Donne e bambini

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1024 538 Ventesimo rapporto sulle condizioni di detenzione

Donne e bambini

Alla fine di febbraio 2024 le donne in carcere erano infatti 2.611, pari al 4,3% della popolazione detenuta totale, una quota che negli ultimi decenni ha visto solo piccole oscillazioni.

Si conferma sostanzialmente stabile il dato percentuale relativo alle donne detenute nelle carceri italiane. Alla fine di febbraio 2024 le donne in carcere erano infatti 2.611, pari al 4,3% della popolazione detenuta totale, una quota che negli ultimi decenni ha visto solo piccole oscillazioni.

La media di presenze femminili nei paesi del Consiglio d’Europa è pari, secondo l’ultimo dato disponibile, al 5,4%

La media di presenze femminili nei paesi del Consiglio d’Europa è pari, secondo l’ultimo dato disponibile, al 5,4% (una cifra tuttavia influenzata da piccolissime realtà quali quelle dei Principati di Monaco e di Andorra che con 2 e 6 donne detenute rispettivamente fanno alzare fortemente la media complessiva). La percentuale di donne in carcere è pari all’1,2% in Albania, al 2,8% in Azerbaijan, al 3,7% in Bulgaria, al 3,9% in Turchia, mentre è pari al 4,5% in Danimarca, al 5,6% in Germania, al 6% in Svizzera, al 6,2% in Austria, al 7% in Portogallo, al 7,1% in Spagna, all’8,1% Repubblica Ceca, all’8,3% in Islanda. Proporzioni non precisamente allineate l’una all’altra, che tuttavia testimoniano di una netta residualità della detenzione femminile. A livello mondiale, la presenza di donne in carcere è pari al 6,9% della popolazione carceraria globale.

La separazione diurna tra uomini e donne rischia di influire negativamente sull’offerta di attività significative verso il reparto femminile.

Le carceri interamente femminili sul territorio italiano sono solo quattro (a Roma, Venezia, Pozzuoli e Trani). In esse sono recluse 646 donne (di cui 366 nel solo Rebibbia femminile a Roma, il carcere femminile più grande d’Europa), meno di un quarto del totale delle donne detenute. I restanti oltre tre quarti si trovano in sezioni femminili all’interno di istituti a prevalenza maschile. Attualmente sono 45 (dove nel carcere di Turi è da poco ospitata una sola donna, probabilmente in via provvisoria), alcune delle quali di dimensioni molto ridotte: il carcere di Reggio Emilia ospita 14 donne a fronte di 259 detenuti uomini, quello di Piacenza ne ospita 16 a fronte di 392 uomini, quello di Mantova 9 a fronte di 134 uomini, quello di Barcellona Pozzo di Gotto 5 a fronte di 233 uomini. Situazioni nelle quali la separazione diurna tra uomini e donne rischia di influire negativamente sull’offerta di attività significative verso il reparto femminile.

Le detenute transessuali, che sono circa 70 nelle carceri italiane, vengono allocate dall’Amministrazione Penitenziaria secondo il loro sesso biologico, dunque in istituti maschili, ma vengono tenute separate dal resto della popolazione reclusa.

La stessa cosa si può dire delle sei sezioni per detenute transessuali (che si trovano a Roma Rebibbia Nuovo Complesso, Como, Ivrea, Reggio Emilia, Belluno e Napoli Secondigliano). Le detenute transessuali, che sono circa 70 nelle carceri italiane, vengono allocate dall’Amministrazione Penitenziaria secondo il loro sesso biologico, dunque in istituti maschili, ma vengono tenute separate dal resto della popolazione reclusa.

A questi spazi si aggiungono inoltre i tre Icam (Istituti a custodia attenuata per madri) attualmente in funzione, a Milano, Torino e Lauro. In essi sono recluse oggi complessivamente 12 donne con i loro figli. L’Icam di Lauro, che ha una capienza di 50 posti, ospita solo 4 detenute madri. È una struttura autonoma, curata, con le stanze ampie e somiglianti a piccoli appartamenti dotati di salottino, cucina, bagno, arredamento moderno e funzionale.

Complessivamente, tra Icam e sezioni nido di carceri ordinarie, 19 donne vivono attualmente in carcere con i loro 22 bambini.

