Ventesimo rapporto sulle condizioni di detenzione

Suicidi e lettere del difensore. Sopravvivere nonostante la detenzione

Suicidi e lettere del difensore. Sopravvivere nonostante la detenzione

Suicidi e lettere del difensore. Sopravvivere nonostante la detenzione

1024 538 Ventesimo rapporto sulle condizioni di detenzione

di Jessica Lorenzon

Suicidi e lettere del difensore. Sopravvivere nonostante la detenzione

Mi suiciderò, perché sono libero. E non considero la libertà una parola vana: l’estendo, al contrario, fino al diritto di togliermi la vita se la prevedo per sempre infelice.
E. Coeurderoy, 1855

“Questo è il carcere di P. e questa è la mia vita che se ne sta andando e ve lo segnalo anche. E se ne sta andando anche quella del mio vicino di cella”.
Lettera all’Ufficio del Difensore civico di Antigone

Per la stesura di questo contributo ho visionato il prezioso, quanto mesto, insieme di testi inviati da detenuti e familiari

L’affermazione “sopravvivere nonostante la detenzione in carcere” vuole essere un riconoscimento alle notevoli capacità di sopravvivenza messe in atto dalle  persone che si trovano in una condizione di privazione della libertà ad alto impatto afflittivo, nonché una riflessione sulla detenzione stessa come prima causa della scelta suicidaria che all’interno degli istituti di pena sempre più spesso si pone in essere.

Due note introduttive si rendono necessarie. La prima premessa per sottolineare che, considerare la detenzione in sé come elemento principale e determinante nella scelta suicidaria, è una postura sostenuta dai dati e dalle ricerche nazionali e internazionali condotte fino ad oggi sul tema. La seconda nota introduttiva per escludere un’accusa diretta, rivolta a coloro che, a vario titolo, ogni giorno attraversano le patrie galere per prestarvi servizio più o meno formalmente riconosciuto (dal personale incaricato negli istituti al volontariato). Sul valore delle buone intenzioni dei singoli, infatti, non si vuole discutere o disconfermare nulla, bensì riconoscere come l’estrema sofferenza che caratterizza l’ambiente detentivo incida anche su chi all’interno vi opera, con la differenze però che per queste persone vi sono a disposizione coperture sindacali e ampie possibilità di ascolto e di riconoscimento nel caso di denuncia. Per gli altri invece, per la popolazione detenuta, la scelta dell’estrema fuga si origina sotto la piena responsabilità e tutela da parte dello Stato e con minime possibilità di reclamare aiuto ed essere poi ascoltati.

Per la stesura di questo contributo ho visionato il prezioso, quanto mesto, insieme di testi (lettere personali, istanze, segnalazioni a garanti locali e regionali, testimonianze etc.) inviati da detenuti e familiari in forma di richiesta di aiuto e che raccoglie quelle che potremmo chiamare “segnalazioni di rischio suicidario”. Tutto il materiale, riferito agli ultimi anni, è sistematicamente raccolto dall’Ufficio del Difensore civico di Antigone. Senza la voce delle persone direttamente interessate ed emotivamente coinvolte, quindi di coloro che stanno al margine, non avrei potuto provare a fare più chiarezza verso il “centro”, ovvero quel campo di responsabilità e autorità che confluisce nella istituzione penale e che, a mio avviso, necessità di un urgente ravvedimento rispetto all’amministrazione della sofferenza che pone in essere.

Vorrei precisare che intendo il suicidio come l’atto di togliersi la vita ma mantengo morbidi i confini di questa definizione perché una persona che viene privata della sua identità, della sua storia e della sua dignità, faticosamente può dirsi una persona in vita. Il suicidio come scelta di togliersi la vita quindi, ma anche come scelta di abbandono della realtà, un lasciarsi andare nell’impossibilità di autodeterminarsi nel contesto penitenziario. In questo senso vorrei richiamare alla memoria la vicenda dell’uomo che dorme, denunciata e poi curata da Antigone qualche anno fa; si tratta della storia di un uomo sopravvissuto al carcere. Successe in un carcere di Roma, il protagonista un ventottenne originario del Pakistan che si trovava in una stanza di degenza del centro clinico dell’istituto. Apparentemente sdraiato e dormiente, di fatto in una sorta di coma psicologico. Riportava così Susanna Marietti, coordinatrice dell’Associazione, la situazione:

