Primo rapporto sulle donne detenute in Italia

Perché le donne delinquono meno degli uomini?

Perché le donne delinquono meno degli uomini?

Perché le donne delinquono meno degli uomini?

1024 576 Primo rapporto sulle donne detenute in Italia

Giulia Fabini

Perché le donne delinquono meno degli uomini?

Perché le donne delinquono meno degli uomini? È una domanda affascinante per chi, come me, si interroga sulle dinamiche di genere che attraversano le società complesse e che diventano evidenti anche nelle forme che la giustizia penale assume di volta in volta.1)

Qui si parte da alcune osservazioni empiriche: se prendiamo il numero delle donne autrici di delitti denunciate dalle forze di polizia all’autorità giudiziaria relativo all’anno 2021, vedremo che queste sono 151.860 su 831.137, ovvero rappresentano il 18,3 per cento del totale. In maniera ancora più evidente, il numero di donne in carcere è pari a circa il 4 o 5 per cento del totale della popolazione detenuta. Così dagli anni Novanta ad oggi, con variazioni minime. Così in Italia, ma non solo. Come spieghiamo questi dati? Il numero delle denunce è generalmente considerato più pertinente di altri a restituire la misura della delittuosità, poiché registra il reato in prossimità alla sua possibile commissione (la colpevolezza la valuterà poi l’autorità giudiziaria). I numeri della carcerazione ci raccontano invece più di altri dei filtri del sistema della giustizia penale (ci arriveremo tra un momento). In ogni caso, entrambi i dati ci restituiscono una fotografia del sistema della giustizia penale in cui le donne sono una netta minoranza. Quindi, le donne delinquono meno degli uomini? E, se così fosse, perché? Forse, alla base sarebbe innanzitutto il caso di chiedersi se questi dati, di per sé interessante, vadano interpretati come evidenza di una minore tendenza a delinquere per le donne rispetto agli uomini. La risposta è no. O, almeno: non necessariamente. Per come la vedo io, questi dati potrebbero essere tanto il riflesso di una minore partecipazione delle donne ad attività etichettate come criminali, quanto di una minore tendenza a denunciare il reato commesso da donne rispetto a quello commesso da uomini (per un minore senso di minaccia? Per la minore gravità? Per la minore evidenza?), o anche il fatto che i comportamenti devianti delle donne non siano necessariamente categorizzati come violazioni del diritto penale – ossia, potranno essere sottoposte a controllo sociale e sanzionate, ma non necessariamente con l’ausilio della giustizia penale. La verità è che, in qualche modo, ho ingannato chi mi sta leggendo perché io, alla domanda “perché le donne delinquono meno degli uomini?”, non so rispondere. E, anzi, come credo emerga dai dubbi sopra esposti, penso che non sarebbe proprio possibile rispondere. Certo, sono convinta che questi dati empirici possano però fornirci una prospettiva interessante da cui osservare il funzionamento del sistema della giustizia penale: per chiederci cosa “maschile” e “femminile” abbiano a che fare con esso, quali siano le idee della criminalità – ma anche della devianza – “femminile” e come questa sia stata gestita nella storia (spoiler: con il sistema della giustizia penale, ma non solo).

I tassi di carcerazione nonché quelli delle denunce ci restituiscono una fotografia non tanto della criminalità, quanto del funzionamento della giustizia penale. Il problema, qui, è quello che in criminologia viene chiamato numero oscuro

Iniziamo facendo un passo indietro, ad allargare la nostra riflessione anche ad altre tipologie di persone denunciate e detenute: il ragionamento che pretende di collegare la presenza di una determinata categoria sociale in carcere o anche nelle statistiche sulle denunce e la tendenza di tale categoria al più frequente coinvolgimento in attività delittuose è fallace. Infatti, i tassi di carcerazione nonché quelli delle denunce ci restituiscono una fotografia non tanto della criminalità, quanto del funzionamento della giustizia penale. Il problema, qui, è quello che in criminologia viene chiamato numero oscuro.

