Questo modello di detenzione fa riferimento a tre principi fondamentali: scala ridotta, individualizzazione e integrazione nella comunità
Il 21 marzo siamo stati ospiti del Senato federale belga, su invito della rete europea Rescaled, per discutere con rappresentanti delle istituzioni e della società civile europea della detenzione su piccola scala.
Negli ultimi anni è infatti cresciuto in Europa l’attivismo e la visibilità di Rescaled, una rete che sostiene modelli di detenzione su piccola scala che mettono in discussione l’efficacia dei grandi complessi carcerari e delle tradizionali misure di sicurezza. Questo modello di detenzione fa riferimento a tre principi fondamentali: scala ridotta, individualizzazione e integrazione nella comunità.
Nel 2022 Rescaled ha provato a mappare e descrivere le pratiche più interessanti di detenzione su piccola scala in europa, differenziate e integrate nella comunità, adottando una comune matrice di valutazione, che a sua volta è servita come base per la preparazione di rapporti dettagliati. Il tutto allo scopo di arricchire la comprensione delle pratiche più interessanti e di ottenere una visione approfondita dei fattori che contribuiscono al successo, o ai potenziali rischi, associati all’implementazione di strutture di detenzione su piccola scala.
Per comprendere correttamente l’approccio di Rescaled è importante innanzitutto chiarire, nelle intenzioni di chi ha dato vita al progetto, a cosa si riferiscono i tre principi enunciati sopra.
1. Piccola scala: Le case di detenzione hanno una capacità limitata, per permettere la creazione di una comunità in cui gli individui possano riacquistare la propria autonomia e agire in modo responsabile.
2. Individualizzazione: Per individualizzazione si intende la creazione di un ambiente ottimale che soddisfi le esigenze e circostanze uniche degli individui. Comporta l’ambizione a collocare gli individui all’interno di un contesto appropriato in base ai loro bisogni e alle loro caratteristiche. Ciò può essere fatto contenendo la dimensione della sicurezza in funzione del rischio concretamente rappresentato dagli utenti e fornendo un sostegno completo e personalizzato, attraverso servizi, attività e programmi, per preparare le persone al ritorno nella società.
3. Integrazione nella comunità: Le case di detenzione dovrebbero essere integrate nella comunità locale, per consentire l’interazione e la collaborazione con la comunità stessa. Utilizzando i servizi comunitari esistenti e offrendo a loro volta servizi condivisi ai residenti in linea con le loro esigenze, le case di detenzione dovrebbero stabilire legami significativi con la comunità.
Il progetto è chiaramente ambizioso e si scontra, in maniera frontale, con molte delle caratteristiche che generalmente associamo alla detenzione
Il progetto è chiaramente ambizioso e si scontra, in maniera frontale, con molte delle caratteristiche che generalmente associamo alla detenzione. Sembra impossibile ad esempio parlare di piccola scala, in un’Europa in cui apparentemente si costruiscono carceri sempre più grandi. O ragionare di individualizzazione, un principio spesso enunciato, ma che solitamente rappresenta solo un flebile tentativo di contrastare la spersonalizzazione, deresponsabilizzazione e irrigimentazione che quasi naturalmente associamo alla detenzione. E lo stesso vale per la integrazione nelle comunità, anche questo un principio a cui ci si appella spesso, ma che solitamente certo non prevale rispetto al suo opposto, ovvero l’idea che il carcere sia anzitutto un dispositivo di separazione dalla comunità.
Oggi in Lituania stanno aprendo molte transition houses, carceri aperte per la preparazione al rilascio
Eppure, tra le esperienze descritte dalla mappatura fatta da Rescaled ci sono casi sorprendenti. Come ci si aspetta molti di questi riguardano i paesi scandinavi, paesi che tradizionalmente mettono assieme un ricorso limitato allo strumento penale e un notevole sostegno alle politiche di inclusione tramite un welfare solido e capillare. Ma si scopre anche che in questi anni sono accadute cose interessanti in altri paesi. È ad esempio il caso della Lituania, un paese che ha avuto per anni il più alto tasso di detenzione tra i paesi europei ed un modello detentivo sostanzialmente mutuato dall’Unione Sovietica. Oggi in Lituania stanno aprendo molte transition houses, carceri aperte per la preparazione al rilascio, che in qualche misura provano a fare propri i principi enunciati sopra: piccola scala, individualizzazione ed integrazione nella comunità.
Ed altrettanto negli ultimi anni è accaduto in Belgio, aprendo diverse transition houses, ma anche alcune strutture detentive pensate per un’utenza diversa, persone che devono ancora scontare pene lunghe, ma anche queste di piccole dimensioni e con livelli di sicurezza ridotti, adeguati al rischio effettivamente posto dalle persone ospitate e non tarati, come spesso accade nelle strutture detentive tradizionali, sul rischio posto dalla parte più conflittuale e meno cooperativa dell’utenza.