L’infermiere mi ha spiegato che il ragazzo dorme sempre. Lui gli svuota il catetere, gli cambia il pannolone, gli infila un po’ di cibo liquido in bocca che l’uomo deglutisce in maniera meccanica. Gli ho domandato da quanto tempo il ragazzo si trovasse in quelle condizioni. Alcuni mesi

Il personale del carcere lo definì un simulatore, a fronte di una cartella clinica sanitaria senza segni oggettivi riscontrabili. Ancora Marietti:

Ho provato a dire che la simulazione è un comportamento che viene messo in atto intenzionalmente e che nessuno simulerebbe mesi di morte apparente. Mi sono chinata sul volto del ragazzo e gli ho parlato all’improvviso e ad alta voce. Non ha mosso un muscolo della faccia. Ho chiesto al suo compagno di stanza se per caso lo avesse mai colto ad alzarsi dal letto per sgranchirsi le gambe, magari in piena notte quando credeva di non essere osservato. Mi ha risposto di non averlo mai visto con gli occhi aperti e non aver mai sentito la sua voce.

La vicenda finì in positivo, l’uomo dormiente venne trasferito e preso in carico da una équipe di esperti; per arrivare a questa prima conclusione fu necessaria una denuncia pubblica da parte dell’Associazione. Qualche mese dopo aver appreso della vicenda dell’uomo dormiente, all’interno di un penitenziario del Nord Italia si stava discutendo con alcuni detenuti in occasione di un seminario. Durante il dibattito uno di loro informò di aver conosciuto anch’egli un uomo dormiente in una delle sue precedenti detenzioni, si trattava del suo compagno di cella. Non è mai stato chiarito se si trattasse dello stesso uomo, parrebbe di no, la notizie ci fece subito riflettere sulla relatività dei dati su coloro che si danno la morte in carcere. Motivo in più per non porre, in questo contributo, il focus sul dato assoluto delle persone che si sono tolte la vita, poiché il dato è potenzialmente sfumato e vi sono molte vie per lasciarsi lentamente andare.

Le nostre vite sono solo numeri, non valgono niente per nessuno (segnalazione ad Antigone)

Non citerò quindi i numeri aggiornati dei suicidi o le serie storiche, considerando che, all’interno del Rapporto, e in particolare del Dossier sui suicidi in carcere già molto è stato detto sui picchi raggiunti dalle morti in carcere negli ultimi anni.  Considero altresì utile riflettere su quante volte questi numeri andrebbero interpretati in senso diffuso e ampio per dare riconoscimento alla sofferenza, non di rado tradotta in morte, che tocca – in qualità di vittime secondarie – le persone che perdono una persona cara in carcere. Esemplificative in questo senso le parole della compagna di un giovane detenuto, il quale ha più volte tentato il suicidio e a cui è stata certificata una sofferenza psichica.

E se la dottoressa quel giorno non si fosse trovata a passare da lì, cosa sarebbe successo mi chiedo sempre? E se le lamette da lui ingerite avessero lacerato qualche porzione del suo intestino? E se i tagli sui polsi avessero interessato delle arterie principali, cosa vi avrei raccontato oggi? Probabilmente nulla, perché sarei morta con lui. Di fronte ad un racconto di poche righe, perché tanti sono gli episodi scioccanti, raccapriccianti, laceranti per me che li racconto, mi rendo conto che di fronte a tutto ciò che avrei da dire, rimane da dire poco e niente. Il dolore è così grande che a volte mi confonde ed io non riesco bene, come facevo un tempo, a ricordare gli episodi secondo la loro corretta sequenza (Segnalazione della moglie di un detenuto al Difensore civico).

E come ci si dovrebbe porre invece, nei confronti di quelle persone che non possono venire a conoscenza del suicidio della persona cara poiché le istituzioni non sono a conoscenza del nome del detenuto? Non è infrequente infatti che tra la popolazione detenuta vi siano uomini la cui identità è sconosciuta, privi di qualsiasi documento di riconoscimento, spesso detenuti per reati c.d. di lieve entità, le cui biografie riportano rischiose rotte migratorie, isolamento e abbandono istituzionale. E come dovrebbero essere invece considerati nel conteggio i dati dei suicidi non ancora avvenuti ma intensamente paventati? I quali vengono talvolta classificati come simulazioni stretegiche (scelta peraltro logica da parte della persona detenuta, ossia coerente con lo scopo di ricevere attenzione da parte di un sistema che non regge alla molteplice tipologia e alla quantità delle richieste dell’utenza). A questo proposito è significativa la testimonianza offerta all’Associazione da parte di un detenuto che racconta così la notte appena trascorsa:

La mattina dopo parlando con gli altri detenuti del braccio, ho saputo che la persona in questione aveva passato la notte minacciando il suicidio, e solo quando le urla erano diventate molto forti, gli agenti avevano fatto irruzione nella cella, e senza preoccuparsi dello stato psichico della persona, hanno sequestrato gli oggetti che ritenevano utilizzabili per offendere se stessi, ma lasciando il detenuto al freddo senza possibilità di coprirsi, avendogli requisito le lenzuola e le coperte per rendergli impossibile l’impiccagione

Ribaltando lo sguardo, interpretando quindi un tentativo suicidario non come un tentativo di manipolazione bensì come monito, si apprende come molto spesso il suicidio venga paventato, discusso, gridato! Da qui la pertinenza dell’aggettivo estrema associato a fuga. Una costante quindi del fenomeno suicidario in carcere è che spesso quest’ultimo viene conclamato attraverso gesti e dichiarazioni più o meno esplicite. La riflessione assume maggiore importanza se associata alle fasce più sensibili del grande gruppo delle persone detenute in carico allo Stato: i giovani, in particolare i minori, le donne e gli stranieri sopravvissuti a rotte migratorie estreme. Il rapporto sui suicidi presentato dall’ex Garante e riferito al 2022, l’anno con il Grande numero di suicidi, segnalava una unica correlazione realmente significativa emersa durante lo studio del fenomeno, quella relativa agli eventi critici. Come a dire che, prima dell’estremo gesto, normalmente la persona tenta di avvisare e chiedere aiuto in modo molto incisivo.

Se uno ha bisogno qui crepa, e di crepare ci sto pensando pure io (segnalazione ad Antigone)

Il fare quindi ricorso a elementi socio-sanitari riferiti al singolo piuttosto che alla loro gestione, può essere configurata come una strategia cognitiva di disimpegno morale

Suicidio e disimpegno morale

Di fronte alla malattia mentale non c’è nulla che i non esperti possano fare (Direttore Sanità penitenziaria nel corso di un evento pubblico)

Si coglie quindi la complessità del fenomeno nel momento in cui ci si avvicina alla storie in modo diretto. Anzitutto, a fronte di quanto finora presentato, vorrei porre l’attenzione, al fine di una disconferma, su quelli che sono i motivi a cui spesso si fa riferimento all’interno di dibattiti pubblici o altre situazioni in cui si è chiamati a rispondere sui fatti. Le questioni ricorrenti riguardano principalmente la malattia mentale e la tossicodipendenza, situazioni direttamente collegate alla scelta suicidaria, con carattere causalistico, da parte di coloro che hanno la responsabilità istituzionale del trattamento del reo – sia in senso sanitario che sociale. Stando ai dati e all’analisi del fenomeno suicidario per come si esprime negli ultimi anni all’interno degli istituti, non vi sono però correlazioni che sembrano significative né con la certificazione di malattia mentale né con la certificazione di tossicodipendenza. Focalizzandosi ad esempio sull’anno 2022, il noto anno con il più alto numero di suicidi, si apprende che solo 11 tra le 85 persone che si sono tolte la vita avevano una diagnosi psicologica o psichiatrica. Nello specifico, l’evento suicidario si è verificato solo in tre casi all’interno di sezioni destinate alla cura di patologie psichiatriche. Andando a visionare ancora più nel dettaglio le singole storie, si apprende che tra gli 11 certificati almeno 3 non presentavano un quadro clinico chiaro bensì solo episodi (spesso pre-detentivi) di contatto con il campo dell’assistenza psichiatrica territoriale. Quanto delineato finora, il fare quindi ricorso a elementi socio-sanitari riferiti al singolo piuttosto che alla loro gestione, può essere configurata come una strategia cognitiva di disimpegno morale. Ciò non stupisce viste le difficoltà sul piano etico ed emotivo di assumersi, di fronte al pubblico, la responsabilità di essere coinvolti quotidianamente con un sistema in piena crisi, dal quale in molti scelgono di scappare attraverso la già citata estrema fuga. Peraltro l’alto indice dei suicidi interessa, come si sa, sia la popolazione detenuta che coloro che in carcere vi lavorano a stretto contatto, non certo i decisori ultimi, i quali raramente attraversano con i loro corpi e i loro sguardi le invivibili condizioni di molti Istituti di pena. Se da una parte è importante il riconoscimento della complessità, dell’unicità dell’esperienza individuale e delle molteplici condizioni che affiorano circostante a una scelta estrema, dall’altra è innegabile che una retorica che cerca la causa all’interno del singolo attraverso processi di deresponsabilizzazione istituzionale risulta già in partenza un fallimento.