Il numero oscuro è la misura della criminalità che, pur commessa, non viene registrata e rimane quindi nascosta, invisibile – che non significa che sia assente. Nel tempo, sono stati elaborati diversi metodi per indagare la misura del numero oscuro: indagini di vittimizzazione, in cui a un campione rappresentativo della popolazione si chiede se sia stato vittima di reati, o inchieste di auto-confessione, per cui a un gruppo campione si chiede se abbiano commesso reati in un certo lasso temporale. Senza soffermarci sui problemi legati a questo tipo di indagini (che si concentrano solo su certi tipo di reati, ovvero quelli di cui la vittima sia consapevole, che non si vergogni a confessare, o di cui si ricordi, per esempio…), ciò che queste indagini mettono in luce è che i tassi di denunce, condanne, ordini di carcerazione restituiscono non già la misura della criminalità reale, ma la misura della criminalità resa evidente in forza di un processo selettivo operato dal sistema della giustizia penale, nonché dalla cultura diffusa in una società. Tra la commissione di un certo atto e l’imprigionamento intervengono, infatti, numerosi filtri, a partire dalla definizione normativa stessa di un atto come criminale, passando per la denuncia e il fermo di polizia, senza dimenticare la presenza di un avvocato più o meno preparato o di un giudice con orientamento più o meno favorevole e, quindi, una sentenza di condanna o di assoluzione. Inoltre, in caso di condanna, i filtri intervengono anche a definire quale tipo di condanna verrà comminata, se la persona finirà in carcere, ecc. La marginalità e la scarsità di risorse economiche agiscono pure alla base di ognuno di questi filtri. Dunque, il numero di persone in carcere non ci restituisce solo (e forse nemmeno principalmente) la misura della criminalità, ma anche (e forse, più che altro) la misura della selezione del sistema. E i filtri che operano nel sistema della giustizia penale tra la commissione del reato e l’ingresso in carcere risultano (questo lo possiamo dire perché ce lo dicono i numeri di cui sopra) in una selezione più frequente di uomini rispetto a donne – oltre che di poveri rispetto a ricchi, di neri rispetto a bianchi, di stranieri rispetto a italiani.2)

“Perché ci sono così poche donne in carcere e, in generale, perché le donne vengono intercettate meno frequentemente dal sistema della giustizia penale?”

Questa, tutto sommato, è però ancora una risposta insufficiente. Ovvero, la selettività del sistema è sicuramente parte della risposta, ma non la esaurisce. Intanto però ci aiuta a tradurre la domanda “Perché le donne delinquono meno degli uomini” in un quesito diverso, più corretto: “Perché ci sono così poche donne in carcere e, in generale, perché le donne vengono intercettate meno frequentemente dal sistema della giustizia penale?”

Ora, questo interrogativo ha mandato in tilt più di uno studioso e più di una studiosa, sfidando la ricerca criminologica sin dagli albori della disciplina nell’Ottocento, spingendola all’elaborazione di modelli esplicativi altri e diversi che tenessero in conto anche la dinamica di genere. La sotto-rappresentazione delle donne in carcere si presenta come un quesito costantemente sollevato e costantemente irrisolto. E così sono anche molti gli studi più recenti, in particolare firmati da criminologhe femministe, che provano a vederci chiaro sulla questione, con risposte diverse, a seconda del periodo storico (e delle ondate del femminismo). Ma procediamo con ordine.

Forse, per rispondere alla domanda sul perché ci sono poche donne in carcere e nel sistema della giustizia penale, dobbiamo anche virare il discorso sulle spiegazioni che si sono date della criminalità femminile. Volendo parlare della delinquenza femminile, di solito il riferimento corre al testo del 1893 di Lombroso e Ferrero, “La donna delinquente, la donna normale, la prostituta”. Ma prima di Lombroso, come solidamente ricostruito da Silvano Montaldo nel libro “Donne delinquenti” (Carocci, 2019), due statistici morali, Quetelet e Guerry, nella Francia degli anni Venti e Trenta dell’Ottocento, ragionando sui risultati delle prime pubblicazioni uscite in Francia sull’attività dei tribunali, avevano fornito una spiegazione della criminalità femminile molto diversa. Il dato era che nella Francia degli anni Venti donne e uomini presenti in carcere fossero in un rapporto di una a quattro o cinque (molto più alto di adesso, a ben vedere). La criminalità femminile era non solo meno pericolosa ma anche meno diffusa di quella maschile. Questa, secondo Quetelet, dipendeva da tre fattori: la possibilità (la forza fisica), la volontà (rappresentata da una spinta interna), e la situazione (ovvero il contesto sociale in cui una persona viveva). Le donne commettevano meno reati degli uomini perché erano meno forti, avevano un’indole più timida e prudente che le frenava dal comportamento criminale (sic!), ma soprattutto erano relegate alla sfera privata, quasi del tutto assenti nella sfera pubblica, incorrendo dunque in meno occasioni criminali.