Infine, e questa è esperienza di molti paesi, Italia inclusa, per gruppi specifici di persone detenute, generalmente caratterizzati da qualche forma di vulnerabilità, si è tentato e si tenta il ricorso a strutture detentive su piccola scala, considerate generalmente un miglioramento rispetto alla detenzione di massa. Si pensi, per l’Italia, alle nostre molte piccole carceri minorili, agli ICAM per le detenute madri, o alle REMS per i destinatari di misure di sicurezza psichiatriche. Strutture di piccole dimensioni in cui probabilmente i passi avanti fatti in termini di individualizzazione ed integrazione con la comunità non sono esaltanti, ma in cui al tempo stesso il solo fatto delle piccole dimensioni finisce quantomeno per contenere il loro opposto, la spersonalizzazione e la chiusura tipiche delle strutture più grandi.
Mettendo in guardia dai rischi che la detenzione su piccola scala, se costruita con forme di partnership con il settore privato, possa aprire le porte a forme di privatizzazione della detenzione
Antigone ha accolto con piacere il confronto con questa realtà, mettendo a disposizione la propria esperienza e le proprie competenze. E ad esempio promuovendo una riflessione sulle modalità di monitoraggio e supervisione di queste strutture, che restano luoghi di privazione della libertà, e dunque contesti in cui il rischio di una compressione illegittima ed arbitraria dei diritti fondamentali è sempre presente. Ma anche mettendo in guardia dai rischi che la detenzione su piccola scala, se costruita con forme di partnership con il settore privato, come accade in alcuni casi ad esempio nei Paesi Bassi o in Portogallo, possa aprire le porte a forme di privatizzazione della detenzione. Un esito per noi inaccettabile ma che va sempre tenuto ben presente, specie in questi anni in cui abbiamo visto, non solo in italia, il bilancio disastroso dell’affidamento ai privati della gestione dei centri di detenzione per migranti.
Come dicevo abbiamo dunque accolto con piacere questo confronto. E questo per diverse ragioni. La prima, la più ovvia, è che siamo ovviamente interessati a conoscere meglio modalità e prassi di detenzione diverse da quelle a cui siamo abituati. Mentre molti studiosi e operatori di altri paesi sono interessati alle nostre, ed in particolare all’esperienza delle REMS, che in Europa è spesso considerata una buona pratica da cui prendere esempio.
La seconda è che in italia esiste comunque da anni un dibattito su questi temi, generalmente confinato agli addetti ai lavori, che è però in qualche misura venuto allo scoperto con la proposta di legge n. 1064 per l’istituzione delle Case Territoriali di Reinserimento Sociale. La proposta di legge è finalizzata ad istituire strutture alternative al carcere, volte ad accogliere tutti i detenuti e le detenute che stanno scontando una pena detentiva anche residua non superiore a dodici mesi. Al 31 dicembre 2023 erano, come abbiamo detto altrove, di ben 7.648.
In queste nuove strutture, di capienza limitata, compresa tra cinque e quindici persone, poste sotto la direzione del Sindaco o di qualcuno da lui delegato e nelle quali dovrebbe operare personale dipendente dal Comune, sarebbe concretamente possibile dare attuazione al principio costituzionale della finalità rieducativa della pena proprio grazie alle piccole dimensioni, ma anche alla integrazione nella comunità, elementi entrambi centrali per la riflessione a cui accennavo sopra.
Aprire una riflessione sulla funzione che vogliamo che il carcere svolga, sulle caratteristiche che dovrebbe avere per svolgerla e sugli indicatori che dovremmo usare per verificarne in concreto l’adeguatezza
Infine, e questo è forse per me il motivo di maggior interesse verso questo dibattito, l’occasione che questo rappresenta per aprire una riflessione sulla funzione che vogliamo che il carcere svolga, sulle caratteristiche che dovrebbe avere per svolgerla e sugli indicatori che dovremmo usare per verificarne in concreto l’adeguatezza.
Infondo decenni di dibattito insensato sui piani più o meno straordinari di edilizia penitenziaria non ci hanno fatto fare nessun passo avanti in questa direzione. Negli anni si è discusso di cifre astronomiche e di piani ambiziosissimi in termini di capacità di accoglienza. Migliaia e migliaia di posti detentivi promessi e mai realizzati, in un crescente delirio edificatorio, a cui non si è mai accompagnata una riflessione su cosa effettivamente si volesse costruire, e per farci cosa. Si continuano a riproporre vecchi modelli detentivi, più o meno umanizzati, che nei decenni abbiamo visto all’opera e che alla prova dei fatti hanno dimostrato di essere dispositivi buoni forse per lo stoccaggio di essere umani, generalmente in condizioni poco dignitose, ma nulla di più.
È questo il senso della detenzione nel nostro sistema? Il contenimento e la neutralizzazione delle persone che devono scontare una pena detentiva? Ci va bene così o vogliamo tentare altro? E in quali spazi, e con quali modelli organizzativi? Il dibattito sulla detenzione su piccola scala, come su ogni altro concetto di detenzione, pone inevitabilmente questi interrogativi ed impone una riflessione di cui non siamo stati capaci, e della quale c’è invece evidentemente un gran bisogno.