Considero strategicamente non utile fare appello a una correlazione dai tratti vaghi, delegando la responsabilità al campo medico-psichiatrico o, più spesso, alla non intelligibilità della sofferenza psichica

Ciò detto, vorrei presentare una riflessione volta a restituire legittimità alla sofferenza c.d. psicologica – termine a mio avviso che non garantisce dignità alla fenomenologia della sofferenza esistenziale che il carcere provoca – che caratterizza la popolazione detenuta e a chiarire ulteriormente la critica poc’anzi presentata. La questione psicologica e psichiatrica in carcere non è gestita in modo univoco tra istituti, questo per due motivi principali. In primo luogo ogni diagnosi è strettamente dipendente dallo sguardo di chi l’ha prodotta e non vera in sé, qualsiasi certificazione di forte malessere dovrebbe prevedere un conseguente  e adeguato trattamento, questo però in carcere non può essere garantito per via delle condizioni organizzative e delle carenze strutturali, per cui analizzare i dati sui suicidi in relazioni alle diagnosi prodotte tempo addietro, non di rado prima dell’ingresso in istituto, può risultare metodologicamente problematico. Senza contare che fuori è da tempo che nel campo psicologico e psichiatrico l’elemento della migrazione e della nazionalità-altra viene ritenuto essenziale negli accertamenti clinici, infatti, le categorie diagnostiche normalmente utilizzate per la cura della popolazione media occidentale non sempre si adeguano alle differenze e alle particolarità culturali e identitarie di coloro che provengono da contesti anche molto differenti. Quest’ultima precisazione peraltro si incrocia con l’assenza di mediatori culturali negli istituti, per cui risulta difficile per i clinici avvicinarsi a coloro che non parlano la lingua italiana e le lingue maggiormente conosciute.

Attraverso le visite dell’Osservatorio e l’analisi delle testimonianze  al Difensore civico si nota come in quasi tutte le situazioni sia rilevabile uno stato di sofferenza più o meno cronica, rispetto al quale volendo diagnosticare un disturbo non risulterebbe difficile farlo. Affermazione che risulterebbe peraltro sostenuta dall’ampio uso di psicofarmaci che caratterizza le prigioni italiane. Per tutte queste ragioni considero strategicamente non utile, se l’obbiettivo dovesse essere quello di arginare il fenomeno suicidario in carcere, fare appello a una correlazione dai tratti vaghi, delegando la responsabilità al campo medico-psichiatrico o, più spesso, alla non intelligibilità della sofferenza psichica. Meglio considerare piuttosto, che in condizioni di forte deprivazione e marginalità, fuggire è considerabile una scelta di sopravvivenza e rispetto della dignità umana e che è proprio in questi termini che talvolta viene configurata la scelta suicidaria dai suoi protagonisti.

Qual è quindi la fenomenologia del suicidio in carcere in Italia oggi? Quali sono gli elementi ricorrenti all’interno del vasto arcipelago penitenziario in relazione ai suicidi? In supporto alla trattazione, oltre al materiale fornito dal Difensore civico, si fa riferimento all’analisi svolta dal team di ricerca dell’ex Garante nazionale e una serie di altri contributi analitici che fanno luce sulle caratteristiche e sui processi intrinsechi all’istituzione penitenziaria e alla volontà dei singoli di abbandonarla definitivamente, volontà che emerge confrontando l’enorme sproporzione tra il numero di suicidi in carcere e quelli nella società libera.