Il dibattito dalla Francia si diffonde in altri paesi. Si inizia a notare che il rapporto tende a variare in senso sfavorevole alla donna man mano che ci si sposti in paesi in cui questa abbia più libertà di accedere alla sfera lavorativa e di svolgere professioni anche tipicamente maschili, portando i criminologi a teorizzare che impedire l’ingresso delle donne al mondo del lavoro fosse utile per impedire che esse si mascolinizzassero e, quindi, limitare l’aumento di una loro partecipazione ad attività delittuose e una loro presenza in carcere.

Lombroso scrive in un contesto completamente diverso, quarant’anni dopo Quetelet e, soprattutto, dopo la diffusione della teoria dell’evoluzione di Darwin. Affronta il problema della criminalità femminile dal punto di vista teorico: le sue teorie dell’atavismo (secondo cui ogni uomo nella sua evoluzione ripercorre l’evoluzione della specie) e del delinquente nato (per cui l’uomo delinquente si sarebbe fermato a uno stadio precedente dell’evoluzione) e le teorie di Darwin sulla donna (che sarebbe naturalmente inferiore all’uomo perché meno evoluta) implicano per forza di cose che le donne siano più delinquenti degli uomini. Lombroso doveva chiarire perché, invece, queste non fossero presenti in carcere se non in percentuali esigue. Secondo Lombroso, la donna delinquente è a metà strada tra l’uomo delinquente e la donna normale: meno deforme e più crudele del primo, è audace, ha una scarsa indole materna, una grande forza fisica, una propensione ai vizi e ai piaceri. Le soluzioni per appagare l’istinto sessuale femminile deviato ed evitare l’insorgere della criminalità sono maternità e matrimonio. La prostituta è l’esempio più rappresentativo della donna delinquente, vittima di un istinto sessuale malato. Dunque, la spiegazione della minore presenza di donne in carcere nonostante la loro maggiore delinquenza risiede nel fatto che la devianza per eccellenza della donna, la prostituzione, non fosse considerata reato.

La prostituta inizia ad essere al centro di un dibattito che riflette il processo di criminalizzazione del mercato sessuale già iniziato in fase napoleonica – periodo in cui inizia ad esistere anche quel sistema di polizia centralizzato che, nel suo target, oltre a poveri, mendicanti e vagabondi, vede anche le prostitute.

Lombroso parla di prostituzione come criminalità; altri parlano di prostituzione come attività criminogena, possibile produttrice di criminalità: la donna corrotta non commette reato ma istiga altri a farlo. La prostituzione può essere criminogena ma non è criminale. Anzi, svolge un ruolo di stabilizzazione della società andando ad accontentare i “bisogni naturali” dell’uomo.

Le teorie di Lombroso vennero criticate in Italia, abbastanza, e molto di più in altri paesi, come Francia e Inghilterra, dove il movimento femminista era più solido e diffuso, mostrando quanta misoginia ci fosse in queste affermazioni.

