stesso vale anche se non hai una relazione: tu puoi anche voler stare con tua madre, con tuo padre, con tua sorella in una stanza per farti una confidenza più intima, o anche solo per piangere.

Qual è il rapporto tra corpo e carcere e come incidono su di te le privazioni alle quali sei sottoposta?

Il carcere ha cambiato la mia forma di rapportarmi agli altri.
Quando ho iniziato il lavoro all’esterno, dopo molti anni durante i quali non ero mai uscita dal carcere, la paura più forte che avevo era di non riuscire a parlare con una persona che non conoscevo, la paura di non saper interagire con gli altri.
Ti farà ridere, ma io all’inizio mi sono messa a parlare con tutti quelli che incontravo in metropolitana. Quando sono uscita avevo paura di tutto, forse avevo proprio paura di uscire; avevo paura di fare le cose più semplici, di andare a prendere la metropolitana, di non sapere acquistare il biglietto, di non ricordare le strade… cose che magari prima facevo con naturalezza.
Non lo so, forse avevo paura di riprendere in mano la mia vita.
Non aver avuto potere sulla propria vita per tanto tempo e improvvisamente tornare ad averne: fino ad ora ci sono state persone che hanno deciso e agito per me, ora io devo occuparmi di nuovo di tutte le cose da sola.

Posso avere dei codini per i capelli, ma devono essere contati.

Possiamo dire che c’è una difficoltà legata all’infantilizzazione tipica del carcere?

Assolutamente sì.
Ci sono alcune regole che sono necessarie, anche per mantenere l’ordine. Penso pure a cose banali, ad esempio agli orari stabiliti per fare la lavatrice o per usare i phon che stanno sul piano, perché altrimenti le persone che vivono nelle celle lì accanto non hanno un attimo di quiete.
Però poi ci sono altre regole che secondo me non hanno senso, il cui unico scopo è spersonalizzarti ed infantilizzarti.
Posso farti gli esempi più vari: non poter avere le proprie cose a disposizione, non poter avere orecchini né bracciali. Fino a quando non è arrivata la nuova direttrice, non si potevano neanche portare le calze. Ora hanno ammesso le coperte di plaid, mentre prima dovevamo dormire con le coperte dei militari (ride), però potevamo avere le vestaglie o le tute di pile. Posso avere dei codini per i capelli, ma devono essere contati.
L’anno scorso hanno autorizzato i cappelli di lana: lo stesso cappello che l’anno scorso è entrato, quest’estate l’ho mandato a casa per farlo lavare e quest’inverno mi è stato detto che non poteva entrare perché aveva un pon-pon troppo grande. Sarà un desiderio stupido, ma io volevo un cappello con il pon-pon. In carcere ti vengono anche questi desideri.
Se io devo parlare con il direttore o con il comandante capisco che devo fare una richiesta scritta, per avere un ordine, ma non capisco perché io debba fare una richiesta scritta per avere alcuni degli oggetti che mi porta la mia famiglia, e che vengono controllati dalla polizia al momento della consegna del pacco, come ad esempio le calze.
Dopo tanti anni, non ho capito che ragione abbiano certe regole, mi sembra che il senso sia solo quello di infliggere un’ ulteriore punizione, come se la pena che stai scontando non fosse sufficiente: devi essere privata di tutto, di qualsiasi cosa che possa renderti felice.
Spiegami perché non si possono avere più di due o tre libri in stanza.
Un altro meccanismo impressionante in carcere è che la responsabilità sembra non essere mai personale: la colpa di uno è la colpa di tutti. Così non si responsabilizza. Loro dicono spesso che il carcere è un luogo di prova, dove devi fare un percorso, ma se le cose mi vengono tolte senza ragione o perché un’altra detenuta ha sbagliato, non mi viene data la possibilità di dimostrare il tipo di percorso che sto facendo.

Le perquisizioni come funzionano?

Noi che lavoriamo all’esterno siamo sottoposte a perquisizione sia in uscita che in entrata. Tutte le mattine gli agenti segnano cosa indossiamo, compreso il colore della biancheria intima. Quando torniamo controllano che abbiamo le stesse cose, dobbiamo spogliarci e fare le flessioni.
È una cosa a cui dovresti abituarti, ma in realtà non ti ci abitui mai.
Secondo me, se il lavoro all’esterno è considerato una messa alla prova, la perquisizione potrebbe anche non essere fatta tutte le sere, ma a campione quando meno te l’aspetti.
Poi ci sono giorni in cui capita che la perquisizione sia più invasiva, come se fossi una nuova giunta.
Si inserisce un’altra detenuta. Una delle ultime volte mi hanno fatta spogliare da testa e piedi, mi hanno lasciata nuda come un verme e, quando ho chiesto di ridarmi le mutande, mentre controllavano tutte le cuciture dei miei vestiti, mi hanno risposto “mica fa tanto freddo”. Era febbraio.

Per molte, secondo me, la vita dopo il carcere è comunque un altro calvario. Io sto cercando di cavarmela e un po’ ci sto riuscendo, anche perché dentro di me ho la convinzione che prima o poi sarà solo un brutto ricordo.

Spengo il registratore, la ringrazio del tempo e delle parole che mi ha dedicato, ma mi ferma e mi chiede di ricominciare a registrare.

Vorrei dirti un’ultima cosa, prima di salutarci: il carcere riesce ad offrirti poche cose, quasi niente e quindi bisogna mettersi nella condizione di prendere tutto, anche le cose che non ti piacciono.
Molte delle persone che stanno in carcere sono sfiduciate, vedono tutto nero, trascorrono la giornata sul letto e questo mi mette molta tristezza. La cosa che sento dire più spesso sai qual è? “Tanto io quando esco di qua che cosa posso fare?”. Quello che davvero servirebbe è un aiuto dopo, quando si esce dal carcere, quello è il momento più difficile.
Per molte, secondo me, la vita dopo il carcere è comunque un altro calvario. Io sto cercando di cavarmela e un po’ ci sto riuscendo, anche perché dentro di me ho la convinzione che prima o poi sarà solo un brutto ricordo. Per molte altre, invece, il carcere è una condizione che ti accompagna durante tutta la vita, non sarà mai una cosa passata, perché tornarci in futuro è una probabilità alta.