La mancanza di libertà e autodeterminazione

La perdita dei diritti civili, momentanea e in altri casi permanente, è insieme anche una perdita delle possibilità decisionali, quindi della possibilità di riflettere in senso organizzato e personale sulla propria vita e sul proprio futuro anche dopo la scarcerazione. Per alcune persone questo spaesamento ha un impatto talmente forte e violento, anche in virtù dell’immaginario condiviso sul carcere, che la scelta suicidaria si compie proprio nei due momenti di attraversamento delle porte: nei primi momenti di detenzione (infatti più della metà degli atti suicidari avvengono durante il primo anno di detenzione, di questi quasi un terzo nei primi dieci giorni dopo l’ingresso) e poco prima dell’uscita (nel Dossier sui suicidi in carcere i dati aggiornati sull’intersezione tra suicidio e gate anxiety). Allo stesso modo l’imposizione di un copione quotidiano, con orari e pratiche fisse (es. la cena, gli orari del sonno, i momenti dedicati al riposo) e con la proposta di attività di vario tipo, culturali e pedagogiche ad esempio, aprioristicamente decise da altri, riducono la persona detenuta alla passività o alla forzata accettazione di un punto di vista esterno non scelto, attivando relazioni infantilizzanti o strumentali in cui la persona può facilmente perdere di vista la propria autodeterminazione e immaginare un futuro in autonomia.

La situazione psichica del signor K. si è drammaticamente aggravata anche a fronte del lungo ed ininterrotto periodo di carcerazione da lui patito ed agli improvvisi ed inaspettati trasferimenti in altri istituti penitenziari che ne hanno destabilizzato gli equilibri (segnalazione ad Antigone)

L’assenza di beni e servizi reperibili all’esterno

Molto si potrebbe dire su questo punto ma dallo studio del materiale e delle testimonianze emerge come dirimente la questione sanitaria. La questione sanitaria non declinata in termini epidemiologici o di processi diagnostici e trattamentali più o meno validi, quanto piuttosto nelle modalità in cui il diritto alla salute viene reso accessibile all’interno degli istituti di pena. Per chiarire viene presentata una testimonianza esemplificativa di come può essere percepito il trattamento sanitario in carcere da parte dei detenuti e dei loro familiari:

Sono a scrivervi questa mia denuncia che riguarda mio fratello, detenuto e ad oggi costretto a stare in una cella chiuso 24h su 24 in AS. Non può uscire dalla cella se non 2 ore al mattino e 2 ore al pomeriggio all’aria ma praticamente è solo, è cieco ed è su una sedia a rotelle; costretto a fare 6 autocateterismi al giorno da solo. Sta male, ha fatto richiesta di avere un dentista ma è da due mesi che aspetta ancora niente. Dovrebbe essere monitorato spesso da un dottore per le sue pluri-patologie ma il dottore a volte lo vede anche dopo due settimane. Sta in una cella piena di muffa, ha già dato segni di squilibrio e avrebbe bisogno di vedere uno psicologo. Annuncia a mia madre tramite i colloqui telefonici che vuole farla finita, siamo disperate, tutte le notti non riusciamo a dormire con la paura di ricevere una telefonata che si è suicidato (segnalazione ad Antigone)

Voglio altresì portare un esempio di violazione della dignità personale declinato nel particolare della detenzione femminile. Ho incontrato recentemente una donna detenuta di mezza età, la quale mi ha confidato l’inizio della sua menopausa. La donna oltreché essere detenuta è straniera, povera e priva di riferimenti affettivi e familiari nel territorio. In relazione alla sua fase di vita ha forti dolori notturni ed emorragie, l’incontro con il medico non ha portato a soluzioni se non la prescrizione di un antidolorifico generico. La donna condivide la cella con altre compagne, le quali spesso le negano il prestito degli assorbenti igienici in virtù del fatto che essi sono difficilmente reperibili in istituto. La questione non riguarda quindi sono il problema dell’acquisto bensì anche della reperibilità degli stessi. A fronte di una situazione come quella presentata, la mia interlocutrice mi confida infine, piangendo d’umiliazione, di essere costretta a mettere della carta di giornale al posto degli assorbenti igienici che non sempre riesce a procurarsi.