Sta di fatto che in questo periodo la questione della criminalità femminile assume toni diversi. La criminalità femminile inizia a fare paura, forse più paura di quella maschile. La donna criminale è, infatti, doppiamente colpevole: devia non solo dalla legge, ma anche dalla norma sociale che la vuole buona, docile, servizievole. Madre, figlia, sorella, nonna, zia: la donna è colei che si prende cura, colei attorno cui si stringe e ruota il nucleo familiare; è il perno della società. E proprio questa sua centralità nel nucleo familiare, il suo ruolo di dover educare i futuri buoni cittadini e la dipendenza degli altri familiari dalla sua figura, rende la donna corrotta pericolosissima. L’uomo corrotto rimane il solo ad esserlo; la donna corrotta, invece, corrompe i figli, il marito, i parenti; e così facendo, aumenta le schiere di quelle classi pericolose che vengono teorizzate insieme alla nascita di un sistema di polizia moderno.

La prostituta e il controllo del mercato sessuale rimane al centro delle forme del controllo istituzionale verso la donna anche in periodi successivi. La questione della criminalità femminile diventa quindi una questione di moralità.

E la mancanza di moralità, sebbene soggetta a controllo e punita tanto quanto la criminalità per gli uomini, non necessariamente veniva punita con il carcere.

Se ci voltiamo a studi che in Italia hanno guardato alla presenza delle donne in carcere, un classico irrinunciabile è il testo “Donne in carcere”, curato da Campelli, Faccioli, Giordano e Pitch (Feltrinelli, 1992). Qui si parla di un sistema di detenzione femminile basato su un modello “familiare” di gestione della detenuta, dove il reato commesso da una donna era visto soprattutto come atto di amoralità e colei che lo commetteva poteva essere riabilitata attraverso la disciplina, il pentimento e la preghiera. Non a caso, il carcere femminile in Italia ha visto la presenza delle suore al posto e poi a fianco alle vigilanti fino agli anni Ottanta.

In questi studi classici della carcerazione e della criminalità femminile emerge un’idea di donna criminale come sviata, come una bambina che ha sbagliato e che deve essere redarguita, recuperata, rieducata. Come scrive Tamar Pitch (1987, pp. 24-5), vi sarebbe da sempre “la tendenza a patologizzare il comportamento deviante femminile, sia in relazione al reato per cui si è incarcerate (reati anche legati alla proprietà, ma spesse volte riconducibili a “follia” e prostituzione), sia in relazione alla vita che si conduce in carcere: il ricorso a medicine e psicofarmaci è alto, ma è in generale l’orientamento complessivo che è maggiormente caratterizzato da approcci terapeutizzanti”.

In generale, il potere che storicamente regolava la detenzione delle donne era un potere paternalistico e per questo le donne venivano sottoposte a un sistema detentivo che era correttivo, volto alla rieducazione. Come spiega Enzo Campelli (1992) ricostruendo il dibattito che si era prodotto negli anni Settanta intorno alla carcerazione femminile, il potere paternalistico di cui comunque era intriso il sistema detentivo poteva risultare ancora più punitivo per le donne, e in particolare per le minori. Si notava, poi, che sebbene le donne fossero incarcerate in numeri comparativamente inferiori rispetto alla controparte maschile, questo non significava che non fossero punite. Anzi, qualcuno ha sostenuto che lo fossero più severamente degli uomini: venivano punite, ma non necessariamente con il carcere. Le donne spesso denunciate dalle proprie famiglie per comportamenti devianti quali incoreggibilità, assenze continue a scuola, atteggiamenti promiscui, venivano condannate all’internamento, che per le ragazze rispetto ai ragazzi poteva più spesso avere una durata indeterminata, “coerentemente con l’atteggiamento protettivo e la natura delle infrazioni e l’idea che tutto sommato sia sempre possibile ‘riabilitare’ le donne” (Pitch, 1987, p. 24).

Nella spiegazione della minore presenza delle donne in carcere non bisogna tralasciare il ruolo da sempre assegnato al singolo maschio nella sfera privata piuttosto che allo Stato nella sfera pubblica di tenere sotto controllo, disciplinare ed eventualmente punire la donna deviante