Complessivamente, tra Icam e sezioni nido di carceri ordinarie, 19 donne vivono attualmente in carcere con i loro 22 bambini. Erano 20 con 20 bambini al 31 dicembre 2023, quando le detenute incinte erano 12. Tra queste, la ventiseienne che all’inizio dello scorso marzo ha perso il proprio bambino nel carcere di Sollicciano a Firenze a causa di complicazioni della gravidanza. Era già accaduto nel luglio 2022 che una donna perdesse il bimbo dopo essersi sentita male nell’istituto milanese di San Vittore, così come nel marzo 2019 a Pozzuoli. A Rebibbia a Roma, invece, nell’agosto 2021 una donna ha partorito all’improvviso nella propria cella con il solo aiuto della compagna di stanza. Nonostante tutto ciò, il disegno di legge governativo recante “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario” (C. 1660) in discussione in Parlamento prevede l’abolizione del rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena per le donne incinte.

Il numero dei bambini in carcere è fortemente diminuito negli ultimi anni.

Il numero dei bambini in carcere è fortemente diminuito negli ultimi anni. Come si può vedere dalle cifre, la cosiddetta Legge Finocchiaro (L. 40/2001) recante “Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori”, che nel 2001 ha introdotto la detenzione domiciliare speciale per detenute madri, non ha contribuito alla deflazione del sistema, così come non lo ha fatto la cosiddetta Legge Buemi (L. 62/2011), che dieci anni dopo ha introdotto le case famiglia protette senza tuttavia provvedere a una copertura finanziaria per esse. È stata piuttosto l’esperienza della pandemia a comportare una netta riduzione dei numeri. La consapevolezza da parte della magistratura del pericolo che il Covid-19 poteva costituire per i bambini ha fatto sì che, senza cambiamenti normativi, si applicassero le leggi già esistenti al fine di farli uscire dal carcere. Cosa che dunque si poteva fare già ben prima.

Avendo menzionato la detenzione domiciliare speciale e le misure a tutela del rapporto tra madre detenuta e bambini, vale la pena di ricordare la recente pronuncia della Corte Costituzionale (Sentenza n. 219 dell’11 dicembre 2023) che ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal magistrato di sorveglianza di Cosenza in relazione alla possibilità per il detenuto padre di usufruire della detenzione domiciliare ex art. 47-ter dell’ordinamento penitenziario per ripristinare la convivenza con il figlio di età inferiore a dieci anni non alle stesse condizioni della madre bensì solo in caso che questa sia deceduta o impossibilitata ad assistere la prole. Tra le altre cose, valutando l’interesse del minore alla presenza di una doppia figura genitoriale, la Corte ha notato, richiamando una propria precedente decisione, che il principio del superiore interesse del minore “non forma oggetto di una protezione assoluta, insuscettibile di bilanciamento con contrapposte esigenze, pure di rilievo costituzionale, quali quelle di difesa sociale, sottese alla necessaria esecuzione della pena”.

Tra i reati ascritti alle donne che si trovano in carcere, la categoria maggiormente rappresentata è quella dei reati contro il patrimonio

Tra i reati ascritti alle donne che si trovano in carcere, la categoria maggiormente rappresentata è quella dei reati contro il patrimonio, che alla fine del 2023 rappresentava il 28,7% di tutti i reati ascritti a donne detenute. La corrispondente percentuale per gli uomini era pari al 23,7%. Seguono i reati contro la persona, che rappresentavano per le donne il 18,5% del totale (in linea con gli uomini, per cui tale percentuale era pari al 18,4%) e i reati legati alla droga (15% del totale, percentuale pari al 14,4% per gli uomini). Per quanto riguarda i reati legati alle armi, essi rappresentano il 2,3% di quelli ascritti a donne detenute e il 6,6% di quelli ascritti a uomini detenuti (per i quali dunque pesa probabilmente, nel paragone con le donne, più la rapina rispetto al furto all’interno dei reati contro il patrimonio). Quanto all’associazione di stampo mafioso, pesava per il 3,9% dei reati ascritti a donne detenute e per il 6,5% dei reati ascritti a uomini detenuti. Tendenzialmente, anche guardando alle pene inflitte, possiamo evidenziare un minore peso criminale delle donne rispetto agli uomini. Oltre che dai dati diretti in tal senso, possiamo indirettamente evincere la minore lunghezza della permanenza in carcere delle donne rispetto a quella degli uomini guardando agli ingressi in carcere. Si può infatti vedere che la percentuale degli ingressi di donne è maggiore della loro presenza nella fotografia di un istante.