La privazione dei legami e della cura

L’assenza di relazioni significative in contesto detentivo spegne la persona, la quale esiste in stretto rapporto ai ruoli che assume nei contesti sociali e alle interazioni umane che attraversa. In virtù di questo è importante offrire la possibilità di poter comunicare con l’esterno, in un perimetro safe (per la persona detenuta e per la collettività) e nella garanzia del mantenimento dei legami interpersonali; così si dimostrerebbe di avere coscienza che il carcere è un’istituzione situata all’interno di un contesto in rapida espansione tecnologica. Quanto può apparire anacronistico a un non addetto ai lavori, venire a conoscenza del fatto che in carcere si usano le schede telefoniche e coloro che non possono pagare le telefonate si trovano a chiedere la carità? Non di rado agli ecclesiastici che entrano in istituto. Non stupisce allora incontrare un uomo appena scarcerato che cerca invano una cabina telefonica poiché sprovvisto di altri mezzi, una immagine poco degna della tanto decantata risocializzazione.

L’isolamento sociale si fa ancora più grave nel caso delle persone straniere che vivono una condizione di aggravata subalternità in carcere, in relazione spesso all’assenza di capitale materiale e simbolico a disposizione. In proporzione gli stranieri scelgono più spesso di togliersi la vita, in particolare gli stranieri senza riconoscimento formale (es. documenti o un alloggio sul territorio). Studiando i tassi di suicidio con la variabile della nazionalità, si nota che l’incidenza è maggiore tra le persone di origine straniera (cfr. Dossier sui suicidi in carcere). Molto spesso tra loro vi sono persone c.d. innocenti fino a prova contraria, ovvero in attesa del primo grado di giudizio.

Nell’anno 2022 erano più di un terzo le persone in attesa di primo giudizio nel totale delle persone che si sono suicidate, come Antigone ha sottolineato diverse volte, sono proprio gli stranieri coloro che più spesso non possono accedere alla custodia cautelare per assenza di domicilio o altri riferimenti e si ritrovano in carcere a lungo in attesa del primo processo. Dal punto di vista della cura, ciò che sembra venire meno in modo costante è il supporto verso l’uscita, già citato come elemento particolarmente critico e preoccupante per molte persone detenute. Riporto l’estratto da una segnalazione formale fatta dall’Associazione alla Direzione di un istituto dove era detenuta una persona considerata a “rischio suicidario”:

Nella prima comunicazione del gennaio ’23, il sig. R., sulla base della lunga detenzione trascorsa (circa 26 anni), della partecipazione a diverse attività di reinserimento e del fine pena relativamente ‘breve’, chiedeva un ulteriore intervento di tipo trattamentale all’Amministrazione – e un sostegno all’Associazione Antigone per supportare tale richiesta – che tenesse in considerazione la necessità di apprendere un lavoro ovvero di recuperare attraverso la partecipazione ad ulteriori attività rieducative contatti funzionali ad un successivo inquadramento lavorativo al termine della detenzione

L’altro gruppo sociale in aggravata subalternità nelle prigioni è quello delle donne, tra queste le donne trans detenute paiono trovarsi nelle condizioni più sfavorevoli in assoluto. Disaggregando per genere il tasso di suicidi dello scorso anno, emerge come quello femminile sia sensibilmente superiore a quello maschile (cfr. Dossier suicidi Antigone 2024).

L’insicurezza e la minaccia costante

Quest’ultima forma di deprivazione è riconducibile alle minacce potenziali alle quali è esposta l’integrità personale dei detenuti. Tali minacce possono provenire sia dagli altri detenuti, sia dal personale in carica. Un elemento ricorrente nei testi visionati fa riferimento alla discrezionalità che caratterizza le relazioni – quasi sempre declinate in termini di premi e punizioni – tra detenuti e personale. Vi sarebbero, secondo quanto segnalato, gruppi di persone particolarmente avvantaggiati e seguiti e di converso altri gruppi sistematicamente isolati e a cui non vengono date risposte. Questa negazione della presa in carico, accompagnata talvolta dalla minaccia della punizione a fronte della lamentela, sembrerebbe essere un fattore altamente stressante che porta la persona a perdere le speranze rispetto al presente ma anche al futuro. In una lettera arrivata all’Ufficio del Difensore civico si legge la minaccia del suicidio, espressa nei termini di “Se…. Non garantisco di esserci per il buongiorno la mattina seguente”, da un detenuto con gravi problemi di salute e in attesa di una misura alternativa che lamenta, oltre alle difficoltà di presa in carica sanitaria, alcune aggressioni e atti di bullismo da parte di altri detenuti. Parlando con persone che hanno avuto lunghe esperienze di carcerazione emerge come esperienza condivisa quella di assistere a pratiche suicidarie, tentate e compiute. In carcere si fa quindi diffusamente esperienza di suicidio, come conferma questo frammento sulla lettera al Difensore civico da parte della compagna di un detenuto:

Riferisce che il suo compagno è caduto in uno stato di forte depressione e non mangia da giorni. Il signore è affetto da diverse patologie e non fa colloqui da quando è stato trasferito dal carcere di T. Loro si sentono tramite telefono o lettere. La situazione è peggiorata dalla morte del padre e da quando ha assistito al suicidio di un vicino di cella che si è impiccato

Dalle segnalazioni si nota che, un tema particolarmente problematico, risulta la gestione degli improvvisi e poco argomentati trasferimenti in altro istituto da un lato, dall’altro l’ostracismo di fronte alla richiesta di trasferimento proveniente dal detenuto stesso:

Il sig. L. ci scrive per una richiesta di trasferimento (…) e dice di aver provato tre volte il suicidio avvelenandosi e un’altra volta è dovuto arrivare un operatore per sciogliere il nodo del lenzuolo con cui ha tentato di impiccarsi

Infine

Concludendo, parrebbe essere la pena in quanto tale, nella sua espressione sia simbolica che materiale, l’elemento determinante per leggere nitidamente il fenomeno suicidario in carcere oggi. Materialità detentiva e simbolismo penale che non possono essere interpretati se non in relazione al fuori, all’esterno, alla libertà.

Quella sensazione di essere precipitato in un altrove esistenziale, totalmente ininfluente o duramente stigmatizzato anche dal linguaggio dei media e talvolta anche dalle istituzioni (…) Anche perché spesso vi si è giunti dopo vite condotte con difficoltà e lungo il bordo del precipizio che separa sempre più concretamente il percepirsi parte della collettività e il collocarsi ai suoi limiti estremi (ex Garante nazionale, 2023)

Per coloro invece che si tolgono la vita prima dell’uscita è il dopo che si rende minacciosamente sempre più temibile, spesso perché già conosciuto nel prima, nelle condizioni di vita all’ingresso, che la detenzione in carcere spesso non trasforma ma peggiora, garantendo sul piano formale un trattamento a fronte di possibilità ripetutamente negate nei fatti. 

Sintetizzando quanto discusso fino a qui, appaiono tre gli elementi che si presentano con costanza, in tempi e spazi diversi, e che caratterizzano le persone che scelgono di togliersi la vita in carcere:

  1. Una condizione di aggravata subalternità. In particolare per le donne, i minori e gli stranieri sopravvissuti a rotte migratorie estreme;
  2. Una condizione di conclamata povertà. Prima, durante e dopo la detenzione in carcere;
  3. Una condizione di progressiva negazione di riconoscimento della sofferenza manifestata autodeterminandosi. 

Essendo il fenomeno del suicidio un fenomeno strutturale, che da sempre si lega all’istituzione carcere  e che, ciclicamente, viene raccontato in termini emergenziali, appare difficilmente pensabile una risoluzione che non preveda almeno un totale ridimensionamento del progetto penitenziario. Ma considerato che una ridimensione totale del penitenziario dovrebbe quanto meno coincidere con un ridimensionamento sociale importante, quello che nel mentre si può fare è riconoscere come il carcere sia teatro di estreme fughe anche in ragione di un fuori che non sa rispondere ai bisogni della collettività. 

Riferimenti

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Bourdieu, P. (1990). La domination masculine. Actes de la recherche en sciences sociales, 84(1), 2-31.

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Collective, C. (2021). Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza.

hooks, b. (2020). Elogio del margine: Scrivere al buio. Tamu.

Rapporto sui suicidi del Garante nazionale delle persone private della libertà personale, anno 2023.

Rodríguez-Lirón, A., Muro-Celma, C., Hernández-Sánchez, F., Sampedro-Vidal, M., & Peraire, M. (2024). Suicidal ideation among prisoners: analysis with a gender perspective in a five-year follow-up (2017-2022). Rev Esp Sanid Penit, 26(1), 24-32.

Sykes, G. (1958). The pains of imprisonment. The society of captives: A study of a maximum security prison, 63-78. 

https://www.europris.org/news/space-i-2022-report-on-the-council-of-europe-annual-prison-statistics-2023/