Inoltre, nella spiegazione della minore presenza delle donne in carcere non bisogna tralasciare il ruolo da sempre assegnato al singolo maschio nella sfera privata piuttosto che allo Stato nella sfera pubblica di tenere sotto controllo, disciplinare ed eventualmente punire la donna deviante, che sia moglie, compagna, figlia, sorella. Nell’affascinante ricostruzione di Silvia Federici (2014) della nascita del capitalismo (e del carcere e della fabbrica) da una prospettiva di genere, il capitale – mentre cercava tramite il carcere e prima ancora con le case di lavoro di trasformare il contadino “liberato” dalle campagne in operaio disciplinato in città– aveva allo stesso tempo bisogno che una donna si prendesse cura nella sfera privata del lavoro riproduttivo, non pagato, che permettesse all’uomo di essere produttivo e al contempo accudito, nutrito, sostenuto; che permettesse quindi al capitale di proliferare. Secondo Federici, la caccia alle streghe che si diffonde in Europa tra sedicesimo e diciassettesimo secolo aveva avuto proprio la funzione di disciplinare la donna al suo ruolo di genere nello spazio privato senza ricorrere al carcere. Melossi (2022), proprio riprendendo questo scritto di Federici, riflette recentemente sull’assenza delle donne dal carcere, così come di altri soggetti come minori e schiavi, non perché questi non siano sottoposti a un controllo, in particolare di tipo paternalistico, ma perché tale controllo avviene in altri luoghi: nella piantagione per gli schiavi, nel riformatorio per i minori, a casa per le donne.

Negli anni Settanta, le criminologhe femministe avevano pensato che la maggiore partecipazione delle donne nella sfera pubblica dovuta all’accesso al mercato del lavoro avrebbe portato anche a un incremento dei numeri di donne in carcere. Cosa che non si è certo verificata secondo le aspettative. Ciò che però già alle femministe degli anni Settanta è stato chiaro è che le carceri, così come la criminalità, “sono domini maschili, ma mai esaminati come tali” (Pitch, 1992). Del resto, concordo pienamente con Tamar Pitch sul fatto che la “criminalità” sembri avere una componente di “maschilità” che andrebbe problematizzata come tale e spiegata forse più della criminalità femminile; anche solo il fatto che la selettività del sistema penale e penitenziario tenda a dirigersi quasi esclusivamente verso soggetti di genere maschile sarebbe meritevole di spiegazione.

Il lavoro di Carole Smart (1976) sul contratto sessuale, continuato poi da altre teoriche femministe dell’epoca (si veda Fitz-Gibbon e Walklate, 2018), fu seminale in questo senso. Oltre a sottolineare quanto la criminalità fosse un’attività dominata dal maschile e quanto fosse necessario avere dati su criminalità e punitività disaggregati in base al genere, esse evidenziarono che il rapporto tra donna e criminalità andasse inteso non solo come donne autrici di atti criminali ma anche come donne vittime.

Differenti prospettive femministe hanno offerto spiegazioni diverse del rapporto tra la criminalità e il sistema della giustizia penale. Il femminismo liberale ricercava l’uguaglianza, così ha avuto un grosso impatto negli studi del sistema della giustizia penale centrati su equità e discriminazione tra donne e uomini, anche se è stato tacciato di dualismo normativo. Al centro del femminismo radicale c’era la questione della violenza sessuale e della cultura dello stupro, espressione del dominio maschile e che deve essere combattuto. Il femminismo socialista, invece, si concentrava sull’intreccio tra l’oppressione capitalista e quella esercitata dall’uomo sulla donna. Il femminismo postmoderno, infine, si concentrava sulla moltiplicazione delle identità e la decostruzione degli stereotipi di genere.