Al 31 dicembre 2023 erano 701 le donne straniere detenute, pari al 26,8% delle donne in carcere e al 3,7% dei detenuti stranieri nel loro complesso.

Al 31 dicembre 2023 erano 701 le donne straniere detenute, pari al 26,8% delle donne in carcere e al 3,7% dei detenuti stranieri nel loro complesso. Le prime tre nazionalità più rappresentate erano la rumena (168 donne), la nigeriana (95 donne) e la marocchina (40 donne). Le detenute straniere sono in continuo calo numerico. Un anno prima, alla fine del 2022, costituivano il 30,5% del totale delle donne detenute, mentre dieci anni fa coprivano oltre dieci punti percentuali in più.

La minore gravità dei reati commessi da donne e la loro minore pericolosità sociale conducono a una maggiore concessione delle misure non detentive.

Uno sguardo alle misure alternative alla detenzione ci mostra come le donne siano qui molto più rappresentate rispetto alla loro presenza percentuale in carcere. Alla fine di febbraio 4.025 donne stavano scontando una delle tre classiche misure alternative, il 9,5% del totale delle persone in misura alternativa. La minore gravità dei reati commessi da donne e la loro minore pericolosità sociale conducono a una maggiore concessione delle misure non detentive. Tra le misure, tuttavia, la detenzione domiciliare pesava per il 32,9% mentre l’affidamento in prova – che prevede una assai maggiore libertà e un programma quotidiano ben più significativo in termini di attività – pesava per il 66,3%. Le stesse percentuali relative agli uomini vedono la detenzione domiciliare al 28% e l’affidamento al 69%, in una visione stereotipata che non conferisce alle attività della donna esterne al domicilio un pari valore di quello percepito nelle attività maschili. Sempre alla fine di febbraio, 4.025 donne erano sottoposte a un provvedimento di sospensione del processo con messa alla prova, pari al 15,3% del totale delle persone messe alla prova.

È stato evidenziato come la speranza di ottenere una misura aperta quale l’affidamento in prova cresca con la maggiore aderenza della donna a un ideale di ordine sociale femminile costituito primariamente dall’ordine famigliare.

Una recente ricerca condotta in Veneto e coordinata dall’Università di Padova (“Madri in esecuzione penale esterna in Veneto: un’analisi intersezionale”, di Claudia Mantovan, Veronica Marchio, Francesca Vianello, in “Antigone”, Anno XVII, 2022, n. 2, “L’esecuzione penale delle donne: temi, ricerche, prospettive”) ha mostrato come le decisioni della magistratura sulla concessione o meno di alternative al carcere alle donne, così come le preliminari valutazioni dei servizi sociali, si fondino in maniera essenziale su una serie di elementi identificati come di “affidabilità sociale” che non sono direttamente legati al tipo di reato o al comportamento della persona. Attraverso lo studio di numerosi fascicoli, è stato evidenziato come la speranza di ottenere una misura aperta quale l’affidamento in prova cresca con la maggiore aderenza della donna a un ideale di ordine sociale femminile costituito primariamente dall’ordine famigliare. La donna che ha una relazione stabile con un uomo a propria volta affidabile ha più possibilità di ottenere la misura alternativa sperata. Ancor più, la presenza di figli contribuisce grandemente a una valutazione positiva. Non solo per permetterle di accudirli ma anche, come emerge dai fascicoli, in quanto la maternità è considerata una deterrenza verso il crimine e un fattore di moralità e aderenza a valori sociali corretti. Se ascoltiamo però le parole delle stesse donne coinvolte, scopriamo come per loro l’accudimento dei figli senza poter contare su alcun sostegno diventi un grande fattore di stress e un ostacolo alla possibilità di utilizzare la misura alternativa per svolgere anche attività utili al reinserimento sociale (trovare un lavoro, prendere la patente, frequentare un corso di formazione professionale o altro), in un circolo vizioso su quale bisognerebbe riflettere ai fini della sua interruzione.