La terza ondata del femminismo, evoluzione del femminismo postmoderno, nasce dalle riflessioni del femminismo nero degli anni Ottanta, che rifiuta il concetto universale di donna portato avanti sino ad allora, in particolare dal femminismo liberale, radicale e socialista, come se le esperienze e i processi di criminalizzazione, vittimizzazione e anche incarcerazione delle donne bianche fossero uguali a quelle delle donne nere. Con il femminismo della terza ondata si introduce in concetto di intersezionalità (Crenshaw 1991), ovvero l’idea che la posizione sociale di qualcuno all’interno di una data organizzazione dipende dall’intersezione tra alcuni assi sociali quali classe, genere e razza, che definiscono la partecipazione a sistemi culturali egemonici o la subordinazione ad essi. E qui torniamo al nostro tema della presenza residuale di donne in carcere e nel sistema della giustizia penale. Il femminismo della differenza aveva provato a delineare le differenze tra le esperienze di donne e uomini con il sistema della giustizia penale. Tuttavia, alcuni studi avevano rilevato che le donne sono trattate con maggiore clemenza dalla corte, mentre altri che sono trattate in maniera più severa. Spiegano Fitz-Gibbon e Walklate (2018) che “queste conclusioni contradditorie sottolineano la maniera complessa in cui fattori come l’età, la classe, la razza, lo stato sociale e possibili precedenti interagiscono tra loro” (p. 39). Infatti l’evidenza è proprio questa: donne diverse fanno esperienze diversificate del sistema della giustizia penale e quindi lo studio del sistema del diritto penale deve allargare il proprio interesse anche all’indagine delle condizioni della donna fuori dal sistema della giustizia penale. In questo senso, le donne che finiscono in carcere si troverebbero preponderatamente in posizione svantaggiata all’intersezione tra classe, genere e razza (Carlen 1988).

L’indagine delle donne oggi presenti in carcere e nel sistema della giustizia penale più in generale richiede un’attenzione forte ai loro vissuti di marginalità, alla cittadinanza, ai percorsi di violenza, al tipo di reati di cui sono autrici

Come insegna il femminismo della terza ondata, anche io sono convinta del fatto che l’indagine delle donne oggi presenti in carcere e nel sistema della giustizia penale più in generale richieda un’attenzione forte ai loro vissuti di marginalità, alla cittadinanza, ai percorsi di violenza, al tipo di reati di cui sono autrici. Per spiegare la presenza di donne in carcere e nelle statistiche della giustizia penale non possiamo riferirci a un concetto universale di donna, che non esiste, ma bisogna invece andare ad indagare le esperienze diversificatissime delle donne, in base appunto a tutti gli elementi di cui si diceva prima. Resta il fatto che il discorso intorno alla criminalizzazione femminile non può rimanere marginale se si vogliono comprendere a fondo le dinamiche di controllo e normalizzazione intrinseche alla violenza carceraria e alla penalità che hanno a che fare, per l’appunto, anche con il genere e la sua riproduzione.

Bibliografia
Anastasia S. (2022), Le pene e il carcere. Mondadori Education.
Campelli E., Faccioli F., Giordano V., Pitch T. (1992), Donne in carcere. Ricerca sulla detenzione femminile in Italia. Feltrinelli.
Campelli E. (1992), Un’immagine in pezzi. Note sulla metodologia della ricerca, in Campelli E., Faccioli F., Giordano V., Pitch T., Donne in carcere. Ricerca sulla detenzione femminile in Italia, Feltrinelli, pp. 22-27.
Carlen P. (1988) Women, crime and poverty. Open University Press.
Crenshaw, K. (1991). Mapping the Margins: Intersectionality, Identity Politics, and Violence against Women of Color. Stanford Law Review, 43(6), 1241–1299.
Fitz-Gibbon K. E Walklate S. (2018) Gender, crime and criminal justice (3° ed.). Routledge.
Melossi, D. (2022). Servitude for a time: From the permanent slavery of the unfree to the slavery pro tempore of the free. Punishment & Society, 0(0). https://doi.org/10.1177/14624745221140132.
Montaldo, S. (2019) Donne delinquenti. Il genere e la nascita della criminologia. Carocci.
Pitch T. (1987), Diritto e rovescio. Studi sulle donne e il controllo sociale, Edizioni scientifiche Italiane.
Pitch T. (1992), Dove si vive, come si vive, in Campelli E., Faccioli F., Giordano V., Pitch T., Donne in carcere. Ricerca sulla detenzione femminile in Italia, Feltrinelli, pp. 59-103.

References

References
1 http://dati.istat.it/; Giustizia penale, Autori e vittime dei delitti denunciati dalle forze di polizia all’autorità giudiziaria.
2 Come dimostrano vari lavori su queste tematiche (si veda, su tutti, Anastasia 2022).